Il 21 aprile Hassan Hassanzadeh, comandante dei Guardiani della rivoluzione a Teheran, ha annunciato la creazione di un nuovo organo nazionale incaricato di far rispettare nei luoghi pubblici il rigido codice di abbigliamento previsto per le donne. L’annuncio segue la stretta decisa dal governo iraniano sulle regole morali, imposte soprattutto alle donne, nell’ambito di un’operazione chiamata Nour, “luce” in persiano. Sui social network si sono moltiplicate le denunce, con l’hashtag “guerra contro le donne”, sul nuovo giro di vite che colpisce in particolare chi esce con il capo scoperto. Fotografie e video mostrano furgoni e agenti della polizia religiosa pattugliare le strade di molte città iraniane, da Ardabil a Karaj fino a Teheran. Il collettivo di avvocati Dadban ha condiviso il video dell’arresto di una giovane nella capitale.

Negli ultimi giorni la repressione ha colpito soprattutto le università, riferiscono varie fonti della diaspora iraniana. Secondo Iran Wire gli agenti della sicurezza dell’università di Sanandaj, nel Kurdistan iraniano, hanno importunato le studenti il cui abbigliamento era giudicato “inadatto”, minacciando di denunciarle ai comitati disciplinari e confiscando i loro tesserini. All’entrata dell’università femminile Alzahra di Teheran sarebbero stati installati dispositivi per il riconoscimento facciale, mentre al politecnico gli ingressi sono stati separati per le donne, costrette a indossare il chador (il velo che copre tutto il corpo), e per gli uomini, a cui era vietato portare magliette e camicie a maniche corte o abbigliamento sportivo. Dopo che a circa duecento studenti è stato impedito di entrare nel campus, molti compagni hanno lanciato uno sciopero di solidarietà.

Il canale televisivo Iran International, con sede nel Regno Unito, sostiene che il governo “ha lanciato una nuova guerra ibrida contro le donne”, in cui sono impiegati regolarmente alcuni metodi. Tra questi: gettare coperte sulla testa delle donne che non indossano il velo durante gli arresti, affiancare alle unità speciali agenti in borghese per soffocare le proteste dei passanti, impiegare poliziotti a volto coperto per intimidire le persone, insultare e umiliare le donne e molestarle sessualmente durante la detenzione, affiggere nelle strade cartelli in cui l’uso dell’hijab (il velo che copre i capelli) è associato alla morale e alla religiosità.

Lo stesso articolo sottolinea però che da quando l’Iran è stato attraversato dalla mobilitazione seguita alla morte di Mahsa Jina Amini sotto la custodia della polizia religiosa nel settembre del 2022, le donne sono legate da una rete nazionale, attiva soprattutto online, ma che prevede anche incontri in presenza e azioni antigovernative.

In un messaggio pubblicato il 21 aprile sulla sua pagina Instagram, l’attivista iraniana Narges Mohammadi, premio Nobel per la pace 2023 e detenuta nel carcere di Evin, a Teheran, conferma: “Oggi la teocrazia autoritaria ha lanciato una vera e propria guerra contro tutte le donne in tutte le strade del paese, da una posizione non di potere ma di disperazione”. Nel suo messaggio Mohammadi fa anche sapere che la giornalista Dina Ghalibaf, arrestata il 15 aprile dopo aver pubblicato il racconto della sua precedente detenzione da parte della polizia religiosa per aver infranto la legge sull’uso dell’hijab, è arrivata alla prigione di Evin “con il corpo coperto di lividi”.

Il messaggio vocale è stato registrato di nascosto da una cabina telefonica nella sezione femminile del carcere nella zona nord di Teheran. Mohammadi, condannata a un totale di 31 anni di detenzione per il suo impegno contro la pena di morte, l’uso sistematico della tortura e della violenza sui prigionieri politici, in particolare le donne, e a favore la difesa dei diritti umani, non può fare o ricevere telefonate.

È riuscita a sfuggire alla vigilanza delle guardie grazie all’aiuto della sua compagna di detenzione Sepideh Qoliyan, attivista e giornalista arrestata più volte a causa del suo lavoro. Le Monde ha trascritto il messaggio in cui Mohammadi sottolinea il ruolo delle iraniane nella resistenza contro il regime, le esorta a continuare la loro lotta e chiede al mondo di sostenerle: “Noi, le donne, mettiamo tutta la nostra energia nella resistenza ogni giorno. Ovunque ci battiamo contro la tirannia, nelle prigioni come nelle strade”.

Intanto in Arabia Saudita

A proposito di oppressione e resistenza delle donne, sul numero di Internazionale in edicola traduciamo un intervento pubblicato sul Guardian da Lina al Hathloul, che fa parte del comitato direttivo di Alqst for human rights, un’organizzazione per la difesa dei diritti umani in Arabia Saudita con sede nel Regno Unito, ed è la sorella della nota attivista per i diritti delle donne Loujain al Hathloul.

L’Arabia Saudita, scrive Al Hathloul, vuole presentarsi sulla scena mondiale come una potenza sempre più progressista e moderata, ma continua a reprimere i suoi cittadini, in particolare le donne. Tra gli strumenti usati in modo arbitrario e illegale per tenere sotto controllo la popolazione c’è il divieto di espatrio, che priva le persone del loro diritto alla libertà di movimento.

È quello che è successo a Loujain al Hathloul, che ha trascorso quasi tre anni in carcere e dopo essere stata liberata nel febbraio 2021 non ha mai potuto lasciare il paese. La misura, che doveva durare tre anni, è stata estesa a tempo indeterminato. La stessa restrizione vale per tutti i parenti rimasti in Arabia Saudita. Lina al Hathloul, che vive a Bruxelles, non vede la sorella e il resto della famiglia da più di sei anni perché se tornasse nel suo paese non potrebbe più uscirne.

Questo testo è tratto dalla newsletter Mediorientale.

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