Questo articolo è stato pubblicato il 22 novembre 2013 nel numero 1027di Internazionale.
Perché certe novità si diffondono rapidamente e altre lentamente? Pensate ai percorsi del tutto diversi che hanno seguito due scoperte dell’ottocento come l’anestesia e gli antisettici. Gli effetti dell’anestesia furono dimostrati pubblicamente per la prima volta nel 1846. Il chirurgo di Boston Henry Jacob Bigelow fu avvicinato da un dentista suo concittadino di nome William Morton, che gli disse di aver scoperto un gas in grado di rendere i pazienti insensibili al dolore degli interventi. Era un’affermazione clamorosa.
A quei tempi, anche la semplice estrazione di un dente era atroce. Non potendo eliminare la sofferenza, i chirurghi lavoravano a una velocità fulminea. I loro assistenti tenevano fermi i pazienti che urlavano e si dibattevano fino a quando non svenivano per il dolore. Niente di quanto era stato tentato fino a quel momento aveva mai funzionato. Nonostante questo, Bigelow permise a Morton di dimostrare la sua affermazione.
Il 16 ottobre 1846, al Massachusetts general hospital, Morton somministrò attraverso un inalatore inserito nella bocca il suo gas a un ragazzo che doveva essere sottoposto all’escissione di un tumore alla mandibola. Durante l’operazione il paziente si limitò a borbottare tra sé in uno stato di semicoscienza. Il giorno dopo, con lo stesso gas, una donna alla quale doveva essere asportato un grosso tumore all’avambraccio rimase completamente muta e immobile, e quando si svegliò disse di non aver sentito nulla.
Quattro settimane dopo, il 18 novembre, Bigelow pubblicò sul Boston Medical and Surgical Journal un articolo sulla “insensibilità indotta per inalazione”. Morton non voleva divulgare la composizione del gas, che aveva chiamato letheon, perché ne aveva chiesto il brevetto. Ma Bigelow scrisse di aver riconosciuto l’odore dell’etere (che veniva già usato come ingrediente in alcune preparazioni), e sembra che questo sia stato sufficiente. A metà dicembre i chirurghi di Parigi e di Londra somministravano già l’etere ai loro pazienti. A febbraio l’anestesia era stata usata in quasi tutte le capitali d’Europa, e a giugno nella maggior parte dei paesi del mondo. Naturalmente, c’era stata qualche resistenza. Qualcuno riteneva che l’anestesia fosse un “lusso inutile”, i preti ne deploravano l’uso per ridurre la sofferenza durante il parto perché andava contro il progetto divino. James Miller, un chirurgo scozzese dell’epoca che documentò l’avvento dell’anestesia, notò che i chirurghi più anziani erano contrari. “Chiudevano gli occhi, si tappavano le orecchie e incrociavano le braccia. Era come se avessero deciso che il dolore era un male necessario e doveva essere sopportato”. Ma ben presto anche i più dubbiosi “saltarono di corsa sul carro, lanciando grida di gioia”. Nel giro di sette anni quasi tutti gli ospedali statunitensi e britannici avevano adottato la nuova scoperta.
La sepsi, o infezione, era l’altra grande piaga della chirurgia. Era la principale responsabile della morte dei pazienti, uccideva circa la metà delle persone sottoposte a interventi di alta chirurgia, come la riparazione di una frattura scoperta o l’amputazione di un arto. Le infezioni erano così frequenti che la suppurazione, l’uscita di pus dalla ferita, era ritenuta una fase inevitabile della guarigione.
L’importanza di lavarsi le mani
Negli anni sessanta dell’ottocento il chirurgo di Edimburgo Joseph Lister lesse un articolo in cui Louis Pasteur dimostrava che i processi di decomposizione e di fermentazione erano causati da microrganismi. Lister si convinse che lo stesso processo si verificava nelle ferite infette. Pasteur aveva osservato che, oltre che con il filtraggio e il calore, i germi potevano essere eliminati esponendoli a certe sostanze chimiche. Aveva letto che nella città di Carlisle erano riusciti a eliminare l’odore delle fogne usando una piccola quantità di acido fenico, e ne aveva dedotto che distruggesse i germi. Forse si poteva fare la stessa cosa in chirurgia.
Negli anni immediatamente successivi ideò vari modi per usare l’acido fenico per lavare le mani e le ferite e per eliminare i germi dall’ambiente operatorio. Il risultato fu una notevole riduzione del tasso di setticemia e di morte. Si sarebbe potuto pensare che, dopo la pubblicazione delle sue osservazioni su The Lancet nel 1867, il metodo antisettico si sarebbe diffuso con la stessa rapidità dell’anestesia. Ma le cose non andarono affatto così.
Il chirurgo J.M.T. Finney ricordava che, quando era praticante al Massachusetts general hospital, vent’anni dopo, l’obbligo di lavarsi le mani era ancora solo formale. I chirurghi immergevano i ferri nell’acido fenico ma continuavano a operare con le loro redingote nere incrostate di sangue e viscere delle operazioni precedenti, per dimostrare che erano molto impegnati. Invece di usare garze pulite, riutilizzavano le stesse spugne marine senza sterilizzarle. Sarebbe passata una generazione prima che le indicazioni di Lister venissero rispettate regolarmente e fossero fatti i passi successivi verso i moderni standard dell’asepsi: escludere totalmente i germi dall’ambiente operatorio, usare strumenti sterilizzati con il calore e indossare camici e guanti sterili.
In un’epoca di comunicazioni digitali ci aspetteremmo una diffusione più rapida delle innovazioni importanti. E in molti casi è così. Pensate alla fecondazione assistita, alla genomica e alla stessa tecnologia della comunicazione. Ma potremmo stilare una lista altrettanto lunga di scoperte vitali che non hanno attecchito. Il problema è: perché? Forse la diffusione dell’anestesia e degli antisettici è stata diversa per motivi economici? In realtà, gli incentivi erano gli stessi. Se la chirurgia indolore attirava più pazienti che pagavano, lo stesso discorso sarebbe dovuto valere per un più basso tasso di mortalità. Senza contare che era più probabile che un paziente vivo pagasse la parcella.
Forse le idee controtendenza sono più difficili da accettare. Per i chirurghi dell’ottocento, la teoria dei germi era illogica quanto quella di Darwin sull’evoluzione degli esseri umani. Ma in fondo lo era anche l’idea che inalando un gas si potesse entrare in una sorta di stato comatoso in cui non si provava dolore. I sostenitori dell’anestesia aiutarono i chirurghi a superare questo scetticismo incoraggiandoli a provare l’etere su un paziente e vedere i risultati con i loro occhi. Ma quando Lister propose la stessa strategia non andò molto lontano, in parte a causa della complessità tecnica. Per “provare” il metodo di Lister bisognava prestare un’estrema attenzione ai dettagli. I chirurghi dovevano immergere scrupolosamente le mani, i ferri e perfino il filo di sutura nella soluzione antisettica. Lister aveva anche ideato un congegno che spruzzava continuamente antisettico nebulizzato nella sala operatoria. Ma anche usare l’anestesia era complicato. Produrre l’etere e costruire l’inalatore era laborioso. Bisognava assicurarsi che il congegno emettesse la giusta dose di gas, e il suo meccanismo doveva essere tenuto continuamente sotto controllo. Eppure molti chirurghi usarono lo stesso questo metodo, o passarono al cloroformio, che si era rivelato un anestetico ancora più potente sebbene presentasse qualche problema (se si sbagliava la dose si poteva uccidere il paziente). Nonostante la complessità della tecnica, non ci rinunciarono, anzi, diedero vita a una nuova specializzazione: l’anestesiologia.
Allora quali erano le differenze? In primo luogo, un metodo combatteva un problema immediato e visibile (il dolore), mentre l’altro combatteva un problema invisibile (i germi) i cui effetti si sarebbero manifestati solo molto tempo dopo l’operazione. In secondo luogo, sebbene entrambi migliorassero la vita dei pazienti, solo uno migliorava quella dei dottori. L’anestesia aveva trasformato la chirurgia da una frettolosa e brutale aggressione a un paziente urlante, in una procedura tranquilla e ponderata. Il listerismo, al contrario, imponeva al chirurgo di lavorare in una nebbia di acido fenico che, anche alle concentrazioni più basse, gli bruciava le mani. Quindi si capisce perché la crociata di Lister non ebbe molto successo.
La stessa cosa si è verificata nel caso di molte scoperte importanti. Risolvevano problemi gravi ma invisibili agli occhi di molti, e applicarle era noioso, se non addirittura doloroso. La distruzione prodotta dal riscaldamento globale, i danni alla salute causati dalla moderna dieta troppo ricca di zuccheri, la catastrofe economica e sociale provocata dai miliardi di prestiti non restituiti dagli studenti sono fenomeni che si aggravano impercettibilmente giorno dopo giorno. Ma i rimedi, che richiedono qualche tipo di sacrificio personale, faticano a essere adottati.
Il problema mondiale della morte per parto è un altro esempio. Ogni anno 300mila donne e più di sei milioni di bambini muoiono al momento del parto, soprattutto nei paesi più poveri. In quasi tutti i casi è a causa di qualcosa che si verifica durante o subito dopo il parto. La madre può avere un’emorragia. Lei o il bambino possono contrarre un’infezione. Molti neonati non riescono a respirare subito senza aiuto e, soprattutto quelli che nascono sottopeso, hanno difficoltà a regolare la temperatura corporea. Soluzioni semplici, che potrebbero salvare molte vite, sono state trovate da tempo, ma non si sono diffuse. Molte non si possono provare in casa, e questo è uno dei problemi. Eppure le donne che partoriscono in ospedale sono in aumento in tutto il mondo.
In India un programma governativo offre alle madri fino a 1.400 rupie – più del reddito mensile di molti indiani – se partoriscono in ospedale, e adesso in molte zone la maggior parte delle nascite avviene in una struttura attrezzata. Il tasso di mortalità è diminuito, ma è ancora dieci volte superiore a quello dei paesi ad alto reddito. Non molto tempo fa ho visitato alcuni ospedali nel nord dell’India e ho visto che solo a un terzo delle madri venivano somministrati i farmaci per prevenire un’emorragia, meno del 10 per cento dei neonati veniva riscaldato a sufficienza, e solo il 4 per cento del personale si lavava le mani prima di una visita ginecologica o di un parto. In media, i medici rispettavano solo 10 delle 29 pratiche di base consigliate.
La cura del canguro
Siamo all’inizio del ventunesimo secolo e stiamo ancora cercando di capire come far attecchire delle idee che risalgono all’inizio del ventesimo. Nella speranza di diffondere pratiche ostetriche più sicure, insieme ad alcuni colleghi ho collaborato con il governo indiano, l’Organizzazione mondiale della sanità, la Gates foundation e Population services international a un’iniziativa chiamata BetterBirth project. Attualmente lavoriamo nell’Uttar Pradesh, uno degli stati più poveri dell’India. A gennaio ci siamo spostati a un paio d’ore dalla capitale, Lucknow, per visitare un ospedale di campagna circondato da terreni coltivati e villaggi di capanne. L’ospedale è un edificio di cemento a un piano dipinto di giallo. Vi si accede da una strada sterrata fiancheggiata da file di motociclette, che in quella regione sono il principale mezzo di trasporto per le lunghe distanze. Se non riescono a trovare un’ambulanza o un motorisciò, le donne in travaglio si siedono a cavalcioni su una moto.
In quell’ospedale nascono tremila bambini all’anno, che in India sono la norma ma negli Stati Uniti lo collocherebbero tra i primi cinque ospedali del paese. Eppure non ha quasi nessuno dei comfort che ci si aspetterebbe da una struttura moderna. Ho conosciuto il medico di turno, un internista intelligente e capace di poco più di trent’anni che si è formato nella capitale. Mi ha detto, in tono contrito, che il suo staff non è in grado di eseguire né esami del sangue né trasfusioni né interventi ostetrici d’emergenza come i parti cesarei. Durante il giorno non c’è elettricità. E ovviamente niente riscaldamento – quel giorno la temperatura era di cinque gradi –, né aria condizionata, sebbene in estate le temperature raggiungano i 35 gradi. In tutta la struttura ci sono solo due apparecchi per misurare la pressione. L’infermeria della scuola elementare del mio quartiere è più attrezzata.
Anche il personale è insufficiente: il medico ci ha detto che metà dei posti disponibili era scoperta. Per far nascere i bambini in un’area con 250mila abitanti, l’ospedale ha a disposizione due infermiere e un’ostetrica. Quasi tutti i parti sono gestiti dalle infermiere che hanno frequentato un corso di formazione di sei mesi, mentre l’ostetrica segue l’ambulatorio e interviene nei casi più complicati. Durante le ferie o se una delle due infermiere si ammala, le infermiere si sostituiscono a vicenda, e se non c’è nessuno a disposizione, le donne vengono mandate in un altro ospedale, a chilometri di distanza, oppure deve intervenire un’infermiera non specializzata.
Sembra incredibile che le donne abbiano meno problemi quando partoriscono in un posto del genere che a casa loro in un villaggio, ma diversi studi hanno dimostrato che le possibilità di sopravvivenza nel primo caso aumentano. Il personale che ho conosciuto in India ha un’esperienza notevole. Perfino le infermiere più giovani hanno eseguito più di mille parti. Hanno affrontato e imparato a risolvere innumerevoli problemi: placente lacerate, cordoni ombelicali avvolti intorno al collo del bambino, spalle incastrate. Vedendo l’eroismo quotidiano necessario per mandare avanti un posto del genere, ci si sente sciocchi e indelicati a suggerire come si potrebbero migliorare le cose. Ma poi abbiamo fatto un giro nelle corsie.
In sala parto era appena nato un bambino. Era steso su una branda con la madre, che riposava sotto un mucchio di coperte di lana. La stanza era un frigorifero. Non mi sentivo più le dita dei piedi. Ho cercato di immaginare come poteva sentirsi quel bambino. I neonati hanno una superficie corporea estesa rispetto alla loro massa e perdono calore rapidamente. Anche quando fa caldo, l’ipotermia è molto comune e li rende deboli e meno reattivi, meno capaci di poppare e più soggetti alle infezioni. Ho notato che il bambino non era avvolto nella stessa coperta della madre. È ampiamente dimostrato che è molto meglio mettere il neonato sul petto o sulla pancia della madre, pelle a pelle, così il corpo della donna può regolare la temperatura di quello del piccolo fino a quando non si assesta. Tra i bambini nati sottopeso o prematuri, la cura del canguro (come viene chiamata) riduce la mortalità di un terzo. Allora perché l’infermiera non li aveva avvolti insieme? In quel caso il problema non era di certo la mancanza di risorse, la cura del canguro non costa nulla. Ne aveva mai sentito parlare? Oh, certo, mi ha detto. Nel suo corso di specializzazione glielo avevano insegnato. Se n’era dimenticata? No. Aveva proposto di mettere il bambino a contatto del corpo della madre, e mi ha mostrato la cartella clinica dove lo aveva annotato. “Ma lei non ha voluto”, mi ha spiegato. “Ha detto che aveva troppo freddo”.
L’infermiera sembrava sorpresa che facessi tante storie per così poco. Il bambino stava bene, no? In effetti sì. Era dolcemente addormentato, una nocciolina avvoltolata nella coperta con il faccino scuro grinzoso e la bocca aperta a formare una piccola “o”. Ma gli avevano misurato la temperatura? No. L’infermiera ha detto che aveva l’intenzione di farlo. Ma poi la nostra visita aveva interrotto la routine. Supponendo che l’avesse presa, e l’avesse trovata bassa, avrebbe fatto qualcosa di diverso? Avrebbe sfasciato il bambino e lo avrebbe appoggiato sul petto della madre?
Tutto quello che fa quell’infermiera – le ore che dedica al lavoro, le condizioni che sopporta, la soddisfazione che prova per la sua professionalità – dimostra il suo impegno. Ma l’ipotermia, come i germi che voleva combattere Lister, è invisibile. Immaginiamo che il bambino diventi cianotico, che lo vediamo soffrire sotto i nostri occhi. Ma l’ipotermia non si manifesta così. Se la temperatura è troppo bassa di qualche grado, il neonato diventa troppo lento nel poppare. Passa un po’ di tempo prima che cominci a perdere peso, smetta di urinare, contragga una polmonite o un’infezione del sangue. Molto prima che questo succeda – di solito la mattina dopo il parto, o forse la notte stessa – la madre dovrà saltare su un motorisciò, o sedersi su una moto dietro al marito, tenendo stretto il neonato, e tornare a casa su quelle strade dissestate.
Dal punto di vista dell’infermiera, lei ha contribuito a mettere al mondo una nuova vita. Se poi, una volta tornato a casa, il 4 per cento dei bambini muore, questo cos’ha a che vedere con il modo in cui ha avvolto lui e la madre nelle coperte? O se si è lavata le mani prima di mettere i guanti? O se il bisturi con cui ha tagliato il cordone ombelicale era sterilizzato?
Siamo innamorati dell’idea che questi problemi possano essere risolti dalla tecnologia, con un’incubatrice, per esempio. Negli ospedali di campagna si trovano incubatrici ad altissima tecnologia mangiate dalle tarme perché non è stato possibile trovare un pezzo di ricambio, o perché non c’è l’elettricità per farle funzionare. Ma negli ultimi anni ne sono stati progettati alcuni modelli pensati specificatamente per il mondo in via di sviluppo. Il dottor Steven Ringer, il neonatologo che dirige il progetto BetterBirth, è stato uno dei consulenti della squadra che ha creato un’incubatrice economica e ingegnosa, costruita con pezzi di vecchie auto facilmente reperibili e sostituibili anche nei paesi a basso reddito, che ha vinto perfino un premio. Ma neanche quella ha attecchito. “Se ne trovano di più nei musei che nelle sale parto”, spiega Ringer.
Per affrontare la maggior parte dei problemi sanitari del mondo, la difficoltà principale non è la mancanza di un’adeguata tecnologia. Tutti hanno a disposizione una tecnologia per il riscaldamento che funziona benissimo: il corpo della madre. Ma anche nei paesi ad alto reddito, non viene usata regolarmente. Secondo Ringer, negli Stati Uniti più della metà dei bambini che arrivano in rianimazione sono ipotermici. Prevenire l’ipotermia è un classico esempio di compito che richiede un grande sforzo ma non produce un risultato immediato. Se riuscissimo a costringere gli ospedali e il personale ostetrico a fare anche solo alcune delle cose indispensabili per rendere più sicuro un parto salveremmo centinaia di migliaia di vite. Ma come possiamo farlo?
Nuove norme
Il modo più comune per modificare un comportamento è dire: “Per favore fate questo”. Per favore, scaldate il bambino. Per favore, lavatevi le mani. Per favore, applicate tutte le 27 pratiche necessarie. È questo che diciamo nelle nostre lezioni, nei video educativi, nelle campagne per sensibilizzare il pubblico. E funziona, ma solo fino a un certo punto. Poi c’è il metodo poliziesco. “Dovete fare così”. Stabilire standard e regole, e minacciare chi non li rispetta con multe, sospensioni, e revoca delle licenze: le punizioni possono funzionare. Gli economisti comportamentali hanno addirittura quantificato l’avversione per le sanzioni. Nei giochi sperimentali, molti preferiscono lasciare che rischiare conseguenze negative. E questo è il problema quando si minaccia di punire il personale ostetrico che fa un lavoro difficile in condizioni esasperanti. Si corre il rischio che rinunci.
Né con le sanzioni né con gli incentivi è possibile ottenere quello che si vuole
Una versione più morbida del “Dovete fare così” è quella di offrire incentivi invece che minacciare sanzioni. Forse potremmo promettere al personale ostetrico un bonus per ogni bambino che supera la settimana di vita in buone condizioni. Ma poi viene da pensare a quanto sarebbe difficile far funzionare un sistema simile, soprattutto nei paesi più poveri. Servirebbe una procedura di controllo molto sofisticata per essere sicuri che la gente non aggiri il sistema, e bisognerebbe fare complicati calcoli statistici per tenere conto dei rischi di partenza. Ci sarebbe anche il problema di come dividere la ricompensa. Quanto dovremmo dare a chi ha garantito l’assistenza prenatale? All’ostetrica che ha seguito le prime dodici ore di travaglio? A quella che è entrata in servizio e ha assistito al parto? Al dottore che è stato chiamato in aiuto quando le cose si sono complicate? Al farmacista che aveva in magazzino l’antibiotico giusto?
E poi, né con le sanzioni né con gli incentivi è possibile ottenere quello che si vuole veramente: un sistema e una cultura in cui tutti fanno una certa cosa, giorno dopo giorno, anche se nessuno li controlla. Il metodo poliziesco premia semplicemente il rispetto delle norme. Per arrivare a dire “è così che si fa” bisogna stabilire che quella è la norma. Ed è questo che vogliamo ottenere per il riscaldamento corpo a corpo, il lavaggio delle mani e tutti gli altri accorgimenti che possono salvare la vita di un bambino: che diventino la norma. Per creare nuove norme bisogna prima capire quali sono quelle vigenti e cosa ne impedisce l’attuazione. Allora perché non parlare con le persone, una per una?
Nel corso del progetto BetterBirth ci siamo chiesti, in particolare, cosa accadrebbe se avessimo un gruppo di specialisti che va a trovare il personale ostetrico e i direttori degli ospedali, mostrandogli come eseguire una serie di procedure essenziali, cercando di capire le loro difficoltà, ascoltando le loro obiezioni e aiutandoli a esercitarsi a fare le cose in modo diverso. In pratica, dei mentori. L’esperimento è appena cominciato. Abbiamo reclutato solo un piccolo gruppo di persone che stiamo mandando negli ospedali di sei regioni dell’Uttar Pradesh per uno studio che seguirà circa 200mila parti in due anni. Non siamo sicuri che questo metodo funzionerà. Ma ci è sembrato che valesse la pena tentare.
Le reazioni che ho raccolto sia all’estero sia negli Stati Uniti sono interessanti e fondamentalmente di due tipi. L’obiezione più comune è che, anche se funzionerà, questo tipo di insegnamento individuale sul posto non è “applicabile su vasta scala”. Ma non è così. Se l’intervento salverà tutte le madri e i bambini che speriamo, un migliaio di vite all’anno negli ospedali interessati, l’unica cosa che resterà da fare sarà formare squadre di insegnanti simili e mandarle in altre zone del paese, se non in tutto il mondo. Agli occhi di molti questa non è una soluzione realistica. Richiederebbe una vasta mobilitazione, una spesa altissima, e forse anche la nascita di una nuova professione. Ma per combattere la resistenza a molte nuove scoperte, come gli antisettici, è esattamente questo il metodo che ha funzionato. Pensate alla nascita dell’anestesiologia: bisognava raddoppiare il numero dei medici presenti a ogni intervento, eppure l’abbiamo fatto. Per ridurre l’analfabetismo, molti paesi, a partire dagli Stati Uniti, hanno costruito scuole, formato insegnanti e reso l’istruzione gratuita e obbligatoria per tutti. Per migliorare la produzione agricola i governi hanno mandato centinaia di migliaia di periti agrari in visita alle fattorie di tutti gli Stati Uniti e in ogni angolo del mondo per insegnare le nuove tecniche agli agricoltori. Questi programmi hanno funzionato benissimo. In tutto il pianeta, dal 1970 a oggi, hanno ridotto il tasso di analfabetismo da un adulto su tre a uno su sei, e ci hanno regalato la rivoluzione verde che ha salvato dalla morte per fame più di un miliardo di persone.
Nell’era dell’iPhone, di Facebook e di Twitter, ormai siamo innamorati delle idee che si diffondono con la stessa facilità dell’etere. Vorremmo trovare soluzioni semplici e “chiavi in mano” per i grandi problemi del mondo: fame, malattia, povertà. Preferiamo i video agli insegnanti in carne e ossa, i droni ai soldati, gli incentivi alle istituzioni. Le persone e le istituzioni ci sembrano anacronistiche perché introducono, come dicono i tecnici, variabili incontrollate. Ma la tecnologia e i sistemi incentivanti non bastano. “La diffusione è fondamentalmente un processo sociale grazie al quale un’innovazione viene trasmessa da persone che parlano con altre persone”, ha scritto Everett Rogers, il grande studioso della comunicazione e della circolazione delle idee. I mezzi d’informazione possono proporre una nuova idea. Ma, come ha dimostrato Rogers, quando devono decidere se adottarla o meno, le persone si lasciano guidare da altre persone che conoscono e di cui si fidano. Ogni cambiamento richiede uno sforzo, e la decisione di fare quello sforzo viene presa a livello sociale.
I chirurghi si sentivano guerrieri che combattevano a mani nude
Questa è una cosa che gli agenti di commercio sanno bene. Una volta ho chiesto al rappresentante di una casa farmaceutica come riesca a convincere i medici – che sono notoriamente testardi – ad adottare un nuovo farmaco. Per quanto possa essere convincente, mi ha risposto, la documentazione non basta. Bisogna anche applicare “la regola dei sette tocchi”. Letteralmente “toccare” il medico sette volte perché abbia la sensazione di conoscerci. Se ti conoscono, si fidano di te. E se si fidano di te, cambieranno. Era per questo che riempiva personalmente gli armadietti dei dottori di campioni gratuiti. Poi infilava la testa nella stanza e chiedeva: “Com’è andata la partita di tua figlia Debbie?”. E alla fine arrivava a chiedere: “Hai letto lo studio sul nostro nuovo farmaco? Che ne dici di provarlo?”. In conclusione, il rapporto umano è il modo più efficace per vincere la resistenza e accelerare il cambiamento.
Nel 1968 The Lancet pubblicò i risultati di un modesto studio su quella che oggi è considerata una delle più importanti scoperte della medicina del ventesimo secolo. Non era un nuovo farmaco né un vaccino né un tipo di intervento chirurgico. Era semplicemente una soluzione di acqua, zucchero e sale che si poteva preparare in qualsiasi cucina. I ricercatori la somministrarono alle vittime di un’epidemia di colera scoppiata a Dhaka, oggi la capitale del Bangladesh, e i risultati furono sorprendenti. Il colera si manifesta con una diarrea violenta e potenzialmente mortale, causata da un batterio, il vibrione del colera, che di solito la vittima ingerisce bevendo acqua contaminata. I batteri secernono una tossina che innesca un rapido afflusso di fluidi all’intestino. Il corpo, che è costituito al 60 per cento di acqua, diventa come una spugna strizzata. Il liquido che esce è di un colore bianco torbido, simile a quello dell’acqua con cui si è lavato il riso. Produce violenti conati di vomito e scariche di diarrea esplosiva. I bambini possono perdere un terzo del loro fluido corporeo in meno di 24 ore, una quantità fatale. Bere acqua per compensare quella perdita non serve, perché l’intestino non l’assorbe. Di conseguenza, tra le persone colpite, la mortalità di solito raggiunge o supera il 70 per cento.
Nel diciannovesimo secolo, le pandemie di colera uccisero milioni di persone in Asia, Europa, Africa e Nordamerica. La malattia era soprannominata la “morte blu” per via del colore azzurro-grigiastro che assume la pelle a causa dell’estrema disidratazione.Nel 1906 fu scoperta una cura parzialmente efficace: una soluzione salina somministrata per via endovenosa riduceva la mortalità al 30 per cento. La strategia più efficace rimaneva la prevenzione. Nei paesi più ricchi i sistemi fognari moderni e il trattamento delle acque eliminarono questa malattia. Ma nel mondo ogni anno milioni di bambini continuavano a morire di diarrea. Anche se riuscivano a raggiungere un ospedale, gli aghi, i tubi di plastica e i litri di fluido necessari per il trattamento erano molto costosi, in quantità limitata, e gli ammalati dipendevano totalmente dal personale medico, che a sua volta era insufficiente, soprattutto quando un’epidemia provocava migliaia di vittime.
Poi, negli anni sessanta del novecento, gli scienziati scoprirono che lo zucchero aiuta l’intestino ad assorbire i fluidi. Due ricercatori statunitensi, David Nalin e Richard Cash, si trovavano a Dhaka durante l’epidemia di colera, e decisero di testare la nuova scoperta, somministrando alle vittime per via orale una soluzione che conteneva zucchero oltre che sale. Molti dubitavano che i malati potessero berne abbastanza per compensare la perdita di liquidi, che in media andava dai 10 ai 20 litri al giorno. Perciò i due studiosi limitarono l’esperimento a 29 persone. I pazienti non ebbero nessuna difficoltà a bere abbastanza acqua da ridurre o addirittura eliminare la somministrazione del fluido per via endovenosa, e nessuno di loro morì.
Tre anni dopo, nel 1971, un medico indiano di nome Dilip Mahalanabis dirigeva il servizio di assistenza sanitaria di un campo profughi del Bengala occidentale che ospitava 350mila rifugiati della guerra d’indipendenza del Bangladesh, quando scoppiò il colera. Le scorte di fluido da somministrare per via endovenosa finirono e Mahalanabis ordinò ai suoi di provare con la soluzione di Dhaka. Solo il 3,6 per cento delle persone colpite morì, rispetto al consueto 30 per cento. La soluzione orale funzionava addirittura meglio di quella per endovena. Le vittime del colera erano vigili, in grado di ingerirla e, se ne bevevano abbastanza, quasi sempre si salvavano.
Quando questi risultati furono resi noti, ci si sarebbe potuti aspettare che tutti ne avrebbero chiesto la formula. La reidratazione orale era come l’etere: una soluzione miracolosa per un problema immediato e terrificante. Ma le cose non andarono così. Per capirne il motivo, dobbiamo immaginare un bambino che vomita e ha una diarrea incontenibile. Si ha l’impressione che facendolo bere si provochi solo ulteriore vomito. Combattere il vomito e la diarrea sembra difficile e inutile. La maggior parte delle persone tende a non dargli nulla. Inoltre, perché pensare che questa particolare miscela di zucchero e sale sia diversa dall’acqua o da qualsiasi altra cosa che abbiamo provato? E in effetti è particolare. Basta che la concentrazione di sale sia leggermente più alta e lo squilibrio elettrolitico può diventare pericoloso. Il bambino deve continuare a bere quella roba anche quando migliora, finché dura la diarrea, cioè in media per cinque giorni. Gli infermieri di solito smettevano di dargliela. Perché mai nei villaggi avrebbero dovuto fare di meglio?
Dieci anni dopo, questa importante scoperta non si era ancora diffusa. Le cose non erano molto cambiate. In tutto il mondo, la diarrea rimaneva la principale causa di morte dei bambini sotto i cinque anni. Ma nel 1980 un’organizzazione non profit bangladese chiamata Brac decise di provare a diffondere la terapia di reidratazione orale in tutto il paese. La campagna era rivolta a una popolazione in gran parte analfabeta. L’ultima campagna che aveva condotto – quella per la pianificazione familiare – era stata molto impopolare. E il messaggio che doveva trasmettere era complicato. Invece questa volta la campagna ebbe successo. Un bellissimo libro pubblicato in Bangladesh, e intitolato Una soluzione semplice, ne racconta la storia. L’organizzazione non usò i mezzi d’informazione. Dopotutto, solo il 20 per cento della popolazione aveva la radio. Affrontò il problema in un modo che di solito viene considerato poco pratico e inefficiente: andando di casa in casa e parlando con le persone.
Una soluzione semplice
Cominciò con un progetto pilota che si proponeva di raggiungere circa 60mila donne in 600 villaggi. L’impresa non era semplice. Chi sarebbero stati, per esempio, gli insegnanti? Come avrebbero viaggiato? Come sarebbe stato possibile garantire la loro sicurezza? I dirigenti della Brac programmarono il lavoro nel miglior modo possibile e poi fecero man mano degli aggiustamenti. Reclutarono squadre formate da quattordici giovani donne, un cuoco e un supervisore, immaginando che quest’ultimo avrebbe protetto le donne e che il loro numero le avrebbe difese da lui. Viaggiavano a piedi, si accampavano vicino ai villaggi, andavano di capanna in capanna, e restavano lì finché non avevano parlato con tutte le donne. Lavoravano per molte ore al giorno, sei giorni alla settimana. Ogni sera, dopo cena, si riunivano per discutere com’erano andate le cose e per pensare a come migliorarle. Periodicamente, venivano anche chiamati a rapporto dai dirigenti.
Le persone scelte erano semianalfabete, quindi avevano ridotto il messaggio a pochi punti chiave facili da ricordare. Una forte diarrea conduce alla morte per disidratazione; i segni della disidratazione sono: lingua asciutta, occhi affossati, sete, estrema debolezza e minzione ridotta; per curare la disidratazione bisogna reintegrare l’acqua e i sali che il corpo ha perduto, a partire dalla prima scarica; la soluzione reidratante è l’unico modo per farlo. Gli scienziati della Brac dovettero pensare anche a come i loro inviati avrebbero potuto insegnare la ricetta della soluzione. Nei villaggi non c’erano strumenti di misurazione precisi. Considerarono la possibilità di distribuire speciali cucchiai con le dosi scritte sul manico. Ma sarebbero costati troppo, la maggior parte delle persone non sarebbe stata in grado di leggerle, e non avrebbero saputo come sostituirli se fossero andati perduti. Alla fine, pensarono di usare le mani: un pugno di zucchero grezzo più un pizzico di sale in un seer d’acqua, la misura comunemente usata nei villaggi per il latte e l’olio. I test dimostrarono che le madri riuscivano a dosare gli ingredienti in modo sufficientemente preciso.
All’inizio i loro inviati parlavano con una ventina di madri al giorno. Ma da un controllo effettuato qualche tempo dopo, emerse che la qualità dell’insegnamento ne risentiva, quindi cominciarono a visitare solo dieci famiglie al giorno. Poi fu introdotto un nuovo sistema di retribuzione. Ognuno era pagato in base al numero di madri che aveva imparato la lezione al controllo successivo. La qualità dell’insegnamento migliorò notevolmente. Gli inviati sul campo si resero conto che far preparare la soluzione direttamente alle madri funzionava meglio che mostrare come si faceva. Appena arrivavano in un villaggio, cominciavano a chiedere se c’erano casi di diarrea e li curavano per dimostrare quanto quel rimedio fosse efficace e sicuro. I ricercatori cercarono una risposta anche ad altri dubbi che erano sorti, per esempio se era necessario usare acqua pulita (e scoprirono che, sebbene l’acqua bollita fosse preferibile, quella contaminata era meglio di niente).
I primi segnali erano promettenti. Le madri sembravano ricordare il cuore del messaggio. L’analisi delle soluzioni dimostrava che tre quarti di loro le preparavano correttamente, e solo in quattro casi su mille la quantità di sale era potenzialmente pericolosa. Perciò la Brac e il governo bangladese decisero di estendere il programma a tutto il paese. Assunsero, formarono e spedirono migliaia di persone in tutte le regioni. L’esperimento non funzionò perfettamente. Ma, andando di porta in porta in più di 75mila villaggi, insegnarono a 12 milioni di famiglie come salvare i loro bambini. Il programma ebbe un successo straordinario. L’uso della reidratazione per via orale salì alle stelle. La tecnica cominciò a diffondersi spontaneamente. Erano riusciti a cambiare le norme. Spingendo gli abitanti dei villaggi a preparare la soluzione da soli e a ripetere i messaggi a parole loro, mentre un insegnante li osservava e li guidava, si otteneva molto di più che con qualsiasi pubblicità progresso o video di istruzioni. Nel corso del tempo, è stato possibile diffondere il messaggio anche attraverso la radio e la televisione, e l’aumento della domanda ha fatto sorgere un fiorente mercato di pacchetti di sale pronti per la reidratazione orale. A trent’anni di distanza, da un sondaggio è emerso che a quasi il 90 per cento dei bambini affetti da diarrea acuta era stata somministrata quella soluzione. Dal 1980 al 2005 i casi di morte per diarrea sono diminuiti dell’80 per cento.
La cosa principale da insegnare ai chirurghi era ragionare come scienziati
Quando altri paesi hanno adottato il sistema del Bangladesh, in tutto il mondo le morti per diarrea sono scese da cinque a due milioni all’anno, nonostante l’aumento del 50 per cento della popolazione degli ultimi trent’anni. Eppure, nel mondo in via di sviluppo ancora oggi solo un terzo dei bambini affetti da diarrea è curato con la reidratazione orale. Molti paesi hanno cercato di diffondere il sistema a distanza, senza mandare nessuno sul campo. Ma hanno fallito quasi completamente. Parlare direttamente con le persone è ancora l’unico modo per cambiare le norme.
Alla fine del diciannovesimo secolo, tutti i chirurghi avevano finalmente adottato il metodo antisettico. Ma come spesso succede per le nuove idee, questo risultato aveva richiesto cambiamenti molto più profondi del previsto. Con le loro palandrane nere macchiate di sangue e incrostate di viscere, i chirurghi si sentivano guerrieri che combattevano l’emorragia poco più che a mani nude. Alcuni pionieri tedeschi, tuttavia, cominciarono a pensare a se stessi come scienziati. Sostituirono le redingote nere con impeccabili camici bianchi da laboratorio, riorganizzarono le sale operatorie in modo da farle diventare sterili, e diedero più importanza alla precisione anatomica che alla velocità.
La cosa principale da insegnare ai chirurghi, scoprirono, non era tanto eliminare i germi quanto ragionare come scienziati da laboratorio. I giovani dottori statunitensi e di altri paesi che andavano a studiare con i grandi luminari della chirurgia tedesca si convertivano con entusiasmo al loro modo di pensare e ai loro metodi. Quando tornavano a casa, erano diventati apostoli non solo delle pratiche antisettiche (per uccidere i germi) ma anche delle più impegnative pratiche asettiche (per prevenire i germi), che prevedevano l’uso di guanti, camici, cuffie e mascherine sterili. Facendo proseliti tra i loro colleghi e studenti, alla fine diffusero quelle idee in tutto il mondo.
Come un’amica
Nel campo dell’ostetricia, abbiamo già capito che gli accorgimenti più importanti non si diffonderanno mai da soli. La semplice “consapevolezza” non sarà sufficiente. Abbiamo bisogno anche qui di rappresentanti di commercio e di regole facili da ricordare. E in molti posti del mondo è già cominciato un tentativo di cambiare le norme persona per persona. Qualche tempo fa ho chiesto agli operatori di BetterBirth in India se avevano già visto un’ostetrica lavorare in modo diverso. Sì, hanno detto, ma ci vuole un po’ di tempo. Cominciano con una giornata di lezione per le ostetriche e i direttori degli ospedali sulla prassi da seguire. Poi li vanno a trovare sul posto e li osservano mentre cercano di applicarla.
Sorella Seema Yadav, un’infermiera di 24 anni dal viso tondo diplomata da tre anni, è una delle formatrici (in India le infermiere sono chiamate “sorelle”, come facevano i britannici ai tempi dell’impero). Il suo primo compito è stato quello di seguire una collega di trent’anni che aveva molta più esperienza di lei. Osservandola assistere una donna durante il travaglio e il parto, si è resa conto di quanto poco avesse assorbito quello che le era stato insegnato. La stanza non era stata disinfettata, in un secchio c’era ancora il sangue del parto precedente. Quando la donna era arrivata, gemendo perché le contrazioni stavano diventando più frequenti, non ha controllato i suoi parametri vitali. Non si è lavata le mani. Non ha preparato nulla per un’eventuale emergenza. Dopo il parto ha controllato la temperatura del neonato con la mano, non con un termometro. Invece di appoggiare il bambino sul corpo della madre perché lo riscaldasse, lo ha affidato ai parenti.
Quando Seema le ha fatto notare la discrepanza tra quello che le aveva insegnato e come si era comportata, l’infermiera si è offesa. Ha cercato di spiegare perché aveva saltato alcuni passaggi: non c’era tempo, aveva molte donne in attesa, non c’era mai un termometro a portata di mano, il personale delle pulizie non faceva mai il suo dovere. Seema, una ragazza esuberante e allegra che parla molto velocemente, l’ha portata dall’inserviente di turno e insieme le hanno spiegato perché era così importante pulire la sala tra un parto e l’altro. Sono andate dal direttore sanitario e hanno chiesto un termometro. Alla seconda e terza visita ha visto che la sala parto veniva disinfettata più regolarmente. In un armadietto avevano trovato un termometro. Ma la routine dell’infermiera non era molto cambiata.
Alla quarta o quinta visita, la loro conversazione si è spostata su un altro piano. Hanno bevuto un tè insieme e discusso perché bisognava lavarsi le mani anche se si mettevano i guanti (perché i guanti potevano essere bucati e spesso si toccavano i ferri prima di indossarli) e perché era importante controllare la pressione sanguigna (perché l’ipertensione è uno dei segnali dell’eclampsia che, se non viene curata, è una della cause di morte più comuni in gravidanza). Hanno imparato anche a conoscersi meglio. Con il passare del tempo, l’infermiera ha capito che Seema era lì solo per aiutarla e per imparare lei stessa da quell’esperienza. Si sono perfino scambiate il numero di cellulare e telefonate tra una visita e l’altra. Ben presto, l’infermiera ha cominciato a cambiare comportamento. Dopo diverse visite prendeva la temperatura e la pressione sanguigna regolarmente, si lavava le mani, somministrava i farmaci giusti, faceva quasi tutto. Seema l’ha visto con i suoi occhi. Ma ormai si è dovuta spostare in un altro ospedale pilota. E passerà un po’ di tempo prima di avere dati sufficienti per verificare se ha cambiato veramente le cose. Perciò, mi sono fatto dare il numero di telefono dell’infermiera e l’ho chiamata.
Erano passati quattro mesi dall’ultima visita di Seema. Le ho chiesto se aveva introdotto qualche cambiamento. Molti, ha risposto. “Qual è stato il più difficile?”, le ho chiesto.
“Lavarmi le mani”, ha detto. “Devo farlo tante di quelle volte!”.
“E il più facile?”.
“Controllare bene i parametri vitali”. Prima, ha detto, “lo facevamo ogni tanto”. Adesso, “tutto è diventato molto più sistematico”. E alla fine aveva cominciato a vederne gli effetti. Le emorragie postparto erano diminuite. Si accorgeva prima se c’era un problema. Aveva salvato un bambino che non respirava. Aveva diagnosticato l’eclampsia in una donna e l’aveva curata. Si sentiva che era orgogliosa di quello che raccontava. Per introdurre molti dei cambiamenti c’era voluto tempo. Aveva dovuto imparare a inserire queste abitudini nella sua routine quotidiana e a convincere le madri e i familiari che la cosa migliore per il neonato era stenderlo sul corpo della madre. Ma, passo dopo passo, Seema l’aveva aiutata. “Mi ha mostrato in pratica come fare le cose”, ha detto l’infermiera.
“E perché l’ha ascoltata?”, le ho chiesto. “Aveva molta meno esperienza di lei”.
All’inizio non l’ascoltava, ha ammesso. “Il primo giorno che è venuta ho avuto la sensazione che il mio carico di lavoro fosse aumentato”. Ma dalla seconda volta in poi aveva cominciato a prendere meglio le sue visite, arrivando quasi ad aspettarle con impazienza.
“Perché?”, le ho chiesto. L’unica cosa che ha trovato da dire è stata: “Era simpatica”.
“Tutto qui?”.
“Non era come parlare con qualcuno che cercava di coglierti in fallo”, ha detto. “Era come parlare con un’amica”.
Quella, secondo me, era la vera risposta. Da allora l’infermiera aveva trovato un suo modo per spiegare perché i neonati devono essere riscaldati a contatto con la pelle della madre. Adesso dice alle famiglie: “All’interno dell’utero fa molto caldo. Quando il bambino esce fuori, dev’essere mantenuto caldo. Il corpo della madre serve a questo”. Non ero sicuro che fosse davvero sincera e non mi stesse solo dicendo quello che volevo sentirmi dire. Ma quando mi ha spiegato come diceva con parole sue quello che aveva imparato, ho capito che il messaggio era arrivato.
“E le famiglie l’ascoltano?”.
“Di solito sì”.
(Traduzione di Bruna Tortorella)
Questo articolo è stato pubblicato il 22 novembre 2013 nel numero 1027 di Internazionale.
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