A partire dal 2015, l’anno della cosiddetta crisi dei rifugiati, l’Italia ha avuto un ruolo fondamentale nella strategia europea per fermare l’arrivo di migranti e rifugiati in Europa, fatta soprattutto da accordi con i paesi di origine e di transito dei migranti. Nel corso degli ultimi cinque anni Roma ha investito con questa finalità in 25 paesi africani, in particolare in Libia, Niger, Sudan, Etiopia e Senegal: è la ricostruzione del nuovo rapporto di Action Aid The big wall, che per la prima volta prova a quantificare questa spesa destinata a fermare i flussi.
Non esistono infatti al momento dati ufficiali che raccolgano, organizzino e rendano accessibili le informazioni sulla distribuzione di queste risorse pubbliche. Il rapporto ha preso in considerazione gli stanziamenti e le erogazioni di fondi dal 2015 al 2020 fatti da organismi governativi italiani. Ne viene fuori un quadro in cui il capitolo della spesa estera per fermare le migrazioni diventa uno strumento diplomatico.
“Per la prima volta dalla decolonizzazione, la mobilità umana in Africa è diventata chiave di volta delle politiche italiane nel continente, tanto che gli analisti parlano di una diplomazia migratoria. Le quote di migranti in transito da un paese, il numero di posti di frontiera o di rimpatri, entrano nel gioco politico sullo stesso piano dei proventi dell’estrazione del petrolio, di promesse di investimenti, vendite di armi o accordi commerciali”, denuncia il rapporto. Questa diplomazia migratoria ha un costo: nel periodo tra il gennaio del 2015 e il novembre del 2020, l’Italia ha gestito almeno 317 linee di finanziamento per un totale di 1,33 miliardi di euro: il 59 per cento è composto da risorse stanziate direttamente da Roma, mentre il 41 per cento sono risorse europee gestite dall’Italia.
La Libia è al primo posto tra i capitoli di spesa, ma non è da sola, ci sono anche altri paesi come l’Etiopia, il Sudan, il Niger e la Tunisia. La parte più sostanziosa della spesa riguarda il controllo dei confini, che rappresenta il 49,8 per cento del totale, ovvero 666,3 milioni di euro. “Si tratta di una spesa significativa che appare estremamente disorganica, caratterizzata da un governance frammentata e soggetta a forte condizionamento politico, poco trasparente, senza una chiara programmazione ed obiettivi, se non quelli generali di contenimento e repressione dei movimenti migratori”, afferma il rapporto.
A erogare questi fondi da parte dell’Italia sono stati vari ministeri, primo tra tutti quello degli esteri e della cooperazione che ha speso 376,24 milioni di euro. A partire dal 2017, infatti, con lo stanziamento di investimenti straordinari per la cooperazione con i paesi africani, il ministero, attraverso la Direzione generale per gli italiani all’estero e per le politiche migratorie, ha speso le risorse del Fondo Africa, poi rinominato Fondo migrazioni, per un ammontare complessivo di 253,35 milioni di euro allo scopo di fermare i migranti.
Un altro attore importante è stato il ministero della difesa che ha contribuito con oltre 254 milioni di euro alla missione navale europea Sophia, una missione militare a guida italiana avviata nel 2015 e conclusa a marzo 2020, il cui obiettivo primario era la lotta al traffico di esseri umani. La marina militare ha inoltre avviato programmi per il contrasto al traffico di migranti e il controllo dei confini per un totale di 44,25 milioni di euro, risorse provenienti dal Fondo europeo Internal security fund (Isf).
Anche il ministero dell’interno ha fatto la sua parte, finanziando in modo trasversale tutti gli ambiti: 31,9 milioni di euro per eradicare le cause dell’immigrazione, 37,5 milioni per il controllo delle frontiere, 12,2 milioni per la governance, 3,8 milioni per la protezione, 2,4 per le iniziative di sensibilizzazione e 23,1 per i rimpatri, per un totale di 118,27 milioni di euro. Non solo, ma come per gli altri ministeri, anche quello dell’interno ha gestito significative risorse europee, in particole nell’ambito dei programmi di rimpatrio, grazie a 21,7 milioni di euro provenienti dal Fondo asilo migrazione e integrazione (Fami).
Il ministero dell’economia e delle finanze ha stanziato invece 38,8 milioni di euro a sostegno della guardia di finanza per programmi di supporto al controllo delle frontiere. Quest’ultima ha inoltre implementato programmi di controllo dei confini, nel Mediterraneo e in Libia e Tunisia, per un ammontare di 255 milioni di euro, la maggior parte dei quali – 215,14 milioni – provenienti dal fondo Isf europeo.
Quello che ha investito di meno è quello che avrebbe dovuto investire di più, cioè il ministero del lavoro, con appena 15,1 milioni di euro, ovvero l’1,1 per cento della spesa totale. Solo questa piccola porzione della spesa è stata stanziata per la creazione di vie legali per l’accesso al territorio italiano, l’unica strategia che si è rivelata davvero efficace nel contrasto del traffico di esseri umani.
Per quanto riguarda i contributi europei, invece, è un settore destinato ad aumentare nei prossimi anni: il nuovo bilancio (Quadro finanziario pluriennale europeo 2021-2027) per la prima volta ha infatti stabilito un capitolo di spesa specifico sulle migrazioni pari a 24,2 miliardi di euro, con un incremento del 96 per cento rispetto alle risorse stanziate nel periodo 2014-2020.
Nessuna trasparenza
“Il quadro è chiaro e anche preoccupante”, dichiara Roberto Sensi, policy advisor di ActionAid Italia. “Dal punto di vista delle strategie politiche sia europee sia italiane, nei prossimi anni si conferma l’approccio securitario orientato a reprimere i flussi migratori e ad aumentare i rimpatri, esponendo migranti e rifugiati ad abusi, respingimenti, estorsioni, rimodellando percorsi e rendendo più difficile, anche per i rifugiati, cercare protezione. Occorre ridefinire le politiche migratorie rimettendo al centro le persone e i loro diritti”, continua il ricercatore.
Dall’inchiesta emerge la necessità di aumentare la trasparenza sulle iniziative finanziate e di vincolare i programmi al rispetto dei diritti umani attraverso un ruolo di controllo del parlamento e l’adozione di meccanismi di monitoraggio indipendenti che coinvolgano anche le organizzazioni della società civile. Le politiche italiane ed europee, infatti, si sono rivelate parzialmente efficaci a contenere la migrazione, ma a un prezzo altissimo in termini di vite perdute e gravi violazioni dei diritti umani. In particolare nel contesto libico, dove la creazione di un sistema di intercettazione delle persone in fuga, tramite assetti militari e sistemi di coordinamento marittimo, ha prolungato i periodi di detenzione, aumentando in modo significativo il rischio di abusi.
Un ulteriore elemento di criticità che emerge dall’inchiesta The big wall riguarda il condizionamento e la deviazione degli aiuti pubblici allo sviluppo. Circa il 15 per cento dei fondi è stato investito nelle cosiddette “cause profonde” della migrazione, nella convinzione che maggiore sviluppo economico si traduca in una riduzione dei flussi migratori. In realtà è noto ormai che l’aumento di reddito pro capite nel breve e medio termine nei paesi con un pil basso non è in grado di ridurre la propensione a migrare, al contrario la aumenta.
Questo però ha determinato una grave falla nel sistema di cooperazione allo sviluppo, attraverso l’imposizione di condizionalità agli aiuti (più risorse a fronte di un maggiore impegno nel fermare i migranti da parte dei paesi) e la deviazione dei loro obiettivi di sviluppo: i fondi non sono stati destinati a programmi e paesi il cui obiettivo principale era la riduzione della povertà ma, appunto al contrasto alle migrazioni irregolari, che di fatto restano l’unica possibilità per le persone migranti in assenza di canali di ingresso regolari.
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