Domenica 4 marzo più di cinquanta milioni di italiani votano per rinnovare il parlamento. Lo fanno con una nuova legge elettorale, basata su un sistema misto: un terzo dei parlamentari sarà eletto con il maggioritario, gli altri due terzi con il proporzionale. A sfidarsi sono 7.662 candidate e candidati: 630 finiranno alla camera dei deputati e 315 al senato.

Le elezioni daranno vita alla diciottesima legislatura della repubblica italiana. La prima è cominciata l’8 maggio 1948, l’ultima il 15 marzo 2013: in mezzo ci sono stati 64 governi guidati da 28 presidenti del consiglio e un paese che è cambiato sotto molti punti di vista, ma che ha fatto anche dei passi indietro rispetto a settant’anni fa, o non è cambiato abbastanza.

Cinque grafici su temi come l’astensionismo, il lavoro, la povertà, l’emigrazione e le donne in parlamento aiutano a scattare una foto di questo paese.

Astensionismo
Un dato preliminare di cui tenere conto è questo: “Il 67 per cento degli italiani non ha alcuna idea di chi siano i candidati alla camera o al senato nel proprio collegio elettorale”, dice Pietro Vento, direttore dell’istituto di ricerca Demopolis. A molti di loro non interessa perché non andranno proprio a votare, concordano gli analisti dei flussi elettorali.

Dal 1948 a oggi, la loro percentuale è triplicata, passando dal 7,8 al 24,8 per cento. Stabile per tutti gli anni cinquanta e sessanta, ha cominciato a crescere dal 1976 e ha subìto un’impennata a partire dal 1992, dopo le inchieste della magistratura sulla corruzione nel mondo politico italiano. Oggi un terzo degli italiani non ha nessuna fiducia nei partiti politici e nel parlamento, dice l’Istat.

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Geograficamente, l’astensione è più marcata nell’Italia del sud. “È a partire dal 1953, in particolare, che ha iniziato a crescere l’astensionismo meridionale, probabilmente anche per l’emergere di una progressiva delusione dell’elettorato, che aveva inizialmente riposto attese e speranze nello strumento della partecipazione politica come opportunità per migliorare una condizione socioeconomica precaria e di forte disagio”, scrive Linda Laura Sabbadini dell’Istat.

Oggi il divario nord-sud è ancora considerevole. Alle elezioni politiche del 2013 più del 30 per cento degli elettori residenti in Puglia, in Calabria, in Sicilia e in Sardegna ha deciso di non andare a votare. La percentuale scendeva sotto il 20 per cento in Lombardia, in Trentino-Alto Adige e in Emilia-Romagna.

Disoccupazione
Se alla cartina dell’Italia che non vota si sovrapponesse quella dell’Italia che deve fare i conti con i tassi più alti di disoccupazione, si noterebbero delle coincidenze. Eppure il lavoro è stato il grande assente dalla campagna elettorale.

Nel 2016 cinque regioni italiane hanno fatto registrare un tasso di disoccupazione alto più del doppio rispetto alla media dell’8,6 per cento nell’Unione europea. In Calabria era del 23,2 per cento, in Sicilia del 22,1, in Campania del 20,4, in Puglia del 19,4, in Sardegna del 17,3. In Italia era dell’11,8 per cento.

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I dati sugli ultimi dieci anni scattano una fotografia precisa dell’Italia: nonostante l’aumento dell’occupazione, rispetto all’inizio della crisi finanziaria mondiale nel 2017, si lavora meno ore, per meno soldi e con contratti più precari.

I numeri più impietosi sono quelli sulla disoccupazione giovanile. L’Italia è il paese dove ci sono più neet in Europa: secondo il rapporto Occupazione e sviluppi sociali in Europa della Commissione europea, il 20 per cento delle ragazze e dei ragazzi tra i 15 e i 24 anni non ha un lavoro né sta studiando, quasi il doppio rispetto alla media europea, che è dell’11,6 per cento. A gennaio 2018, il tasso di disoccupazione giovanile è sceso al 31,5 per cento, dopo aver toccato picchi del 40 per cento negli anni precedenti, e del 58,7 per cento in Calabria.

Nonostante questi numeri, in campagna elettorale non ci sono stati particolari segnali di interesse verso i più giovani. Uno dei motivi è che il corpo elettorale italiano riflette l’invecchiamento della popolazione italiana. “Al 1 gennaio 2017”, scrive l’Istat, “i residenti hanno un’età media di 44,9 anni, due decimi in più rispetto alla stessa data del 2016”. Le persone con più di 65 anni sono il 22,3 per cento della popolazione italiana, quelle tra i 20 e i 25 sono il 5 per cento.

Povertà
Una delle conseguenze della mancanza di lavoro è che nel 2016 in Italia il 30 per cento delle persone è a rischio di povertà o esclusione sociale. La situazione è peggiorata rispetto all’anno precedente, dice l’Istat, e non migliora se si confronta a quello che succede negli altri paesi europei.

Secondo l’Eurostat, solo la Bulgaria, la Romania, la Grecia e la Lituania precedono l’Italia nella classifica dei paesi con il più alto rischio di povertà o esclusione sociale.

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Tra le regioni italiane, è la Sicilia quella dove la percentuale dei residenti a rischio è più alta. Nell’isola, più della metà dei residenti – il 55,4 per cento – vive in famiglie a rischio povertà o esclusione.

Emigrazione
Tutto questo influisce enormemente su chi decide di andarsene dall’Italia. “Dal 2006 al 2017”, si legge nel rapporto Migrantes, “la mobilità italiana è aumentata del 60,1 per cento, passando da poco più di 3 milioni a quasi 5 milioni”. Nel dettaglio, il 1 gennaio 2017 le persone iscritte all’anagrafe degli italiani residenti all’estero (Aire) erano 4.973.942.

La maggior parte ha scelto di vivere nel Regno Unito, in Germania, Svizzera, Francia. Ma c’è anche chi ha oltrepassato l’oceano, scegliendo l’America del Sud o gli Stati Uniti. La Sicilia è in testa alle regioni italiane che hanno più residenti all’estero, seguita dalla Campania e dalla Lombardia.

Nel 2006, grazie alla legge Tremaglia, tutte queste persone hanno potuto votare alle elezioni politiche per corrispondenza, cioè senza bisogno di tornare in Italia. Da allora, e nelle successive due elezioni politiche, tra loro l’astensionismo è cresciuto, passando dal 61 per cento al 68,4 del 2013.

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Nonostante la loro propensione a non votare, gli italiani all’estero sono stati almeno in un caso decisivi. Alle elezioni politiche del 2006, per esempio, hanno fatto la differenza, contribuendo in modo determinante alla vittoria di Romano Prodi.

Una questione di genere
Il corpo elettorale italiano è composto da quasi 51 milioni di elettori per la camera dei deputati e da poco più di 46 milioni per il senato. Se si guardano i numeri in dettaglio, si nota che le elettrici sono più degli elettori. All’incirca, si tratta di un milione e mezzo di donne in più.

Tuttavia, nonostante questa maggioranza, le donne elette alla camera e al senato sono sempre state una minoranza. Dalle prime politiche del 1948 a quelle del 2013 ci sono stati molti passi in avanti, ma la percentuale di deputate è ancora ferma al 31 per cento, contro il 36 della Germania, il 38 del Belgio, il 43 della Spagna.

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Le donne nei ruoli chiave sono state ancora meno. È vero che nell’ultima legislatura la presidente della camera è stata Laura Boldrini. Ma se si guarda alle 28 commissioni dove sono nate le leggi votate poi in parlamento, si scopre che solo quattro sono state presiedute da donne. Mentre a gestire i fondi dei gruppi parlamentari di camera e senato sono stati solo uomini.

Dalla nascita della repubblica italiana a oggi, mai nessuna donna ha guidato il governo, né è mai stata eletta come presidente della repubblica.

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