Senza acqua corrente, senza docce, le tende attaccate una a fianco all’altra, materassi per terra: alcuni vecchi stabilimenti industriali vicino a Salonicco sono stati trasformati in fretta in campi per ospitare i profughi sgomberati da Idomeni. Otto campi. Vecchi hangar riempiti di tende militari, senza aria, senza vie di fuga in caso di incendio.

“L’impressione è che la decisione di sgomberare Idomeni sia stata presa di fretta, probabilmente per ragioni politiche, e che i campi non fossero ancora stati attrezzati”, afferma Tommaso Gandini di Over the fortress. Le parole pronunciate da Alexis Tsipras qualche mese fa sono state smentite. “La Grecia non diventerà un magazzino di anime, con l’Europa che fa finta che non stia succedendo niente”, aveva detto Tsipras a febbraio davanti al parlamento greco, commentando la chiusura a singhiozzo delle frontiere dei paesi dei Balcani.

E invece la parola magazzino è quella che più si addice a questi luoghi dove sono stati trasferiti i profughi nel nord della Grecia.

Shereen ha 16 anni, è stata spostata da Idomeni nel campo di Sindos-Frakapor, vicino a Salonicco, insieme ad altre 572 persone. A Shereen è stata assegnata una tenda insieme a suo padre e ai suoi due fratelli minori. Sono originari di Kamishlié, nella Rojava, in Siria, la regione autonoma curda al confine con la Turchia. Sua madre è partita prima ed è già arrivata in Germania da nove mesi. Il resto della famiglia invece è intrappolato in Grecia da quattro mesi. “Nel campo non c’è acqua potabile, vengono distribuite bottiglie, ogni famiglia ne riceve tre al giorno”, racconta attraverso WhatsApp. “Le condizioni del campo sono pessime, fa caldo, non ci si riesce a lavare. Siamo trattati come detenuti”, continua. “Il cibo non basta per tutti”. Da grande vorrebbe fare la pediatra, Shereen, che dimostra una maturità molto superiore a quella dei suoi anni. Ma non riesce più a immaginare un futuro. “Sono stanca, quale futuro ci aspetta? Non lo sappiamo più”, afferma.

“Stiamo monitorando tutti i campi intorno a Salonicco in cui hanno trasferito le migliaia di persone che vivevano a Idomeni”, racconta Tommaso Gandini. “Nella maggior parte dei campi non è possibile per i volontari indipendenti e per la stampa entrare”, spiega. “Mancano le condizioni igieniche di base: acqua corrente, docce e bagni sono pochi rispetto al numero di persone e con il caldo che fa in Grecia il problema è ancora più grosso”. I profughi possono entrare e uscire liberamente, ma alcuni campi sono in mezzo al nulla e raggiungere negozi o servizi è impossibile.

Un campo governativo a Sindos, in Grecia, 25 maggio 2016. (Colleen Sinsky)

Nei campi non ci sono cucine e quindi i pasti vengono distribuiti, ma il cibo non basta per tutti. L’elettricità non è garantita e manca la connessione a internet, necessaria per accedere ai servizi di richiesta d’asilo. Ci sono pochissimi medici.

Anche l’Onu ha denunciato la situazione: “L’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) è preoccupato per le condizioni dei campi nel nord della Grecia che non rispettano gli standard minimi dell’assistenza umanitaria”, ha dichiarato Melissa Fleming, portavoce dell’Unhcr.

A Oreocastro vivono 1.580 persone, il campo ne può ospitare 1.500 e quindi le persone in più non sono state registrate e non hanno accesso alla distribuzione dei pasti, secondo quanto ha raccontato Mustafa, un profugo siriano intervistato da Tommaso Gandini di Over the fortress. “Alcune tende sono fuori dall’hangar, sotto al sole”, ha spiegato Mustafa.

“Uno dei problemi è che non sono cominciate le pratiche per la registrazione e le procedure per la richiesta d’asilo ricominceranno solo a giugno”, racconta Tommaso Gandini e questo aggrava l’incertezza in cui vivono i profughi, sospesi in un limbo burocratico che li ha espropriati di ogni diritto.

Il sistema dei campi è fallimentare

Se si considera che a Idomeni, secondo le stime delle ong, vivevano nelle ultime settimane circa 8.500 persone e che nei campi ne sono state ricollocate circa quattromila, se ne deduce che altre quattromila sono sfuggite al sistema di accoglienza governativo: sono scappate prima dell’arrivo delle ruspe e si sono autorganizzate.

“Quelli che avevano la possibilità economica hanno pagato i trafficanti per superare la frontiera con la Macedonia, anche dopo che era stata chiusa. Invece quelli che hanno finito i soldi sono rimasti intrappolati in Grecia e hanno sperato che la frontiera sarebbe stata riaperta o che le condizioni di vita sarebbero migliorate”, afferma Nada, 28 anni, intervistata da Medici senza frontiere. Vive a Kavala, un campo gestito dall’esercito, dopo lo sgombero di Idomeni.

“Nei nuovi campi la situazione è terribile: il cibo è pessimo, l’acqua e i bagni sono sporchi. A Idomeni si stava meglio. Siamo venuti qui perché l’Europa è in teoria un posto civile. Ma questo è il modo in cui trattate le persone?”, si chiede. Nada è preoccupata delle condizioni igieniche. “Non riesco a lavare i miei figli e qui c’è molto caldo, ho paura che i bambini prendano la scabbia”, afferma e conclude dicendo: “Meglio morire per farla finita con tutto questo”.

Due famiglie siriane sfollate da Idomeni dentro una tenda a Sindos, nel nord della Grecia, 25 maggio 2016. (Colleen Sinsky)

Michele Telaro, coordinatore di Medici senza frontiere nel nord della Grecia, è categorico: “Noi non lavoreremo in questi campi per due motivi. Innanzitutto perché sono stati stanziati 80 milioni di euro per l’assistenza nei campi e noi non siamo partner del governo greco in questo progetto. Inoltre questi campi non sono adatti alla vita delle persone nemmeno per un giorno, abbiamo preoccupazioni di tipo sanitario. Si tratta di vecchie fabbriche, ex concerie, abbiamo il timore che alcuni di questi siti siano contaminati da sostanze chimiche. Inoltre ci sono problemi di sicurezza, non ci sono vie di fuga, le persone sono state messe nelle tende e anche accendere un fuoco è molto pericoloso”.

Infine, afferma Telaro, è il sistema stesso dei campi che non può funzionare. Le 54mila persone che sono rimaste bloccate in Grecia dopo la chiusura della rotta balcanica hanno davanti a sé un soggiorno di mesi, se non di anni, nel paese. Infatti dovranno essere registrate e poi chiedere asilo o il ricongiungimento familiare o il ricollocamento. Si tratta di un processo lento. “La settimana prossima i funzionari delle Nazioni Unite andranno nei campi a preregistrare le persone, la registrazione vera e propria avverrà solo successivamente. Per persone che staranno mesi in Grecia è necessario mettere in piedi un sistema di accoglienza come quello italiano che, con tutti i suoi limiti, offre un tetto, delle case, dei centri, degli alberghi per dare assistenza”.

In preda alla disperazione molti hanno deciso di non entrare nei campi gestiti dal governo e di raggiungere altre famiglie nei campi informali come quelli nati nei pressi dell’hotel Hara e dell’Eko station, vicino a Idomeni. In molti continuano a tentare di superare la frontiera e per ora si sono diretti verso le grandi città dove cercano di arrangiarsi, ma spesso vivono per strada.

“Il timore ora è che anche gli altri campi informali intorno a Idomeni siano sgomberati, ma qui almeno le persone si sentono più libere di agire e di partecipare alla gestione della loro vita quotidiana, possono cucinare, costruire le loro tende, organizzarsi”, racconta Tommaso Gandini che insieme agli altri volontari ha messo in piedi in un paio di giorni una radio nel campo Eko station, da cui i profughi trasmettono la loro musica e raccontano le loro storie. Essere considerati delle persone, soggetti attivi, capaci di contribuire a costruire il proprio futuro, è questo l’ultimo diritto che i profughi provano a non farsi strappare.

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