Nelle ultime settimane la questione del salario minimo è tornata al centro del dibattito politico, dopo il rilancio della proposta da parte del leader del Movimento 5 stelle, Giuseppe Conte, e del segretario del Partito democratico, Enrico Letta.
Secondo la definizione dell’Organizzazione internazionale del lavoro il salario minimo è l’ammontare di retribuzione minima che per legge un lavoratore riceve per il lavoro prestato in un determinato arco di tempo, e che non può essere in alcun modo ridotto da accordi collettivi o da contratti privati. Si tratta quindi di una soglia limite di retribuzione sotto la quale il datore di lavoro non può scendere.
Lo scorso 24 settembre, durante un’iniziativa organizzata dalla Cgil a Bologna, il segretario Maurizio Landini ha elogiato il salario minimo, come strumento per evitare un ritorno “al periodo pre pandemia”. Anche il presidente dell’Inps, Pasquale Tridico, si è detto favorevole dicendo che una quota di retribuzione minima di nove euro lordi potrebbe essere determinante “soprattutto per donne e giovani”.
Fratelli d’Italia e Forza Italia si sono opposti alla proposta, così come il presidente di Confindustria Carlo Bonomi, secondo il quale con l’introduzione del salario minimo c’è il rischio della fuga delle aziende dalla contrattazione collettiva.
Come emerge da una recente analisi realizzata per la camera dei deputati, nei paesi Ue che l’hanno introdotto il salario minimo si è di fatto aggiunto e non sostituito ai contratti collettivi stipulati tra i sindacati e le organizzazioni dei datori di lavoro.
Come funziona il salario minimo in Europa
Gli unici paesi europei che non hanno introdotto il salario minimo sono Italia, Austria, Finlandia e Svezia. Ma in questi ultimi tre paesi i salari sono cresciuti e solo una piccola percentuale di lavoratori non gode di contratti collettivi. In Italia, invece, l’Ocse calcola che dal 1990 al 2020 il salario medio di un lavoratore è sceso del 2,9 per cento. Inoltre nel 2020 la percentuale di lavoratori privi di contratti collettivi era di oltre il 55 per cento. Nello stesso periodo in Francia e Germania i salari medi sono cresciuti di più del 30 per cento.
In Germania la legge sul salario minimo, divenuta effettiva nel 2015 durante il terzo governo Merkel, fissava la paga base a 8,5 euro l’ora. Anche qui la misura era stata introdotta perché i contratti nazionali non riuscivano più a coprire le nuove forme di lavoro emergenti (i cosiddetti minijobs). Nel dibattito pubblico che aveva accompagnato l’approvazione della legge, gli oppositori della misura temevano che questo avrebbe comportato un aumento del costo del lavoro per le imprese, una diminuzione della loro competitività e il conseguente arrivo di numerosi licenziamenti.
Un recente studio della University College London (Ucl) sull’impatto del salario minimo in Germania mostra un quadro del tutto diverso. Secondo la ricerca i lavoratori che prima della legge ricevevano uno stipendio più basso (circa il 15 per cento degli occupati) non solo hanno visto crescere il loro salario, ma sono stati anche spinti a intraprendere un percorso verso posizioni meglio retribuite.
“Come mostra questo studio le imprese stesse traggono beneficio dalla misura. Se aumentano gli stipendi le aziende sono incentivate a competere non più attraverso la compressione dei salari, ma investendo in tecnologia e sviluppo con un conseguente aumento della produttività”, racconta a Internazionale Guendalina Anzolin, ricercatrice del King’s College di Londra.
Nel codice del lavoro francese, invece, il salario minimo esiste fin dagli anni settanta e il suo ammontare è ricalcolato periodicamente con un meccanismo automatico vigilato dal governo. Il meccanismo dipende da diverse variabili e tenta di salvaguardare il potere d’acquisto dei lavoratori anche in caso di rincaro dei prezzi. Al momento supera i 10 euro lordi e il 90 per cento dei lavoratori risulta coperto anche dai contratti collettivi.
“Guardando alla Francia e alla Germania si capisce bene come l’introduzione del salario minimo non abbia condotto a un indebolimento dei sindacati o dei contratti nazionali”, spiega a Internazionale Simone Fana coautore del libro Basta salari da fame (Laterza 2019), insieme all’economista Marta Fana. Secondo i due autori basterebbe sostenere i contratti collettivi e impedire che i salari scendano al di sotto di una certa soglia minima di retribuzione.
A cura di Madi Ferrucci
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