Questo articolo è uscito il 31 luglio 2009 nel numero 806 di Internazionale. L’originale era uscito sul quotidiano britannico The Guardian con il titolo The people who fell to earth.
Sei sopravvissuti raccontano come si esce da un disastro aereo.
Josh Peltz, 39 anni
Volo: Us Airways 1549
Luogo dell’incidente: fiume Hudson, New York, Stati Uniti
Data: 15 gennaio 2009
Vorrei credere che tutti si sarebbero comportati come me. Ero seduto al posto 10F, vicino al finestrino accanto all’uscita di emergenza, sul lato destro dell’aereo. Prendo l’aereo due volte al mese per lavoro e cerco sempre di trovare un posto con più spazio per le gambe. Non ho paura di volare: quando siamo decollati stavo per addormentarmi. Qualche minuto dopo, però, c’è stata una forte esplosione, come il ritorno di fiamma di un’automobile. L’aereo ha avuto uno scossone e si è sentito un odore di macchinari bruciati. Sono rimasti tutti senza fiato. Qualcuno ha urlato.
Guardando fuori dal finestrino vedevo che eravamo sballottati avanti e indietro. Sotto di noi le case sembravano giocattoli e le macchine formiche. Ma dal momento che non stavamo precipitando, ho pensato: “Uno dei motori si è rotto, ma ne abbiamo un altro e stiamo tornando all’aeroporto LaGuardia. Il pilota ha tutto sotto controllo”. Non mi ero reso conto che entrambi i motori avevano smesso di funzionare.
C’era un silenzio innaturale. Tutti cercavano di capire cosa stava succedendo. Una cosa era chiara: non eravamo diretti all’aeroporto, ma puntavamo sull’acqua. Allora ho cominciato a pensare che forse era la fine. Ho pensato a mia moglie Tesa e ai nostri due figli: Adeline, di quasi tre anni, e Zy, che aveva appena dodici settimane. Ho cercato di rassegnarmi, ma poi c’è stato l’annuncio: “È il capitano che parla. Preparatevi all’impatto”. In quel momento ho capito che non dovevo pensare alla morte ma a cosa avrei fatto dopo l’ammaraggio. “Se questo è il posto che ti hanno assegnato”, mi sono detto, “devi riuscire ad aprire quel portellone”.
Quando eravamo a circa mille metri ho cominciato a leggere le istruzioni. C’erano sei passaggi: li ho letti due o tre volte, cercando di memorizzarli e di immaginare me stesso mentre aprivo il portellone. Ci stavamo avvicinando rapidamente all’acqua. Ho stretto bene la cintura di sicurezza e mi sono raggomitolato coprendomi con il cappotto. Poi c’è stato l’impatto. È stato come il peggiore incidente automobilistico che possiate siate immaginare. L’aereo è rimbalzato e poi ha cominciato a pattinare sull’acqua. Quando si è fermato, molti passeggeri avevano il naso o gli occhi coperti di sangue, perché avevano sbattuto sul sedile davanti. Ma il mio primo pensiero è stato: “Questo aereo sta per affondare, dobbiamo uscire tutti al più presto”.
Qualcuno accanto a me stava cercando di aprire il portellone tirandolo verso l’interno. “No, deve spingere verso l’esterno”, gli ho detto. Lo avevo appena letto sulle istruzioni. Sapevo che tutti si sarebbero precipitati verso l’uscita d’emergenza. Bisognava evitare che le persone si ammassassero bloccando il passaggio. Sono riuscito ad aprire il portellone e ho afferrato la mano di Jenny, la donna seduta accanto a me. Siamo usciti sull’ala e abbiamo percorso qualche metro tenendoci a vicenda.
Le onde lambivano l’ala che affondava lentamente. Ci siamo spinti il più avanti possibile per fare spazio ad altri passeggeri. Quelli che erano seduti agli ultimi posti spingevano per uscire, mentre l’aereo cominciava a riempirsi d’acqua. Ma sull’ala tutti aiutavano tutti. Faceva molto freddo e nessuno aveva la giacca. C’erano persone immerse nell’acqua fino alla vita e io pensavo: “Adesso affoghiamo. Moriremo congelati”.
Mi è sembrato che il traghetto ci abbia messo mezz’ora ad arrivare, ma forse sono stati cinque o dieci minuti. Per un attimo ho pensato di tuffarmi per raggiungerlo, ma avevo sentito che bastano pochi secondi per andare in ipotermia: nel giro di qualche minuto gambe e braccia non funzionano più. Se la testa finisce sott’acqua, il cervello può subire dei danni. Sono stato il quarto a salire sul traghetto, e ho cominciato ad aiutare gli altri. C’era una donna che si teneva stretto un bambino. Un uomo, stordito perché era finito sott’acqua, stava sdraiato sul ponte del traghetto e si lamentava. I marinai si sono tolti le giacche e le camicie per darle ai passeggeri che morivano di freddo.
Il trauma mi è rimasto. Ho immaginato tanti finali diversi: il portellone che non si apriva, l’ala che sbatteva contro la superficie del fiume rovesciandoci e facendoci ruotare finché l’aereo andava in pezzi e io finivo a testa in giù, sommerso dall’acqua. E ho anche pensato: perché proprio io? Perché sono ancora qui? Ma di questa esperienza ricorderò sempre che tutti hanno fatto del loro meglio per aiutare gli altri. È confortante sapere che in un momento di difficoltà sono stato capace di reagire. Sono riuscito a farcela affrontando una cosa alla volta, pensando solo ai dieci secondi successivi. Apri il portellone, spingilo in fuori, cerca di capire se stai affondando. Qual è la prossima cosa che devi fare? Ho continuato così finché ho toccato terra, sono entrato nella stazione dei traghetti e ho parlato con mia moglie. Solo allora sono andato in bagno e mi sono abbandonato al pianto per qualche minuto.
Rosebell Kirungi, 41 anni
Volo: piccolo aereo in affitto
Luogo dell’incidente: monti Rwenzori, Repubblica Democratica del Congo
Data: 25 settembre 1998
Era un volo charter dall’Uganda, diretto nella Repubblica Democratica del Congo. Ero seduta all’altezza dell’ala, accanto al finestrino. L’unica donna a bordo insieme a nove uomini. Dopo 45 minuti di volo mi sono accorta che l’aereo stava volando molto basso sulle montagne. Il pilota ha annunciato che aveva perso il controllo e mi sono allacciata la cintura di sicurezza. Gli altri passeggeri erano in preda al panico. Pensavo alla mia famiglia e pregavo. Ero preoccupata per mia figlia, che aveva solo quattro anni. Ero una ragazza madre e non volevo che restasse sola. Nel giro di tre minuti l’aereo si è infilato tra gli alberi e poi si è schiantato sulle montagne.
Alcuni passeggeri sono stati sbalzati fuori attraverso il parabrezza, ma io ero ancora allacciata al mio posto, senza ferite. Avevo solo perso le scarpe. Mi sono slacciata la cintura di sicurezza. I sedili si erano spostati, era impossibile andare avanti o indietro. L’unico sistema per uscire dall’aereo era passare da un’apertura sopra l’ala. Ero molto calma e lucida, secondo me perché la fede in Dio mi ha dato forza. Sono uscita fuori e ho prestato i primi soccorsi agli altri passeggeri feriti: ho preso dell’acqua dall’aereo e ho cercato di mantenerli calmi. Avevamo paura di essere uccisi, perché sapevamo che in quella zona c’erano i ribelli congolesi. Ci siamo divisi in due gruppi di cinque persone per cercare soccorso. Ci alzavamo alle sei di mattina e camminavamo fino alle sette o alle otto di sera. Pioveva e nevicava, e non avevamo niente da mangiare e da bere. Non sapevo in quale direzione stavo andando, ma ero convinta che Dio mi aveva salvato la vita e che il resto dipendeva da me.
Gli altri sono morti tutti. Il primo giorno abbiamo perso tre persone del nostro gruppo: non avevano la forza per camminare e sono scomparse nella giungla. Il nono giorno ero rimasta sola. Finalmente il decimo giorno sono stata salvata da un’organizzazione delle Nazioni Unite e da alcuni soldati dell’esercito ugandese. Dall’alto non riuscivano a vedere il luogo dell’incidente, perciò avevano dovuto mandare un gruppo in esplorazione a terra. Avevo fatto più di cento chilometri a piedi. Le strutture mediche dove sono stata soccorsa erano male attrezzate. In seguito mi hanno trasferita in aereo in un ospedale migliore, ma ormai avevo le punte dei piedi nere a causa della cancrena. Mi hanno amputato tutte e due le gambe sotto il ginocchio.
Ora ripenso all’incidente in modo positivo: è successo per una ragione. Ho imparato di nuovo a camminare e a guidare. Mi sono laureata. Mi piace ancora volare.
Upton Rehnberg, 72 anni
Volo: United Airlines 232
Luogo dell’incidente: Sioux City, Stati Uniti
Data: 19 luglio 1989
Avevo preso l’aereo all’ultimo momento. Volevo tornare a casa in tempo per festeggiare mio figlio, che compiva nove anni. Di solito chiedo un posto nel retro dell’aereo, ma quel giorno erano rimasti pochi posti liberi e mi avevano assegnato il 9A, il posto vicino al finestrino accanto all’uscita di emergenza, sul lato sinistro dell’apparecchio. Se avessi preso il mio solito posto sarei morto.
Ero seduto davanti a una hostess. Dopo circa un’ora di volo mi sono chinato verso di lei e le ho detto a bassa voce: “Il pilota guida in modo molto strano”. C’era stata una forte esplosione. Ci avevano annunciato che avevamo perso un motore, ma sembrava che tutto fosse tornato normale. “Problemi idraulici”, mi ha risposto dolcemente la hostess. Non sapevo, però, che il sistema idraulico faceva funzionare tutto e che quello dell’aereo aveva perso potenza. Gli assistenti di volo cercavano di dare l’impressione che tutto fosse sotto controllo. Poi, mezz’ora dopo l’esplosione, ci hanno detto di assumere la posizione di sicurezza perché dovevamo essere pronti al peggio.
Eppure non pensavo che saremmo morti. Ero convinto che sarebbero riusciti a far atterrare l’aereo. C’era silenzio. Ricordo di essermi tolto la cravatta, non so perché. Ho messo gli occhiali da lettura nel taschino della camicia, mi sono allacciato le scarpe e ho aspettato.
In seguito mi hanno detto che abbiamo toccato terra a 420 chilometri all’ora: la velocità di atterraggio normale è di circa 240 chilometri all’ora. L’ala destra è stata la prima a colpire il suolo e ha preso fuoco. L’aereo ha sbattuto violentemente, è rimbalzato, poi è piombato di nuovo giù con il muso e ha cominciato a ruotare. Il rumore e l’impatto sono stati incredibili. Non sono riuscito a mantenere la posizione di sicurezza e sono rimbalzato all’indietro con le braccia sulla testa. Una palla di carburante in fiamme è entrata attraverso il portellone sfiorandomi il ginocchio sinistro e colpendomi in pieno volto. Ha distrutto il davanti della mia camicia in poliestere, ustionandomi il petto e bruciando la pelle tra l’estremità dei calzini e i pantaloni.
L’aereo si è spaccato in cinque pezzi, che sono schizzati in direzioni diverse. Noi siamo stati scagliati tutt’intorno, e io ho perso conoscenza. Quando mi sono ripreso ero appeso a testa in giù alla cintura di sicurezza. L’ ho slacciata e ho camminato sul soffitto della cabina fino all’uscita. C’erano dei cavi appesi: li ho sollevati per far uscire i passeggeri dietro di me. Pensavo solo che bisognava far muovere tutti rapidamente in modo che non si bloccassero a vicenda.
Quando c’è un incidente aereo, la gente resta seduta aspettando indicazioni, ma essere preparati può fare una grande differenza. Ora quando viaggio in aereo uso solo vestiti in fibra naturale. Spesso mi metto una felpa con il cappuccio. Un tecnico di volo che era ricoverato con me nel reparto ustionati mi ha raccontato che i membri dell’equipaggio, quando viaggiano come passeggeri, sanno che devono coprirsi la testa con una coperta in caso di atterraggio d’emergenza. Il problema è che non ci sono mai abbastanza coperte per tutti i passeggeri. Quindi può essere decisivo vestirsi in modo da coprire il corpo il più possibile e contare le file che separano il tuo posto dalle uscite, sapere come aprirle e muoversi rapidamente. Per salvarti la vita devi fare affidamento soprattutto su te stesso.
DomInica McGowan, 57 anni
Volo: British Midland Airways 92
Luogo dell’incidente: Kegworth, Gran Bretagna
Data: 8 gennaio 1989
Ci avevano già dato il pranzo e un bicchiere di vino, quando all’improvviso hanno annunciato che c’erano delle difficoltà. Gli steward hanno attraversato di corsa l’aereo, raccogliendo i piatti e buttandoli nei sacchi di plastica.
All’epoca facevo la psicologa. La giovane seduta accanto a me, nel posto vicino al corridoio, era sconvolta, così le ho detto: “Conosce qualcuno che ha avuto un incidente aereo? Quante possibilità ci sono che succeda a noi?”. La mia amica Margaret era seduta vicino al finestrino, proprio all’altezza dell’ala, e continuava a ripetere: “Guarda quanto fumo!”. Ma io non le davo retta.
Poi il pilota ha fatto un annuncio, dicendoci di prepararci a un atterraggio d’emergenza. Ho pensato che volesse dire un atterraggio scomodo. Non mi è venuto neanche in mente che potessimo davvero schiantarci al suolo. Comunque mi sono piegata e ho messo le braccia sulla testa. Poi ricordo solo un rumore simile allo scoppio di uno pneumatico, e lo schianto.
Pensavo di essere rimasta cosciente per tutto il tempo, ma mi hanno detto che non può essere andata così. Non mi pare di aver ripreso i sensi, ma ricordo una sensazione di buio e di essermi resa conto che ci eravamo fermati. Ho cercato di svegliare Margaret, ma non era cosciente. Anche la donna dall’altra parte era svenuta. Ho pensato una cosa sola: “Devo uscire di qui”. Mi sono tolta la cintura di sicurezza e mi sono arrampicata verso l’uscita. Ho incontrato i vigili del fuoco che salivano sull’aereo e mi hanno aiutato a scendere con un telone a scivolo. Poi mi sono ritrovata sdraiata per terra al gelo. Qualcuno aveva montato una flebo.
Subito dopo ero in ambulanza. Avevo fratture al cranio e a una spalla, costole spezzate, un polmone perforato, il femore rotto e la schiena gravemente lesionata. Sono rimasta in terapia intensiva per una settimana e poi in reparto per un’altra settimana. Margaret è rimasta in terapia intensiva più a lungo. È ancora sulla sedia a rotelle.
Quando sono tornata a casa ho rivisto le immagini dell’incidente in tv e ho sentito che erano morte 47 persone. è stato quello il vero shock. Credevo che fossero venuti tutti fuori come me. Ma grazie al mio lavoro sapevo bene cos’è lo shock post-traumatico e quanto è importante parlare di quello che è successo per assorbirlo e farlo diventare una parte della tua vita.
Sono tornata al lavoro nel febbraio del 1989. Sono sempre stata forte. Ovviamente ero stata fortunata a riuscire ad alzarmi e a lasciare l’aereo. Molte persone erano rimaste gravemente ferite o erano morte. Ma io a quell’epoca ero già piuttosto temprata. L’istinto di sopravvivenza c’era già. La mia vita è stata dura e ho dovuto lottare parecchio. L’incidente aereo era un’altra sfida che dovevo vincere. Se si affronta un’esperienza del genere con ansia e incertezza, si resta ancora più traumatizzati. Io non ripenso alla mia vita dicendo: “Dio mio, ho avuto un incidente aereo”. Guardo il lato positivo: “Non sono morta, le persone sono state gentili e disponibili”. Sono stata fortunata a uscirne viva.
Mercedes Ramírez Johnson, 34 anni
Volo: American Airlines 965
Luogo dell’incidente: Buga, Colombia
Data: 20 dicembre 1995
Era il mio ventunesimo compleanno. Stavo andando con i miei genitori a Cali, in Colombia, per passare il Natale con i parenti di mio padre. Erano le nove di sera e mancavano quindici minuti all’atterraggio quando, senza preavviso, il pilota ha rialzato bruscamente il muso dell’aereo. L’abitacolo tremava tutto, la turbolenza era incredibilmente forte. E si è scatenato il panico. Mia madre era una fila davanti. Io ero accanto a mio padre, nella fila vicino all’uscita sull’ala. Ricordo di aver sentito mia madre che pregava.
La sua voce mi ha calmata. Non pensavo che saremmo caduti e che potevamo morire. Continuavo solo a pensare: “Sbrigati a fare qualcosa, raddrizza l’aereo”. Poi abbiamo sentito quel rombo spaventoso dal retro e una forte vibrazione. Ho afferrato la mano di mio padre e lui ha stretto la mia. Ho appoggiato la testa sulle ginocchia e ho chiusi gli occhi.
Quando ho ripreso coscienza, avevo perso completamente l’orientamento. Intorno a me era tutto a pezzi. La mia coscia destra era piegata al centro e la parte inferiore della gamba era dietro di me, ma non provavo nessun dolore. Ero sdraiata nel corridoio dell’aereo e sentivo una voce maschile che proveniva dall’esterno. Mi sono trascinata da quella parte. L’uomo mi ha tirato fuori. Siamo sopravvissuti solo in quattro ed eravamo tutti seduti nella parte centrale dell’aereo. Abbiamo aspettato diciotto ore sulla montagna prima che arrivassero i soccorsi.
Solo quando mi hanno ricoverato in ospedale ho capito quanto erano gravi le mie ferite. Avevo la gamba rotta, lesioni al midollo spinale, alla schiena, lesioni interne causate dalla cintura di sicurezza, costole spezzate. I cronisti sono entrati nella mia stanza travestiti da medici e da infermieri e, in diretta tv, mi hanno detto che i miei genitori erano morti. Ho visto le immagini di quell’intervista, ma non ricordo di aver parlato con loro. In seguito hanno scoperto che quindici minuti prima dell’incidente i piloti avevano introdotto per errore un codice sbagliato nel computer di volo. Non si erano resi conto che stavano puntando sulle montagne. Lo hanno capito solo quando il sistema di allarme di vicinanza al suolo si è messo a suonare. Allora hanno cercato di riprendere quota tirando su il muso dell’aereo. Il rombo spaventoso che avevo sentito era la coda dell’aereo che colpiva la montagna.
Fred Jones, 58 anni
Volo: Piper Cherokee
Luogo dell’incidente: Shropshire, Gran Bretagna
Data: 2 aprile 1988
Al momento del decollo, la giornata era limpida e luminosa. Faceva molto freddo. Con il nostro piccolo apparecchio stavamo sorvolando il Long Mynd, una piccola catena montuosa. All’improvviso i finestrini laterali si sono coperti di ghiaccio e non riuscivamo a vedere più niente. Io facevo il copilota. Il pilota, Ken Turner, mi ha detto in cuffia: “Verifica i comandi”. Sembrava che si fossero bloccati. Io e Ken stavamo zitti e cercavamo di decidere cosa fare. Davamo dei colpetti ai comandi, cercavamo di accendere il riscaldamento, ma non funzionava niente. Poi il motore ha cominciato a perdere colpi. Il carburante si era congelato nei tubi. Eravamo in caduta libera. Ho sentito Ken che lanciava il mayday alla radio. Ho sentito un brivido lungo la schiena. Non ci siamo detti quasi nulla.
Non eravamo in preda al panico, ma era davvero terribile. Non avevamo il paracadute. Non ho provato neanche ad assumere la posizione di sicurezza, perché a quella velocità era del tutto inutile. Se sei in rotta di collisione su un velivolo leggero e il destino non ti aiuta, sei condannato. Mi ero rassegnato al fatto che nei 57 secondi che avremmo impiegato per schiantarci al suolo non potevamo fare niente. Abbiamo cercato di far ripartire il motore nel caso che un po’ di carburante fosse riuscito a passare.
L’unica cosa che potevo fare era tentare di muovere l’aletta dello stabilizzatore sopra la mia testa, per dare peso all’aereo e rallentare un po’ la discesa. Mi hanno raccontato che quando ero in coma in ospedale sollevavo la mano destra e la ruotavo come per regolare l’aletta.
Sapevo che in quel momento stavo per morire. Stavo precipitando con l’aereo a 290 chilometri all’ora da un’altezza di 2,4 chilometri. Ho provato lo shock totale di capire che era la fine. La mia vita era stata bella, ma sarebbe finita quel giorno. Tutto quello che volevo era un telefono per parlare ai miei due ragazzi e dirgli: “Va tutto bene, pensate alla mamma”.
Fuori dal finestrino hanno cominciato ad apparire le sagome degli alberi. Poi c’è stato lo schianto: un albero aveva colpito l’ala sinistra staccandola dalla cabina di pilotaggio. Io ho sbattuto contro il cruscotto e ho rotto il vetro, che mi ha troncato il naso di netto e mi ha tagliato un occhio. Non ricordo il minimo dolore. Tutto è diventato nero. Ero intrappolato nella cabina di pilotaggio sul fianco di una collina. Per fortuna l’aereo non ha preso fuoco. Tre settimane dopo mi sono svegliato nell’ospedale di Shrewsbury. Avevo perso un occhio e il naso, mi ero spaccato la colonna vertebrale, una spalla, la mascella e una caviglia. È merito delle cure se sono riuscito a camminare di nuovo.
Prima ero un uomo d’affari. Gestivo un’azienda che avevo messo in piedi da solo. Ero un tipo piuttosto irritabile. L’incidente mi ha cambiato. Ogni giorno è un regalo. Anche nelle giornate peggiori, sono qui. Respiro.
Regole di sopravvivenza
Ed Galea, docente di modelli matematici all’università di Greenwich a Londra, ha intervistato più di mille superstiti di 105 incidenti aerei. Sulla base dei loro racconti ha suggerito sul Guardian una serie di misure che aumentano la probabilità di sopravvivere.
- Non toglietevi le scarpe. Non toglietevi le scarpe fino a quando l’aereo ha raggiunto la quota di crociera e prima che cominci la discesa: se sarete costretti ad abbandonare l’apparecchio, potreste trovare dei detriti nell’abitacolo e tutt’intorno, e quindi avrete bisogno delle scarpe.
- Fatevi assegnare un posto vicino a un’uscita. I superstiti viaggiano in media a non più di sette file da un’uscita praticabile. Se siete a meno di cinque file da un’uscita, le vostre probabilità di sopravvivenza aumentano.
- Sedete vicino al corridoio. Non ci sono vantaggi concreti nell’essere seduti nella parte anteriore o posteriore dell’aereo, ma le statistiche indicano che le probabilità di sopravvivenza sono leggermente maggiori se avete il posto accanto al corridoio, perché potete cominciare a dirigervi verso l’uscita più rapidamente.
- Sedete accanto alla vostra famiglia. In caso di emergenza, le famiglie che sono separate cercano di riunirsi prima di evacuare l’aereo, provocando ulteriore confusione. Prenotate posti vicini o, in un volo low cost che non prevede la prenotazione, chiedete di spostarvi per restare seduti vicini. Stabilite anche chi è responsabile di ciascun bambino, in modo che non ci sia confusione in caso di incidente.
- Esercitatevi a slacciare la cintura di sicurezza. Un numero preoccupante di persone ha avuto difficoltà a slacciare la cintura di sicurezza, soprattutto perché cercava di premere un bottone, come si fa con quelle delle automobili. Tenete la cintura di sicurezza allacciata per tutto il volo.
- Contate quante file vi separano dall’uscita. In un ambiente buio o pieno di fumo, potreste non essere in grado di vedere dov’è l’uscita. Ci sono stati casi di persone che dopo un incidente avevano superato l’uscita senza rendersene conto. Quando si avvicina il decollo o l’atterraggio, guardatevi sempre bene intorno.
- Esercitatevi ad assumere la posizione di sicurezza. È inutile avere un posto vicino all’uscita se siete fisicamente impossibilitati a muovervi. La posizione di sicurezza, rannicchiati con la testa fra le ginocchia e le braccia intorno alle gambe, è studiata per minimizzare le probabilità di un urto che vi faccia perdere conoscenza o vi faccia rompere braccia e gambe.
(Traduzione di Giuseppina Cavallo)
Questo articolo è uscito il 31 luglio 2009 nel numero 806 di Internazionale. L’originale era uscito sul quotidiano britannico The Guardian con il titolo The people who fell to earth.
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