In India il blocco totale degli spostamenti e l’obbligo per gli abitanti di restare chiusi in casa hanno avuto conseguenze pesantissime, forse più che in ogni altro paese del mondo. Quando il premier Narendra Modi ha annunciato che, a partire dal 25 marzo e per almeno 21 giorni, sarebbero state adottate nuove e stringenti misure per contenere il nuovo coronavirus, un fiume formato da milioni di persone si è riversato sulle autostrade che escono dalle grandi città indiane per affrontare viaggi lunghi anche centinaia di chilometri verso i loro villaggi d’origine. Il governo aveva infatti bloccato treni, autobus e trasporti privati, senza tener conto del fatto che nei grandi centri urbani vivono anche molte persone originarie delle aree rurali che non hanno lavori stabili e spesso neanche un alloggio fisso. Alcuni commentatori hanno parlato della “più massiccia migrazione a piedi dai tempi della partizione del 1947” che, si stima, coinvolse venti milioni di persone.

Con il passare dei giorni da più parti sono arrivate accuse al governo di non aver pianificato con attenzione la risposta alla pandemia. Mentre sui social network si diffondeva l’hashtag #ModiMadeDisaster (un disastro creato da Modi), il 29 marzo il premier indiano si è sentito in dovere di chiedere perdono ai cittadini, in particolare ai più poveri. Ma allo stesso tempo ha ribadito che non c’erano alternative alle misure adottate. Solo così, ha spiegato, “l’India può vincere sul coronavirus”. Il 29 marzo i casi confermati di Covid-19 in India erano più di mille, con 29 morti.

Vittime della fatica e degli incidenti
Il sito Scroll.in scrive che da una rapida rassegna dei principali quotidiani del paese si possono contare almeno 22 casi di lavoratori e loro familiari morti mentre affrontavano viaggi in condizioni estreme. Il quotidiano The Times of India racconta la storia di Ranveer Singh, 39 anni, che faceva le consegne a domicilio per un ristorante di Delhi e dopo il blocco delle attività si era incamminato verso Agra. Percorsi duecento chilometri, è morto per un infarto. Altre persone, tra cui dei bambini, sono state vittime di incidenti stradali.

Un’altra storia che ha molto colpito gli indiani è quella di un gruppo di trecento lavoratori partiti da Mumbai che viaggiavano stretti come sardine nei cassoni di camion usati per trasportare derrate alimentari. In questo modo cercavano di sfuggire ai controlli della polizia. Secondo molti resoconti le forze dell’ordine non hanno esitato a usare la violenza per far rispettare i divieti.

In seguito alcuni stati, come quello di Delhi e dell’Uttar Pradesh, hanno predisposto dei pullman per accompagnare a casa queste persone. Così hanno cominciato a circolare immagini di stazioni degli autobus gremite di persone che fanno la fila per partire. Anche quando riescono a tornare a casa, queste persone spesso sono mal viste dal resto della comunità e vengono denunciate alla polizia, che le rinchiude in campi per la quarantena.

Prendendo atto dell’esodo di lavoratori migranti, il 30 marzo la corte suprema indiana ha dichiarato che il panico e la paura dei cittadini stanno diventando un “problema più grande del coronavirus” e ha chiesto spiegazioni al governo centrale.

“Non avevano alcun piano d’emergenza per affrontare l’esodo”, è stata invece l’accusa del politico d’opposizione Rahul Gandhi.

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Il 26 marzo il governo indiano ha annunciato un piano d’emergenza da 22,6 miliardi di dollari per sostenere l’economia con versamenti di denaro e distribuzioni di generi alimentari ai poveri. Ma in un articolo su Indian Express Abhijit Banerjee ed Esther Duflo – due dei tre economisti che hanno vinto il premio Nobel nel 2019 – sostengono che servano aiuti ancora più consistenti per aiutare le persone in condizioni di fragilità. Altrimenti “l’attuale crisi potrebbe avere un effetto valanga sull’economia, e le persone non avranno altra scelta che infrangere le regole”.

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