La valle è davanti a noi, rigogliosa e coperta di fiori selvatici. Molto in basso scorgiamo il nostro rifugio. Si trova, oltre ad alcune capanne di pastori costruite in pietra, su un prato che si affaccia su un dirupo. Il fondovalle è lontano e non riusciamo a vederlo. Dall’altra parte della gola c’è una montagna, con massi che spuntano tra boschi di conifere. Il bianco delle nuvole risalta contro il cielo azzurro.

È una bellezza quasi dolorosa da osservare: riempie il cuore ma fa trattenere il respiro. Forse è perché qui il tempo si conta in eoni (l’unità di misura che abbraccia più ere geologiche e corrisponde a un miliardo di anni) e questa grandiosità ci costringe a fare i conti con la nostra insignificanza.

Nei cinque giorni di escursioni sulle Dolomiti vediamo strati giganteschi di roccia deformati dalle forze immense della crosta terrestre. Le Alpi sono nate dalla collisione tra la placca continentale eurasiatica e quella africana. Le montagne che stiamo attraversando, parte delle Alpi sudorientali, qualche milione di anni fa erano barriere coralline in un mare tropicale. Seguiamo l’Alta via 1 (Av1), un itinerario lungo 125 chilometri che si snoda da nord verso sud. È considerato il più semplice per attraversare le Dolomiti e offre panorami bellissimi.

L’Alta via 1 è aperta da metà giugno a metà settembre e parte dal lago di Braies, in provincia di Bolzano, per arrivare fino a Belluno. Per completarla ci vogliono tra i sette e i dodici giorni.

Io e i miei tre amici abbiamo solo una settimana di tempo, quindi prendiamo gli impianti di risalita da Alleghe, in provincia di Belluno, un paese molto caratteristico con le classiche case di montagna che affacciano sull’omonimo lago, e cominciamo l’Av1 da circa metà percorso.

La nostra attesa cresce mentre la funivia ci porta in alto, sempre più vicini all’immenso gruppo del monte Civetta (3.220 metri). Quando raggiungiamo i duemila metri di altitudine siamo già tra le nuvole. Ci ritroviamo in un prato con gigli arancioni, ranuncoli gialli, raperonzoli viola e delicati denti di leone.

I colori dell’alba

Durante il cammino parti di roccia spuntano davanti a noi mentre la nebbia aumenta. Dopo un paio d’ore raggiungiamo il rifugio Coldai. Le nuvole sono basse e la visibilità è di pochi metri. Poco oltre il rifugio c’è il lago Coldai. Nella nebbia fitta smarriamo il sentiero, ma proprio quando stiamo per tornare indietro ci fermiamo sul lago. L’acqua è calma e fredda. Due di noi si avventurano in un breve bagno. Facciamo in tempo a tornare al rifugio proprio mentre comincia a piovere.

Di solito queste strutture offrono la mezza pensione (60 euro a notte) in stanze condivise, con cene abbondanti e colazioni semplici. La sala da pranzo, con pareti di legno e allegre tende a scacchi bianchi e rossi, è uno spazio confortevole dove rintanarsi quando fuori infuria il temporale. Mentre sorseggiamo tè e cioccolata calda davanti al camino, nella sala continuano a entrare escursionisti fradici di pioggia. Dopo essersi cambiati si uniscono a noi e ci raccontano la prima parte dell’Av1, quella che abbiamo saltato.

La cena prevede pasta al ragù, polenta al formaggio e funghi e una crostata di frutta. Finito di mangiare andiamo nelle stanze al piano di sopra, che sono piuttosto piccole e hanno letti a castello. Ci addormentiamo cullati dal suono della pioggia che batte sulle tegole in pietra. Durante la notte il temporale ha pulito l’aria, e la mattina ci godiamo un’alba meravigliosa: un cielo che prima è rosso fuoco, poi arancione e poi giallo. La luce illumina in modo spettacolare una serie di picchi, mentre dietro s’innalzano le pareti del massiccio della Civetta, finalmente in bella vista.

Dopo una colazione a base di pane, prosciutto e formaggio siamo pronti a partire. Nel sole della mattina il lago Coldai sembra molto più piccolo di quanto avevamo immaginato ieri, ma anche più spettacolare. Le montagne e le chiazze di neve si riflettono sull’acqua turchese. Nei giorni successivi fiancheggiamo il massiccio del monte Civetta, passando per grandi vallate e passi rocciosi. Superiamo distese di massi e una pendenza scivolosa in un punto danneggiato dal recente temporale, dove siamo costretti a procedere a quattro zampe. Nelle pianure pascolano splendide mucche grigie con i campanacci di metallo al collo, insieme a piccoli greggi di pecore. Ci riposiamo nei prati togliendoci gli scarponi e sentendo l’erba tra le dita dei piedi. Siamo circondati da rose e rododendri che avvolgono gli alberi come luci incantate.

Nel rifugio Vazzoler, che ha le caratteristiche imposte rosse, scopro i nomi di alcuni fiori nel giardino delle piante rare. Ci passeggio con un’escursionista canadese di settant’anni che sta percorrendo tutta l’Av1 con il suo compagno, che ha due anni di più di lei.

Il rifugio Carestiato sembra il più tirolese di tutti, con i canederli ai funghi e lo strudel di mele, spesso associati alla cucina dell’Alto Adige.

Il quarto giorno il tempo è piovigginoso. I saliscendi, uniti ai materassi sottili nei rifugi, hanno intaccato il nostro umore. Arriviamo al rifugio Pramperet dove troviamo un’accoglienza fredda e una stanza spartana, oltre a una doccia che si allaga e wc senza tavolette. Per rinfrancarci giochiamo a carte e sorseggiamo grappa locale aromatizzata alle erbe.

Seguire la cresta

Il giorno successivo lo scenario comincia a cambiare. Ci lasciamo alle spalle il Civetta per approdare negli spazi più ampi del parco nazionale delle Dolomiti bellunesi. La forcella de Zita Sud sarà il punto più alto della nostra escursione. Per chi come me soffre di vertigini, è importante sapere che si tratta di una cresta esposta con pendenze ripide su entrambi i versanti. Mentre ci inerpichiamo comincio a sentirmi sempre più a disagio. Vicini alla cima il percorso diventa difficile da individuare tra le rocce.

Arrivati in cima sbagliamo strada, seguendo una pendenza molto scoscesa sul versante opposto. Dopo essere scesi di quindici metri, prudentemente accovacciati, ci accorgiamo che quella via porta diretta a un crepaccio. Abbiamo una sola alternativa: tornare indietro da dove siamo venuti, aggrappandoci all’erba e pregando che regga. Quando raggiungiamo la cima ci sediamo tremanti. Guardando il gps ci accorgiamo che il percorso corretto segue la cresta, tra dirupi a destra e sinistra. Procediamo appoggiandoci con le mani e i piedi per restare stabili, cercando di non guardare di sotto. Poi la cresta si allarga e ci lasciamo cadere a terra per fare in modo che l’adrenalina si plachi. Davanti a noi si aprono i panorami mozzafiato del parco nazionale. Mentre entriamo in un’enorme vallata sentiamo il fischio delle marmotte. L’aria più umida attira farfalle dai colori intensi che si radunano intorno agli stagni e a volte si posano sulle nostre braccia per leccare il sale della pelle.

L’ultimo tratto verso il rifugio Pian de Fontana è una discesa su un sentiero a zig-zag largo trenta centimetri, dotato di una corda d’acciaio per tenersi. Al rifugio ci sediamo sotto gli ombrelloni della terrazza, spostandoci solo per osservare il trasporto delle provviste, che si fa usando una carrucola da due chilometri più a valle.

Nella confortevole sala con le pareti di legno la cena è abbondante. La maggior parte dei presenti completerà il percorso l’indomani. Dopo un’ottima pasta, una minestra calda di verdure e piccoli bicchieri di liquore al cioccolato ci dirigiamo verso i nostri letti, per la prima volta in un dormitorio da circa venti posti. Nel giro di mezzora dormono tutti. Qualcuno russa pesantemente.

Il Pian de Fontana è alle nostre spalle. Al termine dell’ultima salita dell’Av1 apprezziamo di nuovo il panorama, e poi cominciamo la discesa di 1.400 metri che ci riporta alla civiltà. Mi piacerebbe godermi quelle immagini più a lungo, ma mancano ancora diciannove chilometri e dobbiamo prendere un autobus per tornare ad Alleghe.

L’Alta via 1 è considerata il percorso meno complicato attraverso le Dolomiti, anche se non è per i deboli di cuore. Le discese vertiginose e i dolori ai muscoli delle gambe sono però compensati dalla bellezza sbalorditiva.

Questi luoghi ci ricordano che non siamo dei conquistatori, ma solo persone di passaggio. Il nostro tempo qui è un dono da non sprecare. ◆ as

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Questo articolo è uscito sul numero 1581 di Internazionale, a pagina 78. Compra questo numero | Abbonati