Il 2 dicembre 1971 sei emirati abitati da circa 300mila persone che vivevano principalmente in tende o in semplici case di mattoni d’argilla nel deserto e lungo una costa infestata dai pirati decisero di unirsi in una federazione. Pochi mesi dopo se ne aggiunse un altro. Quell’anno la potenza coloniale britannica aveva deciso di ritirarsi dalle regioni a est del canale di Suez, dove si era installata costruendo basi e forti per difendere la rotta verso l’India. Cinquant’anni e innumerevoli barili di petrolio dopo, gli Emirati Arabi Uniti hanno festeggiato l’anniversario in pompa magna: la giornata di giovedì 2 dicembre è stata scandita da parate, concerti, fuochi d’artificio, spettacoli, performance e manifestazioni aeree.
I giornali locali non sono stati da meno: The National ha ricordato tutti gli ingredienti che hanno reso gli Emirati il paese “moderno, progressista e affermato che è oggi”, mentre Khaleej Times ha parlato di “una giovane nazione e dei progressi giganteschi”. Gulf News ha raccontato “tutte le storie di successo” globali e locali degli ultimi decenni e il quotidiano in lingua araba Al Khaleej si è rallegrato che “l’eco della nazione risuona in tutto il mondo”.
Redini e traino
In un articolo che ripercorre le tappe dell’affermazione del paese, L’Orient-Le Jour sostiene che “paradossalmente, il segreto del successo della formula si basa sulle disuguaglianze tra gli emirati”. A tenere le redini sono i due più noti e importanti: Abu Dhabi, la capitale che punta sulle riserve petrolifere per promuovere le sue ambizioni geopolitiche, e Dubai, che ha creato un modello economico fondato sui flussi di merci e turisti. Gli altri cinque – Ajman, Sharja, Fujaira, Umm al Qaywayn e Ras al Khaima – si lasciano trainare e accettano la loro inferiorità in cambio del consistente sostegno finanziario garantito da Abu Dhabi.
D’altra parte storicamente i sei emirati erano sempre stati in competizione tra loro. Furono la volontà e il savoir-faire dell’emiro di Abu Dhabi Zayed bin Sultan al Nahyan a “creare un paese che non esisteva”, convincendo prima il suo rivale di sempre, l’emiro di Dubai Rashid bin Said al Maktum, e poi gli altri a unire le forze per far fronte alle sfide della post colonizzazione, legate in particolare alla rivalità tra i loro potenti vicini, l’Arabia Saudita e l’Iran. Furono necessari due anni di negoziati per arrivare a un accordo: Zayed avrebbe condiviso con tutti gli altri emirati le rendite del petrolio, a condizione che ciascuno si occupasse del proprio sviluppo. Così nei decenni successivi i megaprogetti si sono moltiplicati: dai grattacieli più alti del mondo alle infrastrutture all’avanguardia alle iniziative finanziarie, tecnologiche, mediatiche e culturali.
Oggi i figli dei due fondatori, Khalifa bin Zayed e Mohammed bin Rashid, mandano avanti l’opera dei loro padri, anche se di fatto è il principe ereditario Mohammed bin Zayed a guidare Abu Dhabi e tutti gli Emirati, approfittando dei problemi di salute del fratello Khalifa. Il 90 per cento della popolazione, cresciuta fino a dieci milioni, è composto da stranieri. Le accuse di repressione dei dissidenti e di violazioni dei diritti umani nella guerra nello Yemen non hanno impedito agli Emirati di attirare gli investimenti che li hanno resi la seconda economia più forte del mondo arabo dietro all’Arabia Saudita e di aumentare la loro influenza politica, riempiendo un vuoto lasciato dai tradizionali poteri della regione come Egitto, Iraq e Siria.
Il giorno dopo le celebrazioni, gli Emirati Arabi Uniti hanno segnato un altro punto sullo scacchiere internazionale. Durante la prima tappa di una visita di tre giorni del presidente francese Emmanuel Macron nel Golfo, il 3 dicembre i due paesi hanno firmato un accordo per l’acquisto da parte di Abu Dhabi di ottanta aerei da combattimento francesi per un valore di 16 miliardi di euro.
Come ricorda Courrier international, in occasione del cinquantenario ogni emirato ha concesso un’amnistia ad alcuni detenuti. Ma tra loro non c’è Ahmed Mansur, il prigioniero politico più famoso del paese, condannato a dieci anni di carcere nel 2018 a causa del suo attivismo a favore dei diritti umani.
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