Nell’enorme mercato delle obbligazioni statunitensi investono tantissimi risparmiatori e paesi in cerca di un rifugio sicuro per i loro soldi. Un protagonista del settore, probabilmente meno noto, è Taiwan. Lo spiegano in un articolo uscito sul Financial Times gli economisti Brad Setser, del Council on foreign relations, e Josh Younger, della Columbia law school. Il paese asiatico, tra obbligazioni statunitensi e altri titoli finanziari a rendita fissa, possiede riserve per 1.700 miliardi di dollari.
Una cifra enorme se si considera che corrisponde a più del 200 per cento del pil nazionale, a cinque volte le dimensioni del mercato obbligazionario taiwanese e grosso modo al valore dei titoli a rendita fissa della Pimco, il più importante fondo d’investimento specializzato in obbligazioni. Taiwan segue con un margine di distacco non troppo ampio la Cina, paese immensamente più grande, che possiede 2.900 miliardi di dollari in riserve e obbligazioni straniere.
È un segno di grande forza della sua economia, che però pone allo stesso tempo seri rischi, spiegano Setser e Younger. E data l’importanza di Taiwan per l’economia globale – è uno dei centri più avanzati nella produzione di processori – tutto ciò che succede sull’isola ha necessariamente delle ripercussioni sul resto del mondo.
All’inizio del nuovo millennio le attività finanziarie in valuta straniera nelle mani di Taiwan valevano duecento miliardi di dollari, tre quarti dei quali erano in possesso della banca centrale. Poi le cose cambiarono rapidamente. Grazie all’eccezionale sviluppo della sua industria tecnologica, guidato dalla Tsmc, il più importante produttore di processori del mondo, l’isola cominciò a registrare cospicui surplus commerciali, pari al 5-7 per cento del pil.
Un risultato straordinario per un paese considerato fino a quel momento solo un nano all’ombra del gigante cinese. Intorno al 2014, per di più, la crescita del surplus commerciale cominciò a segnare tassi a due cifre. Così nel giro di pochi anni Taiwan si è ritrovata con un’enorme quantità di dollari, eccessiva anche per la banca centrale. Bisognava decidere come impiegarli, e la scelta ricadde sulle assicurazioni sulla vita.
A Taiwan questo settore è sempre stato fiorente. Già nel 2006 il suo valore era pari al 60 per cento del pil, in linea con quello che succedeva in paesi come la Francia, la Germania o il Giappone. In seguito però il governo autorizzò le aziende assicurative a emettere polizze in valuta locale e investire i proventi all’estero, in dollari statunitensi. Questa misura permise al settore di esplodere, raggiungendo in breve tempo dimensioni pari al 140 per cento del pil nazionale. Al picco della loro attività le compagnie assicurative erano arrivate a comprare ogni anno titoli per cinquanta miliardi di dollari. Dei 1.700 miliardi in obbligazioni straniere oggi mille sono in mano ad aziende private e di questi mille settecento appartengono al settore assicurativo.
Ma questa strategia finanziaria ha i suoi punti deboli. I cittadini di Taiwan che sottoscrivono le polizze vita vogliono polizze esclusivamente in moneta locale. Questo ha creato uno squilibrio: da un lato le aziende prendono fondi in dollari taiwanesi e dall’altro li investono in dollari statunitensi (attualmente la cifra è di circa 460 miliardi). In questo modo, spiegano Setser e Younger, sono esposte a dei rischi: se il dollaro statunitense si svaluta rispetto a quello taiwanese, si riduce il valore dei titoli che coprono le polizze; se inoltre negli Stati Uniti il costo del denaro aumenta, le obbligazioni in mano alle compagnie si deprezzano, perché se decidessero di venderle incasserebbero meno del valore nominale, andando incontro a pericolose svalutazioni dei titoli in bilancio.
In sostanza oggi la ricca Taiwan è nella stessa situazione della Silicon Valley Bank, la banca californiana fallita nel 2023 proprio a causa dell’enorme esposizione su titoli di stato e obbligazioni che si erano svalutati in seguito all’aumento dei tassi. Questo istituto di medie dimensioni è crollato in seguito a una crisi di liquidità provocata da una classica corsa agli sportelli da parte dei clienti che rivolevano i loro soldi. La Silicon Valley Bank aveva deciso di vendere i titoli in cui aveva investito parte dei soldi depositati per far fronte alle richieste dei correntisti.
Il problema è che l’operazione si era rivelata in perdita: in sostanza la banca incassava meno del valore nominale dei titoli, in gran parte obbligazioni a lungo termine. La causa era proprio il rialzo dei tassi d’interesse deciso dalle banche centrali in quel periodo: se, per esempio, un’obbligazione era stata emessa con un tasso del 2 per cento, venderla anni dopo, quando il tasso era salito al 4 per cento, significava accettare uno sconto sostanzioso sul prezzo, dal momento che in teoria all’acquirente conveniva comprare un’obbligazione di nuova emissione, che garantiva un rendimento doppio.
A Taiwan i soldi in gioco sono tanti. Attualmente, per esempio, la maggior parte delle obbligazioni aziendali statunitensi a lungo termine è scambiata con uno sconto del 10-15 per cento rispetto al valore nominale: applicando questa media ai settecento miliardi di dollari in mano alle compagnie assicurative taiwanesi, viene fuori una perdita potenziale più o meno pari al capitale dell’intero settore.
In questa fase Taiwan non può essere certo rassicurata dal ritorno alla Casa Bianca di Donald Trump, che nella sua ossessione per il deficit commerciale degli Stati Uniti ha preso di mira anche l’isola, accusandola di avere un surplus commerciale eccessivo. Le autorità di Taipei in ogni caso farebbero bene a tener presente che di recente gli investimenti finanziari del paese hanno già vacillato pericolosamente in più occasioni.
Bloomberg racconta che il settore assicurativo ha rischiato il tracollo nel 2023, quando la Federal reserve (Fed, la banca centrale degli Stati Uniti) ha attuato la più forte serie di rialzi al costo del denaro degli ultimi quarant’anni. Nella prima metà del 2023 gli utili lordi del settore assicurativo erano scesi del 76 per cento rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, spingendo la banca centrale a lanciare l’allarme.
Come spiega il Wall Street Journal, le compagnie erano già in difficoltà perché erano state colte di sorpresa dall’impennata dei risarcimenti causata dalla pandemia di covid-19: nel 2022 avevano pagato ai clienti con polizze Covid cento miliardi di dollari taiwanesi (3,1 miliardi di dollari statunitensi), contro una raccolta di soli 4,5 miliardi. Due anni fa le autorità sono intervenute prontamente. Ma molte compagnie sono state salvate anche dal fatto che, rispetto alla Silicon Valley Bank, non erano obbligate a liquidare immediatamente i clienti e quindi potevano prendere tempo per cercare una via d’uscita.
Questo testo è tratto dalla newsletter Economica.
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