L’anno scorso un gigantesco impianto ha prodotto una quantità di gas naturale
liquefatto sufficiente a riscaldare metà del Regno Unito per l’inverno. È successo in Nigeria, sulla punta di Bonny Island, una briciola di terra a forma di
freccia dove l’oceano Atlantico incontra il delta del Niger. La maggior parte del gas è stata inviata fuori del paese, in Spagna, in Francia e in Portogallo.

A poco più di venti chilometri di distanza, nella città di Bodo, gli abitanti usano ancora il cherosene e il gasolio, acquistati sul mercato nero, per accendere le stufe e alimentare i generatori di elettricità. Il carburante è prodotto con il greggio rubato ai giganti energetici stranieri – la Shell, l’Eni e la TotalEnergies – che insieme al governo nigeriano detengono la proprietà della struttura di Bonny Island. “Il gas prodotto qui va a Bonny e poi in Europa, per alimentare le case e le industrie, ma noi non ci ricaviamo nulla”, afferma Pius Dimkpa, presidente del comitato per lo sviluppo della comunità locale di Bodo. “A noi non arriva niente”.

La Nigeria possiede il 3 per cento delle riserve note di gas del pianeta, ma non le usa per sé: come in tanti paesi africani, quello che viene estratto è in gran parte mandato in Europa. Inoltre, per compensare la perdita di forniture provocata dall’invasione russa dell’Ucraina, i paesi europei intendono aumentare le importazioni dall’Africa. Ad aprile l’Italia ha siglato nuovi accordi per acquistare il gas dall’Angola e dalla Repubblica Democratica del Congo, mentre la Germania sta cercando di garantirsi forniture dal Senegal. Questo mentre nel resto del mondo cerca di frenare il consumo di gas e combustibili fossili per raggiungere gli obiettivi sul clima, come richiesto anche dai leader europei durante la conferenza delle Nazioni Unite Cop26, che si è svolta a novembre a Glasgow.

Marcia indietro
Da un lato i leader africani aspirano ai milioni che arriveranno grazie agli accordi sul gas, ma dall’altro denunciano un doppio standard: l’improvviso interesse dei paesi esteri per le loro risorse è destinato a perpetuare lo sfruttamento della regione da parte dell’occidente. Perché l’Africa deve rinunciare ai combustibili fossili inquinanti – limitando l’accesso all’elettricità per centinaia di milioni di cittadini – mentre il suo gas accende le luci d’Europa? I paesi ricchi sono stati riluttanti all’idea di finanziare gasdotti e centrali elettriche che faciliterebbero lo sfruttamento del gas in Africa a causa delle sue emissioni, ma non hanno mantenuto le promesse di sostegno finanziario alle fonti di energia alternativa.

La posizione dell’Europa sui combustibili è cambiata dall’inizio della guerra in Ucraina

La bizzarra posizione dell’Europa è emersa con chiarezza al G7 di giugno. Le economie più avanzate del mondo hanno fatto marcia indietro sull’impegno di interrompere i finanziamenti per l’estrazione di combustibili fossili all’estero. Le eccezioni riguarderanno con ogni probabilità solo i progetti che consentono di aumentare la quantità di gas naturale liquefatto importato nei loro paesi.

Un altro ripensamento è arrivato con il voto del parlamento europeo che ha incluso gli impianti per il gas e l’energia nucleare nel blocco degli “investimenti sostenibili”, sbloccando miliardi di euro di finanziamenti. Questo approccio ha irritato i leader africani che hanno bisogno di combustibile, in qualsiasi forma, per far uscire milioni di persone dalla povertà. “Ci servono forme di partenariato di lungo periodo, non di incoerenza e contraddizioni sulle politiche energetiche da parte del Regno Unito e dell’Unione europea”, ha dichiarato in un commento scritto il presidente nigeriano Muhammadu Buhari.

In realtà, anche i governi dell’Africa subsahariana hanno le loro colpe nell’aver sottoutilizzato le loro riserve di gas. Sono pochi i paesi africani che hanno investito seriamente o riformato i loro settori energetici e petroliferi, in particolare la Nigeria, dove l’impianto di Bonny Island funziona al di sotto del 20 per cento della sua capacità dal 2021, a causa di furti e atti vandalici compiuti nel gasdotto. Molti leader africani sono favorevoli alle esportazioni del gas per sostenere i loro governi assetati di denaro, ma vogliono anche avere accesso ai finanziamenti per sfruttare al meglio il potenziale del combustibile e creare un mercato interno del gas naturale. “Non possono venire qui e dire ‘ci serve il vostro gas, lo compriamo e lo portiamo in Europa’”, ha dichiarato il ministro dell’energia della Guinea Equatoriale, Gabriel Obiang Lima, durante una conferenza stampa a maggio. “Devono darci qualcosa in cambio”, ha aggiunto.

Qualcosa in cambio
Quella del gas è da tempo una questione controversa dal punto di vista della lotta al cambiamento climatico: brucia in modo più pulito rispetto ad altri combustibili fossili, ma è comunque inquinante. Il gas rilascia anidride carbonica e tende a disperdere metano, uno dei principali responsabili del riscaldamento globale. La stessa posizione dell’Europa sui combustibili è cambiata dall’inizio della guerra in Ucraina. Adesso la priorità è diventata quella di comprare quanto più gas naturale liquefatto possibile e paesi come la Germania, l’Austria e i Paesi Bassi prevedono di tornare al carbone per aumentare le scorte.

Secondo i politici europei, i combustibili fossili sono un cerotto necessario per consentire all’Ue di superare la crisi attuale, così da evitare carenze e blackout. Il piano attuale è spingere sulle energie rinnovabili per ridurre le emissioni molto più velocemente rispetto agli obiettivi fissati in precedenza. Ma l’Unione europea ha esitato a mettere in campo provvedimenti per ridurre i consumi energetici nell’immediato, per timore delle conseguenze politiche. I funzionari dell’Ue sostengono che alla fine i conti sul clima torneranno, ma non è facile comunicare questo messaggio all’estero.

Anche se l’Africa usasse tutte le sue riserve di gas, la quota continentale di emissioni globali salirebbe ad appena il 3,5 per cento rispetto al 3 per cento attuale

Il piano dei leader europei di convertire l’Africa alle fonti di energia pulita non è praticabile senza i finanziamenti dei paesi ricchi, degli investitori privati e delle banche di investimenti. Nell’Africa subsahariana, che consuma meno energia della Spagna, ci sono tanto sole e tanto vento ma poche infrastrutture in grado di servirsene. I paesi in via di sviluppo devono affrontare costi molto più alti per finanziare i progetti ecologici perché sono considerati investimento a rischio. Alla frustrazione dell’Africa si aggiunge il fatto che i paesi ricchi non hanno messo a disposizione i 100 miliardi di dollari all’anno in finanziamenti per il clima, un obiettivo che si sarebbe dovuto raggiungere nel 2020.

“Tutto l’occidente si è sviluppato grazie ai combustibili fossili. Adesso, mentre stiamo parlando, alcuni paesi occidentali stanno pensando di tornare al carbone a causa della guerra. E allora, se il mondo vuole tagliare le emissioni fossili, chi deve cominciare a fare qualcosa?”, si chiede Matthew Opoku Prempeh, ministro dell’energia del Ghana, paese dove negli ultimi anni sono stati scoperti nuovi giacimenti di petrolio e gas. “L’occidente crede che l’Africa debba restare sottosviluppata?”. La questione dei finanziamenti per il clima dominerà i colloqui della Cop27 che si riunisce quest’anno in Egitto. Molto probabilmente la conferenza si concentrerà sulle soluzioni per l’Africa e sul futuro del gas, tenuto conto di chi ospiterà la conferenza e del fatto che, agli occhi di molti paesi in via di sviluppo, questa risorsa può consentire l’abbandono del carbone.

L’anno scorso l’Agenzia internazionale per l’energia (Aie) ha invocato l’interruzione di nuovi progetti per l’estrazione dei combustibili fossili. Mentre in un recente rapporto l’Aie sostiene che l’Africa dovrebbe avere la possibilità di sfruttare il suo gas. Anche se l’Africa usasse ogni singola molecola delle sue riserve di gas, la quota continentale di emissioni globali salirebbe ad appena il 3,5 per cento rispetto al 3 per cento attuale.

Il colonialismo verde
L’accesso universale all’energia in Africa potrebbe essere raggiunto entro il 2030 con investimenti annui da 25 miliardi di euro, l’equivalente dell’1 per cento del valore del settore energetico globale. Una serie di nuovi giacimenti ha permesso ai giganti dei combustibili fossili – tra cui la Exxon mobil, la Bp e la Shell – di spendere decine di miliardi in Mozambico, Tanzania, Senegal e Mauritania per estrarre gas destinato unicamente all’esportazione. Ma le centrali elettriche a gas in Africa non possono partire: governi e aziende africane hanno progetti per un valore di cento miliardi di dollari, tra cui 35 gigawatt di elettricità alimentata a gas. Nella maggior parte dei casi però non riescono a trovare i soldi per finanziarli.

Alcuni paesi africani hanno stretto degli accordi con le aziende di estrazione straniere, per poter usare il gas al proprio interno pagando una tassa. Spesso però mancano fondi sufficienti a rinnovare le reti elettriche e a costruire grandi infrastrutture. I finanziamenti della Banca mondiale, del Fondo monetario internazionale e della Banca europea destinati alla costruzione di impianti alimentati a gas sono svaniti in nome della transizione energetica. Gli investitori privati temono che, mentre nei prossimi decenni si proverà a raggiungere l’obiettivo “zero emissioni”, questi capitali saranno congelati e saranno inutilizzabili.

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La ministra per l’Africa del Regno Unito, Vicky Ford, ha suggerito di mantenere alta l’asticella per qualsiasi finanziamento destinato al settore del gas. “La sfida più grande che il mondo si trova ad affrontare continua a essere quella del cambiamento climatico”, ha detto in un’intervista il 17 maggio. “La strategia sul lungo periodo deve essere quella di lavorare anche a favore delle energie rinnovabili”. Nel Regno Unito, il governo spinge per cercare nuovi giacimenti petroliferi e di gas nel mare del Nord. Secondo Carlo Lopes, ex capo della commissione economica per l’Africa delle Nazioni Unite, rivolgersi all’Africa per compensare le forniture di gas è “paternalistico” e “ipocrita”. È “assolutamente vergognoso dire agli africani che sostanzialmente non dovrebbero prendere in considerazione le opzioni a loro disposizione mentre cresce la domanda di gas in Europa a causa della guerra tra Russia e Ucraina”.

Vijaya Ramachandran, direttrice per l’energia e lo sviluppo del centro studi californiano Breakthrough institute, è stata più diretta. Si tratta di “colonialismo verde”, ha detto. I paesi ricchi sfruttano le risorse di quelli più poveri, ma al tempo stesso gli negano l’accesso a quelle stesse risorse in nome della lotta alla crisi climatica.

Per gli africani è difficile ignorare l’urgenza della crisi climatica. Il riscaldamento globale ha già provocato devastazioni in tutto il continente. Il Corno d’Africa sta attraversando la peggiore siccità degli ultimi quarant’anni. La desertificazione minaccia l’arido Sahel mentre l’erosione divora città costiere come Lagos e Accra. Nei prossimi decenni, quando la popolazione aumenterà e la Terra diventerà più calda, le cose potranno solo peggiorare. Secondo le proiezioni di un rapporto della Banca mondiale pubblicato a ottobre, il continente africano sarà il più colpito dal cambiamento climatico e dagli impatti che ne derivano: migrazioni interne di massa, “aumento della povertà, della fragilità, dei conflitti, della violenza”.

La regione ha bisogno dello sviluppo economico, in parte determinato dai combustibili fossili, per adattarsi ai disastri climatici che si verificheranno. Se le emissioni diminuiranno in tempo per evitare gli esiti più catastrofici del riscaldamento globale è un’altra questione. Sono milioni le persone che finiscono per bruciare carburanti più inquinanti come il carbone, respirando fumi letali e generando più emissioni. Questo a causa degli ostacoli che i paesi africani devono superare nella transizione al gas e all’energia pulita.

Secondo le stime dell’Aie, il numero di persone nell’Africa subsahariana senza accesso a combustibili puliti per cucinare aumenterà del 6 per cento all’anno tra il 2020 e il 2030. A Bodo, nei pressi di Bonny island, i cavi elettrici abbandonati pendono sulle teste delle donne che cucinano su fuochi alimentati a legna. “Gli effetti collaterali sono tanti, il fumo ci dà fastidio agli occhi”, dice Monica Gboro, che vende fagioli e farina di mais da una bancarella improvvisata. “Se i bambini si avvicinano mentre cucini, li caccio via a causa del fumo. Non dovrebbe essere così”.

(Traduzione di Giusy Muzzopappa)

Questo articolo è uscito su Bloomberg. Internazionale ha una newsletter su economia e lavoro. Ci si iscrive qui.

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