La prossima Biennale d’arte di Venezia si svolgerà tra l’aprile e il novembre 2024 e sarà un’edizione che, rispetto a quelle passate, si propone di promuovere una rottura radicale con l’idea più rigida di arte contemporanea. Per la prima volta il curatore sarà un latinoamericano, il brasiliano Adriano Pedrosa, che ha annunciato di voler celebrare la convivenza con la differenza in tutti suoi aspetti, e in particolare dare spazio alla creatività e alla filosofia dei popoli nativi, spesso trattati come degli stranieri nella loro stessa terra. Rivendicare la figura dello straniero significa per Pedrosa dare visibilità ad artisti che sono ai margini del mondo dell’arte o sono discriminati per diverse ragioni.

Anche se non era obbligatorio, molti paesi hanno accolto il messaggio del curatore della sessantesima Biennale inviando artisti indigeni, afrodiscendenti, esiliati, immigrati o con origini nelle ex colonie. A rappresentare la Spagna sarà Sandra Gamarra, un’artista peruviana di origini giapponesi, gli Stati Uniti per la prima volta hanno scelto l’opera della pittrice e scultrice indigena Jeffrey Gibson, mentre l’Irlanda darà spazio all’artista queer Eimear Walshe, per fare solo alcuni esempi. Ma il caso del Perù è diverso, come racconta un articolo del País.

Dopo aver analizzato quasi trenta proposte, alla fine di agosto una giuria ha stabilito che a occupare il padiglione peruviano alla Biennale sarà il progetto Cosmic traces, del fotografo di Lima Roberto Huarcaya, assiduo partecipante alle fiere d’arte in Europa, Asia e nelle Americhe, e già presente a Venezia nel 2001 e nel 2016. Oltre a suscitare polemica la scelta del titolo in inglese – forse Cosmic traces ha un’attrattiva che manca alla traduzione in spagnolo Rastros cósmicos, scrive il sito peruviano La mula – nel progetto non c’è nessun artista appartenente ai 55 popoli originari del Perù.

Inoltre, “anche se negli ultimi anni il lavoro di Huarcaya ha contribuito alla conoscenza e alla diffusione dell’arte amazzonica, non dialoga con i popoli nativi. La sua tecnica fotografica impiega materiali chimici che catturano le ombre delle piante e di altri esseri viventi della foresta per ottenere fotogrammi stampati su carta. È una tecnica minuziosa, ma mostra l’Amazzonia con uno sguardo esterno, di chi non ci ha mai vissuto e ci si addentra per catturare le sue immagini segrete”.

Al secondo posto è arrivato il progetto Koshi kené, dell’artista indigena e amazzonica Olinda Silvano. Il titolo, nella lingua shipibo-konibo, significa il potere del kené, una tecnica che gli shipibo-konibo usano per familiarizzare con le piante, entrare in comunicazione con loro e visualizzare in forma di pensieri il loro potere.

​Questo articolo è tratto dalla newsletter Sudamericana.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it

Abbonati per ricevere Internazionale
ogni settimana a casa tua.

Abbonati