Nei giorni del capodanno cinese, quando Pechino è semideserta, si trovano abbandonate lungo le strade, oppure le si vedono in giro con qualcuno in sella che pedala beato e senza troppa fretta, mentre si gode le strade della metropoli un po’ più a misura d’uomo.

Nelle città cinesi le biciclette del bike sharing sono una presenza piuttosto recente che non passa inosservata. Ci sono quelle argento-arancione di Mobike e quelle giallo limone di Ofo. Nelle città del sud sono comparse anche quelle azzurre di Bluegogo. Spuntano come funghi, in ordine sparso, tutto il contrario di quelle irreggimentate nelle rastrelliere del vecchio servizio pubblico. Rispetto a loro hanno esattamente questo vantaggio: le prendi e le lasci dove ti pare.

Nel 1980 il 63 per cento dei cinesi andava in bici, mentre oggi solo il 12 per cento si muove pedalando. Nel 1995 circolavano 670 milioni di biciclette, nel 2013 erano 300 milioni in meno. A Pechino oggi ci sono 5,65 milioni di auto registrate che producono 500mila tonnellate di sostanze inquinanti ogni anno. Ma la Cina sta tornando alle due ruote – dicono – perché da queste parti tutto viaggia così in fretta che il nuovo ceto medio urbano ha già superato la fase della motorizzazione come status-symbol e riscopre la pedalata come sinonimo di vita sana e sostenibilità ambientale.

La concorrenza è aperta
Torna in mente la foto in bianco e nero di migliaia di bici di marca Feige (”piccione volante”) che percorrono la via della Lunga pace, ma una nuova generazione di coloratissime due ruote si impossessa delle strade. Metallo pesante e sferragliante di solida produzione fordista, quelle là; leggerezza e tecnologia d’avanguardia, quelle di oggi.

Le gialle Ofo, che si chiamano così perché le tre lettere affiancate ricordano l’immagine di una bicicletta, sono 250mila tra Pechino, Shanghai, Xiamen e Guangzhou. L’azienda pechinese dichiara circa tre milioni di utenti per 1,5 milioni di corse al giorno. Sono bici semplici, da 250 yuan (una trentina di euro) l’una, pensate per gli studenti e infatti proliferano nei campus universitari. Il lucchetto si sblocca digitando su una piccola tastiera una combinazione che si riceve attraverso un’apposita app. Usarle costa uno yuan all’ora.

La rivale Mobike è invece più chic (e infatti nasce nella sberluccicante Shanghai), punta a un target medio-alto e usa bici che valgono fino a tremila yuan (più di 400 euro) per un costo di due yuan all’ora. Ha una flotta di circa 30mila biciclette sparse tra Pechino, Shanghai, Guangzhou, Shenzhen e punta a piazzarne almeno centomila in ogni città per poi espandersi altrove.

L’ultima arrivata è Bluegogo, nata a Shenzhen e presente anche a Chengdu e Guangzhou con 50mila biciclette (200mila a breve) e in procinto di sbarcare a San Francisco. È stata fondata da un costruttore di bici, SpeedX, che ne produce 500mila all’anno, una fetta delle quali prende la via del bike sharing. La concorrenza è aperta e il sottoscritto, che gira a Pechino con la propria, di bicicletta, deve confessare che ci sta facendo un pensierino: niente seccature con la rastrelliera sotto casa – intasata dalle bici dei vicini, arrugginite e impolverate –, niente manutenzione e tutto per un prezzo irrisorio: dopo aver lasciato un deposito – 99 yuan per Bluegogo o per Ofo (13 euro, gratis per gli studenti), 299 per Mobike (40 euro) – si spendono al massimo dieci yuan al giorno (poco più di un euro).

Per ora l’affare del bike sharing sembra uno schema Ponzi che si regge sui depositi iniziali

Il boom ha attirato l’attenzione delle grandi aziende: Dai Wei, 25 anni e ideatore di Ofo, ha incassato a settembre l’equivalente di centomila dollari da un fondo d’investimento partecipato dal fondatore del gruppo Xiaomi, Lei Jun, e da Didi Chuxing, il gigante del ridesharing che in Cina si è mangiato Uber in un boccone. Si dice che il finanziamento potrebbe arrivare a 500mila dollari. Hu Weiwei, il rivale di Mobike, ha ricevuto pochi giorni dopo una cifra analoga dal gruppo Tencent.
Insomma, siamo agli investimenti massicci, in perfetto stile cinese. Ma generano ritorni? Al momento no e in alcuni ambienti finanziari già si paventa una bolla simile a quella della new economy occidentale: tutti ci buttano soldi in attesa di qualcosa, sì, ma cosa?

Per ora l’affare del bike sharing sembra uno schema Ponzi che si regge sui depositi iniziali lasciati da chi le prende in affitto, dato il basso costo del servizio che non restituisce profitti sufficienti. E poi servono la manutenzione, le riparazioni contro il vandalismo, e la lotta ai furti: una bicicletta rubata e rivenduta online – magari previa modifica e riverniciatura – può arrivare a tremila yuan. Ma le tre aziende concorrenti stanno cercando di conquistare il centro del ring, e non badano a spese.

Li Gang, il fondatore di Bluegogo, ha promesso a novembre di investire due miliardi di yuan (più di 270 milioni di euro) entro l’estate prossima. Quanto a Dai Wei di Ofo, cita il suo mentore Cheng Wei, fondatore di Didi, quando dichiara a Bloomberg: “Nella fase iniziale, per una società è più importante espandersi che difendersi”. Così poi si può controllare il mercato. Didi in tal modo ha fatto fuori tutti i concorrenti e gestisce più di 11 milioni di corse al giorno in circa 400 città ma – sempre secondo Bloomberg – non ha ancora restituito gli investimenti.

Certo è che in questa guerra senza esclusione di colpi chi si ferma è perduto. A quel punto, è davvero ipotizzabile che centinaia di migliaia di utenti – se non milioni – chiederanno indietro il loro deposito ai concorrenti perdenti per concentrarsi su quello vincente. Ed ecco che il castello di carte crollerà. In uno scenario postatomico, immaginiamo Pechino cosparsa di biciclette abbandonate. E non solo a capodanno.

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