Nel corso dell’estate si è tornati a parlare di riforma della cittadinanza, un tema di cui si discute in Italia dal 1999, anno del primo tentativo di riformare la legge attuale che è stata varata nel 1992.

È stato il leader di Forza Italia Antonio Tajani a riaprire la questione, ispirato anche dalle vittorie olimpiche delle italiane di origine straniera come le pallavoliste Paola Egonu e Myriam Sylla. Tajani però lega l’ottenimento della cittadinanza al “merito”: “Guai se abbiamo paura di concedere diritti meritati: saremmo un centrodestra oscurantista che non si rende conto dei cambiamenti della società”. In questa legislatura, tuttavia, sono state depositate diverse proposte di riforma della legge sulla cittadinanza, ma nessuna ha cominciato il suo iter parlamentare per la discussione e l’approvazione.

L’Italia, infatti, è uno dei paesi europei più restrittivi nella concessione della cittadinanza. Al momento si diventa italiani se si nasce da genitori che hanno la cittadinanza italiana, se si contrae un matrimonio con un cittadino o una cittadina italiana oppure si può acquisire per naturalizzazione, vivendo nel paese, dopo un lungo e farraginoso iter burocratico. Attualmente la cittadinanza italiana è trasmessa principalmente per diritto di sangue, quindi per nascita. L’espressione latina che viene spesso usata per definire questa procedura è ius sanguinis.

La legge è stata pensata così nel 1992 per permettere ai discendenti degli emigrati italiani all’estero di non perdere i diritti di cittadinanza, anche se sono nati e vivono lontani dal paese da generazioni. La docente di sociologia politica Giovanna Zincone nel suo saggio Citizen policy making spiega che “quando l’Italia è stata unificata nel 1861, la sua prima legge sulla cittadinanza ha privilegiato il principio secondo cui l’appartenenza a una società doveva dipendere dall’appartenenza a una nazione, una comunità di persone che hanno gli stessi antenati”. La prima legge sulla cittadinanza del paese appena unificato fu mutuata dal codice napoleonico, come quasi in tutti i paesi europei.

Zincone ricorda che – come tutti i paesi con un alto numero di emigrati – l’Italia ha favorito la trasmissione della cittadinanza “attraverso il sangue”, per mantenere un legame con i tanti emigrati italiani che vivevano e lavoravano all’estero e contribuivano allo sviluppo e all’arricchimento del paese attraverso le rimesse. Invece Roma non è riuscita ad approvare delle misure che estendano la cittadinanza agli stranieri che risiedono sul territorio italiano da molti anni e ai loro figli nati e cresciuti in Italia, anche se è dalla fine degli anni novanta che si parla di ius soli (diritto di cittadinanza legato al luogo di nascita).

Da anni si prova a riformare la legge per consentire a quasi un milione di bambini e bambine non italiani, che frequentano le scuole di ottenere la cittadinanza e avere gli stessi diritti dei loro compagni italiani, in molti di questi casi, tra l’altro, si tratta di persone nate in Italia (da genitori stranieri). Ad agosto si è tornato a discutere di una proposta di legge presa in esame dal parlamento anni fa e che si è poi arenata nel 2022. La proposta è stata definita ius scholae, perché lega l’acquisizione della cittadinanza alla frequenza di un ciclo di studi nelle scuole italiane. In precedenza la proposta era stata definita ius culturae.

Il testo di riforma dell’epoca legava l’acquisizione della cittadinanza al compimento di un ciclo di studi. Più nello specifico, prevedeva il riconoscimento della cittadinanza per i minorenni nati in Italia o arrivati prima dei dodici anni che vi avessero risieduto legalmente senza interruzioni frequentando regolarmente almeno cinque anni di studio, in uno o più cicli scolastici.

Nel caso in cui la frequenza riguardasse la scuola primaria, era necessario il superamento del ciclo di studi con esito positivo. Una proposta simile è stata bocciata dal parlamento nel 2017, quando dopo due anni di discussione e il via libera della camera nel 2015, mancarono i voti in senato per l’approvazione definitiva della legge.

Per riportare la questione della riforma nel dibattito pubblico, l’associazione Italiani senza cittadinanza, appoggiata da altre organizzazioni come Arci, Libera, A buon diritto, e da partiti come Più Europa hanno lanciato una raccolta firme per promuovere un referendum sulla cittadinanza, che propone di portare a cinque anni, invece degli attuali dieci, gli anni di soggiorno legale continuativo necessari per ottenere la cittadinanza italiana.

Sulla pagina del referendum, il comitato promotore spiega che, ai fini della concessione della cittadinanza, oltre alla residenza ininterrotta in Italia “resterebbero invariati gli altri requisiti già stabiliti dalla normativa vigente e dalla giurisprudenza, quali: la conoscenza della lingua italiana, il possesso di adeguate fonti economiche, l’idoneità professionale, l’ottemperanza agli obblighi tributari, l’assenza di cause ostative collegate alla sicurezza della Repubblica”. E che in Italia “le persone in possesso di questi requisiti che potrebbero beneficiare direttamente o indirettamente (figli minori conviventi) dell’intervento proposto sono circa 2,5 milioni”.

Per ottenere che il referendum si svolga in primavera è necessario raccogliere 500mila firme entro il 30 settembre. Per questo è in corso una campagna con testimonial come Luigi Ciotti, Roberto Saviano, Matteo Garrone, Zerocalcare, per incentivare la firma digitale che può avvenire tramite Spid o carta d’identità elettronica sulla piattaforma online del ministero della giustizia.

Per firmare è sufficiente andare sul sito ufficiale, o anche direttamente sulla pagina dedicata al referendum sulla cittadinanza. Al momento è stato raccolto circa il 90 per cento delle 500mila firme necessarie.

Questo articolo è tratto dalla newsletter Frontiere.

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