In apparenza tutto è calmo, ma a Binhai, vicino alla zona portuale di Tianjin, la collera è tangibile. È il 12 settembre e gli abitanti di Harbour City, il complesso residenziale più vicino al luogo dell’incidente, sono qui per sistemare le loro ultime cose. Un compito infinito, se l’appartamento è al trentesimo piano e non c’è più l’ascensore. “Le autorità hanno deciso di riparare le facciate e le finestre, finché durano i lavori non avremo più accesso all’edificio”, ci spiega Zhang Jun (il suo nome come quello degli altri è stato cambiato), uno dei proprietari.
Se oggi c’è tanta gente, però, la ragione è anche un’altra, sottolinea con circospezione Yang Jianfeng, che ci porta nella sua auto, per parlare lontano dai poliziotti in tenuta antisommossa ed evidentemente nervosi. “Il segretario distrettuale del Partito, Zong Guoying, deve venire qui a incontrare i delegati degli abitanti”. Il malcontento è alle stelle. Dopo quel trauma nessuno vuole più restare a vivere a Harbour City.
Le autorità propongono di riacquistare dai proprietari gli appartamenti al valore che avevano prima dell’esplosione, moltiplicato per un fattore di 1,3. Secondo i diretti interessati è insufficiente, poiché bisogna calcolare gli interessi già versati per rimborsare le ipoteche. Oltretutto, nessuno sa bene come sarà calcolato il valore che aveva l’immobile prima dell’esplosione.
La proposta non piace ai proprietari perché spesso sono i loro datori di lavoro a ricomprargli l’appartamento, e si tratta quasi sempre imprese pubbliche, come il porto di Tianjin.
Lo stato accusato di incompetenza, ma non di corruzione
“È una minaccia velata, ci tormentano, ci fanno capire che se non firmiamo ci andrà di mezzo la nostra carriera, potremmo essere trasferiti in posti scomodi, essere costretti a rinunciare a dei premi, o addirittura essere licenziati”, spiega in un inglese eccellente Jack, anche lui sui trent’anni. “È come un assegno in bianco, non ci consultano. Capisco che un incidente può sempre capitare, ma la gestione delle conseguenze è la parte più difficile da accettare”, afferma Zhang Jun.
Molti non si conoscevano ma l’esplosione ha creato dei legami
Nell’attesa, gli abitanti si arrangiano a casa di amici e parenti, o affittano un appartamento a prezzi spesso superiori ai 275 euro mensili concessi come forma di aiuto d’emergenza per soli tre mesi. “Ristrutturando gli appartamenti si possono cancellare le prove”, ci spiega Yang Jianfeng. Secondo lui, un ingegnere di una cinquantina d’anni che vive nell’edificio, dopo l’esplosione doveva essere aperta un’inchiesta giudiziaria.
“Assumere un avvocato costa troppo e nessuno osa difenderci, perciò ho presentato una querela in procura”, spiega. Una querela scritta con grande attenzione e molta cautela: contro l’agenzia che ha venduto appartamenti in una zona pericolosa, e contro lo stato, accusato di incompetenza, poiché i materiali tossici sono stati stoccati in base a certificati falsificati, e per non aver rispettato l’obbligo di effettuare dei controlli. Nessuna accusa di corruzione, troppo difficile da provare.
Il luogo dell’incontro tra i delegati e il segretario del Partito è stato modificato all’ultimo minuto, e alla fine le parti si vedono nell’ufficio delle petizioni di Binhai.
Yang Jiangfeng è tra i delegati. In mezzo agli steccati blu del cantiere, circa 300 persone aspettano il risultato della riunione. Molti non si conoscevano ma l’esplosione ha creato dei legami. Hanno fra i trenta e i quarant’anni e spesso sono stati i genitori a pagargli l’appartamento.
Gli anziani sono quasi assenti, come a illustrare l’evoluzione dei costumi politici nella Cina contemporanea. La maggior parte indossa una maglietta con su scritto: “Voglio casa mia!”. Sul retro si legge: “No alle firme estorte con la forza, sì a un equo risarcimento”. La polizia è presente, ma l’atmosfera resta tranquilla.
Il pragmatismo vince sulla solidarietà
La riunione dure quattro ore. “È stato deciso che continueremo a incontrarci almeno una volta alla settimana e che saranno create delle apposite commissioni per affrontare i vari problemi, i risarcimenti, le conseguenze sanitarie, eccetera”, ci spiega Yang Jianfeng. Non è dato saperne di più.
La sorte dei 99 pompieri morti durante l’intervento per spegnere le fiamme non sembra essere troppo importante per agli abitanti di Harbour City. “Mi dispiace molto, ma tutti dobbiamo morire un giorno o l’altro, e ai morti ci pensano Dio e le persone pie”, spiega con pragmatismo Yang Jianfeng. “Spesso è più difficile per i sopravvissuti, come il mio vicino di casa, ferito, che non ha più il coraggio di vivere”.
E tuttavia colpisce l’assenza di una commemorazione solenne a un mese dall’esplosione. “Non voglio dimenticare questa tragedia”, ci confessa commossa Liu Ping, 30 anni, venuta con suo marito per recuperare qualche effetto personale. “Ma ce l’hanno proibito ufficialmente, la sorveglianza è dappertutto, e questo potrebbe avere delle conseguenze professionali, e io devo lavorare per vivere, non mi posso permettere di perdere il lavoro. Soprattutto adesso”.
Questo articolo è uscito sul quotidiano francese Libération. Traduzione di Giusy Muzzopappa
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it