Questo articolo è stato pubblicato il 29 aprile 2005 nel numero 588 di Internazionale.

Saigon, aprile 1975. all’alba ero già sveglio, sdraiato sotto il materasso sul pavimento, e sbirciavo il letto accostato alla portafinestra. Il letto avrebbe dovuto ripararmi dalle schegge di vetro, ma se l’hotel fosse stato attaccato dai missili mi sarebbe sicuramente caduto addosso. Ucciso da un letto. Avrebbe persino avuto senso, nell’ultimo atto di quella farsa tragica in scena da tantissimo tempo: una guerra inutile e spesso atroce, che aveva ucciso tre milioni di persone lasciando pietrificato un paese che un tempo era stato bellissimo.

La tanto attesa offensiva per riunificare il Vietnam, guidata dagli eredi di Ho Chi Minh, era finalmente cominciata, più di vent’anni dopo la divisione “temporanea” imposta a Ginevra. Il giorno di capodanno del 1975, l’Esercito popolare del Vietnam (Pavn) aveva circondato il capoluogo di provincia Phuoc Binh, a 150 chilometri da Saigon; una settimana dopo la città era nelle loro mani. Seguirono Quang Tri, a sud della zona demilitarizzata, e Phan Rang, poi Bat Me Thout, Hue, Danang e Qui Nhnon in rapida successione e quasi senza spargimento di sangue. Danang, che era stata la più grande base militare del mondo, fu conquistata da una dozzina di quadri del Fronte per la liberazione del Vietnam (l’Nlf, ribattezzato dagli americani Vietcong) che agitavano fazzoletti bianchi dal retro di un camion. Una foto della United Press ritraeva un americano mentre dava un pugno in faccia a un “alleato” sudvietnamita che cercava di arrampicarsi a bordo dell’ultimo aereo americano da Nha Trang a Saigon. Un’immagine con una certa carica simbolica.

A metà aprile si cominciava a intravedere la fine con la battaglia per Xuan Loc combattuta sessanta chilometri a nordovest di Saigon, che a sua volta era già circondata da ben quindici divisioni del Pavn armate di artiglieria e missili termici. Il 20 aprile Xuan Loc fu conquistata dal Pavn. Ormai restava solo Saigon. Tra le colonne di profughi che scappavano dai combattimenti c’erano anche gli amareggiati soldati dell’esercito del regime di Saigon (Arvn), sostenuto dagli americani. Il loro presidente e comandante in capo, generale Thieu, aveva ammesso la sconfitta fuggendo a Taiwan con una fortuna in lingotti d’oro. Il 27 aprile il generale Duong Van “Big” Minh fu eletto presidente dall’assemblea nazionale con l’incarico di trovare una strada per la pace. Nel 1963 “Big” Minh aveva contribuito al rovesciamento del dittatore Ngo Dinh Diem e poi, insieme ai suoi colleghi ufficiali, aveva cercato di negoziare un accordo di pace con l’Nlf. Quando gli americani lo seppero si affrettarono a rimuovere Minh e la guerra proseguì.

I razzi del 28 aprile
Ormai erano le otto; attraversai piazza Lam Som per bere un caffè. Saigon era stata sotto attacco missilistico per due notti di fila. Un razzo aveva aperto un varco in un’area di mezzo ettaro piena di casette a Cholom, il quartiere cinese, e la tempesta di fuoco che era seguita aveva raso tutto al suolo. C’era gente immobile, come in un quadro vivente, che guardava le lamiere ondulate: tutto ciò che restava delle loro case. I giornalisti erano pochi: i missili del giorno prima avevano fatto notizia – i primi a cadere su Saigon nell’ultimo decennio – quelli di oggi no. Dopo gli attacchi l’ambasciatore americano, Graham Martin, andò alla tv di Saigon promettendo che gli Stati Uniti non avrebbero lasciato il Vietnam. “Io”, disse l’ambasciatore, “non fuggirò nel cuore della notte. Chiunque di voi può venire a casa mia e controllare che non ho fatto le valigie. Vi do la mia parola”. Ultimo proconsole americano nel continente asiatico, Martin era un uomo riservato, determinato e irascibile. Era anche molto malato: aveva il volto scavato e la pelle cerea per una lunga polmonite e parlava con un tono lento e pesante, reso confuso dalle medicine che prendeva. Fumava una sigaretta dopo l’altra e i colloqui con lui erano interrotti da lunghi attacchi di tosse.

Descrivere Graham Martin come un falco vorrebbe dire attribuire a quell’uccello una ferocia che non ha. Per settimane aveva ripetuto a Washington che il Vietnam del Sud poteva sopravvivere con un “anello di ferro” intorno a Saigon rifornito dai B-52 che avrebbero fatto la spola avanti e indietro. Ma Martin non poteva ignorare completamente ciò che vedeva. Sapeva che era suo compito presiedere al passaggio di consegne in un impero che un tempo aveva rivendicato due terzi dell’Indocina e per il quale suo figlio era morto nove anni prima.

Nell’ambasciata americana c’era un albero, uno dei tanti possenti tamarindi piantati dai francesi un secolo prima, che dominava i prati e il giardino davanti all’atrio principale. L’unico altro spazio aperto abbastanza grande da permettere l’atterraggio di un elicottero era parzialmente occupato dalla piscina e la piattaforma sul tetto dell’ambasciata era stata progettata per accogliere solo i piccoli elicotteri Huey.

Se fosse scattata l’Opzione quattro (un’evacuazione in elicottero), solo i velivoli Chinook e i Jolly green giants dei marines sarebbero stati in grado di trasportare, nel giro di un giorno, più persone alla volta e di raggiungere la Settima flotta che stazionava 30 miglia al largo della costa. L’albero era l’ultima linea di resistenza di Graham Martin. Aveva detto ai suoi collaboratori che una volta caduto l’albero, sarebbe caduto anche il prestigio dell’America e lui non voleva saperne.

Tom Polgar era il capostazione della Cia. A differenza di molti suoi predecessori era straordinariamente ben informato, e non nascondeva il suo fastidio per la testardaggine dell’ambasciatore. Quando l’ex presidente del Vietnam del Sud, Thieu, si era chiuso nel bunker sotto il palazzo presidenziale per tre giorni e mezzo, rifiutandosi di rassegnare le dimissioni e perfino di rispondere al telefono, fu Polgar, insieme all’ambasciatore francese Jean-Marie Merrillon, a convincere Martin a intervenire. Per l’ambasciatore americano, la caduta del presidente Thieu era come la caduta dell’albero dell’ambasciata: una questione di orgoglio e di “faccia” per lui e per l’America. Washington si era solennemente impegnata con Thieu e con lo stato meridionale inventato dagli americani. Martin ripeteva spesso che suo figlio era morto perché il “Vietnam del Sud” di Thieu potesse restare “libero”.

Il 28 aprile l’Nlf sventolò la sua bandiera sul ponte di Newport, a sei chilometri dal centro di Saigon. Il monsone era arrivato presto e sulla città incombevano nuvole grigie. Oltre l’aeroporto il cielo era solcato dai fulmini e i tuoni rombavano mentre il presidente Minh si preparava a parlare a ciò che restava della sua “repubblica”. Era in fondo alla grande hall del palazzo presidenziale, carica di lampadari e broccati dorati, e parlò con esitazione, come se stesse pronunciando una preghiera disperata. Parlò dei “nostri soldati che combattono con accanimento” e sembrò chiedere il cessate il fuoco e il negoziato solo in seconda battuta. Mentre finiva di parlare, una scarica di tuoni soffocò le sue ultime parole: la guerra finiva con un tocco teatrale.

29 aprile, stadio terminale
Saigon ormai stava “cadendo” davanti ai nostri occhi: la Saigon creata, ingrassata, alimentata per endovena dagli Stati Uniti e poi dichiarata un caso terminale. La capitale dell’unica società dei consumi del mondo che non produceva niente, il quartier generale del quarto esercito più grande del mondo, l’Arvn, dove i soldati ormai disertavano al ritmo di mille al giorno. Il centro di un impero che, a differenza di quello francese, che era sempre stato destinato al saccheggio, non si aspettava niente dai suoi sudditi: né gomma né riso né tesori, solo che accettassero i suoi “interessi strategici” e dimostrassero gratitudine per le sue manifestazioni asiatiche – coca-cola e napalm.

All’una del mattino, Graham Martin convocò una riunione dei massimi funzionari dell’ambasciata per annunciare che aveva parlato con il segretario di stato Henry Kissinger, il quale gli aveva detto che l’ambasciatore sovietico a Washington, Anatolij Dobrynin, aveva promesso di trasmettere il suo (di Kissinger) messaggio ad Hanoi chiedendo una soluzione negoziata con il governo del presidente Minh.

Martin riferì che Kissinger sperava nell’intervento dei russi per risolvere la situazione. Disse che voleva che l’evacuazione con gli aerei continuasse il più a lungo possibile, forse per 24 ore. Fu poco dopo le quattro del mattino del 29 aprile che decine di missili caddero sull’aeroporto Tan Son Nhut, seguiti da uno sbarramento di artiglieria pesante. L’attesa era finita. La battaglia per Saigon era cominciata.

Il sole sorse e l’alba era come un logoro fondale rosso per i colpi dei traccianti. Un elicottero da combattimento esplose e cadde lentamente, con le luci che continuavano a lampeggiare. A est, nelle periferie, si sentiva fuoco di mortai: significava che a Saigon era arrivato anche l’Nlf e che si muoveva in linea quasi retta verso l’ambasciata. La riunione delle sei del mattino tra Martin e i suoi massimi funzionari fu un disastro. Tutti, tranne Martin, furono d’accordo che l’evacuazione doveva cominciare subito. Martin si oppose, lui non sarebbe “scappato” e con loro grande orrore annunciò di voler andare in macchina fino a Tan Son Nhut per valutare di persona la situazione. Tra il personale dell’ambasciata aleggiava il sospetto che l’ultimo proconsole dell’impero potesse addirittura avere in mente di bruciare con Roma. La riunione terminò nella confusione generale e Polgar ordinò di abbattere il grande albero di tamarindo.

Saigon, aprile 1975. La città distrutta dai bombardamenti dei vietcong. (Nik Wheeler, Corbis/Contrasto)

Gli uomini che l’avrebbero tagliato erano un gruppo di funzionari della Cia, ex uomini delle forze speciali (i berretti verdi) e un campionario di ex soldati spediti da due società con sede in California per proteggere l’ambasciata. Sembravano cowboy e avrebbero tagliato l’albero dell’ambasciatore senza il permesso dell’ambasciatore.

Saigon era sotto coprifuoco 24 ore su 24 ma c’era gente in strada, e alcuni di loro erano soldati della diciottesima divisione dell’Arvn che aveva combattuto bene a Xuan Loc, sulla Highway One. Li aspettavamo da un pezzo, immaginando la loro rabbia nel vedere gli americani che si preparavano ad abbandonarli al loro destino. Quella mattina, quando arrivarono nel centro della città, si limitarono a sbirciare gli stranieri, a derubarli, oppure a sparare in aria per sfogare la loro frustrazione.

Tornai all’hotel Caravelle per incontrare Sandy Gall dell’Independent Television News (Itn). Lui e io eravamo i “responsabili dell’evacuazione” per la Tcn Press, una sigla che significava cittadini di paesi terzi, e quindi chiunque non fosse americano o vietnamita. Per alcuni giorni Sandy e io ci eravamo dedicati al compito di cercare di organizzare i rappresentanti della stampa britannica, canadese, italiana, tedesca, spagnola, argentina, brasiliana, olandese e giapponese che volevano essere evacuati.

L’ambasciata americana aveva distribuito un opuscolo di quindici pagine intitolato “Istruzioni e consigli standard per i civili in una situazione d’emergenza” (Safe). L’opuscolo comprendeva una mappa di Saigon con evidenziati i “punti di raccolta dove un elicottero verrà a prendervi”. C’era anche una pagina che diceva: “Prendere nota del segnale di evacuazione. Non rivelarlo a estranei. Quando sarà ordinata l’evacuazione, il codice sarà letto alla radio delle forze americane. Il codice è: la temperatura a Saigon è di 50 gradi e in aumento. A questo seguirà la musica di Bianco Natale”. I giornalisti giapponesi temevano di non riconoscere la canzone e volevano sapere se qualcuno poteva accennare la melodia. Al Caravelle, Gall e io avevamo nominato dei responsabili di piano che, al primo accenno di neve a Saigon, dovevano assicurarsi che i giornalisti malati, sordi, addormentati, chiusi in bagno o con una donna, non sarebbero rimasti indietro.

Fuori controllo
“Ci sono quasi tremila civili terrorizzati sulla pista”. Dalla ricetrasmittente arrivò la voce del generale Homer Smith che osservava l’aeroporto di Tan son Nhut . “La situazione sembra fuori controllo”. Graham Martin, solo nel suo ufficio, guardava cadere l’albero e sentiva il capostazione della Cia che gridava “legna!”. Poco dopo telefonò Kissinger perché il presidente Ford voleva che fosse l’ambasciatore a prendere la decisione finale dell’evacuazione, e ascoltò pazientemente un Graham Martin esausto e sofferente. Alle 10.43 del mattino fu dato l’ordine di “procedere con l’Opzione Quattro” (le altre opzioni prevedevano l’evacuazione via mare e via aria). Ma Martin era ancora convinto che ci fosse “tempo” per negoziare una “soluzione onorevole”.

Il Caravelle si svuotò senza che il Comitato informale dei responsabili Tcn ne fosse informato. Non me lo disse nessuno. Bing Crosby non salmodiò alla mia radio. Quando uscii, le stanze sembravano quelle di una nave fantasma, con vestiti, giornali e spazzolini da denti sparsi dappertutto. Corsi nella mia stanza, presi la macchina da scrivere, la radio, gli appunti, li ficcai in un’unica borsa e abbandonai tutto il resto. Arrivarono due camerieri e osservarono i miei frenetici preparativi, divertiti e leggermente intimoriti. Uno mi chiese: “Lascia l’albergo, signore?”. Risposi che in un certo senso lo stavo lasciando. “Ma i vestiti che ha dato alla lavanderia non saranno pronti prima di stasera, signore”. Io cercai di non guardarlo. “La prego… li tenga lei, con tutto il resto”. Ficcai un rotolo di soldi nelle loro mani, sapendo che stavo comprando il loro rispetto malgrado la mia sgraziata uscita di scena. Che modo di andarsene, dopo nove anni! Ma ne avevo abbastanza della guerra.

Mentre tentavo di farmi largo, spingendo e usando tutta la mia forza, provavo solo vergogna

Fuori, piazza Lam Son era deserta, a parte qualche soldato dell’Arvn sdraiato sotto ai portoni e nei canaletti di scolo. Uno di loro si diresse in fretta verso Tu Do, gridandomi qualcosa: era ubriaco. Tirò fuori la pistola, l’appoggiò a un braccio vacillante, prese la mira e sparò. Il proiettile mi passò sopra la testa mentre correvo.

Una folla si accalcava davanti al cancello dell’ambasciata americana. Alcuni erano soltanto curiosi, ma ce n’erano molti che si afferravano alle sbarre supplicando il marine di guardia di farli passare e agitando documenti sigillati a cera e lettere di funzionari americani. Il marine gridava alla folla: “Per favore, niente panico… per favore!”. Quella gente, che lavorava per gli americani, si era sentita ripetere che doveva aver paura dei comunisti. E ora, con i comunisti nel cortile di casa, si sentiva ripetere di non farsi prendere dal panico. Mentre tentavo di farmi largo, spingendo e usando tutta la mia forza per usufruire del viaggio gratis che mi avrebbe portato via dalla guerra, provavo solo vergogna.

Nel territorio dell’ambasciata i marines e i cowboy circondavano il ceppo del grande tamarindo. “Ok, mi dici cosa dobbiamo fare con questo bastardo inamovibile?”, chiese uno dei cowboy nel suo walkie-talkie. “Non ti scaldare, Jed”, arrivò chiara la risposta , “basta che tu e gli altri ragazzi tagliate altri trenta-quaranta centimetri, così ci sarà spazio a sufficienza per le pale dei rotori. E Jed, leva di mezzo quei trucioli, altrimenti è maledettamente sicuro che saranno risucchiati dai motori”. Così i marines e i cowboy continuarono ad agitare le accette contro il ceppo, ma con tanta crescente frustrazione e imperizia che le loro manovre divennero uno spettacolo esilarante per chi era dentro e fuori il cancello, e per le guardie francesi che ridacchiavano sopra le alte mura della vicina ambasciata di Parigi.

Topi e bella gente
Nella lingua vietnamita, incline alla poesia e all’ironia, c’è un detto: “Il muso dei topi si vede solo quando la casa brucia”. Qui c’era il dottor Phan Quang Dan, già vice primo ministro e ministro responsabile per il benessere sociale e il reinsediamento dei profughi: un uomo considerato da Washington e dall’ambasciatore Martin come la personificazione del vero spirito nazionalista del Vietnam del Sud. Anticomunista fanatico e perennemente impegnato in discorsi per esortare i suoi compatrioti a sollevarsi e combattere, il dottor Phan Quang Dan era accompagnato dalla moglie paffuta, che sudava sotto il suo cappotto di pelliccia, e da un plotone di facchini che non mollavano mai le loro borse.

C’era anche la “bella gente” di Saigon, compresi quei giovani in età di leva rimasti fuori dall’esercito grazie alle cospicue mazzette pagate dai ricchi genitori. Anche se figuravano come soldati nei ruoli di qualche unità, non prestavano mai servizio e gli ufficiali comandanti molto probabilmente intascavano la loro paga. Li chiamavano “soldati fantasma” e continuavano a fare la bella vita nei caffè, sulle loro Honda, accanto alla piscina del circolo sportivo, mentre i figli dei poveri combattevano e morivano a Quang Tri, An Loc e sugli altri campi di battaglia.

Tra gli americani che si trovavano nel territorio dell’ambasciata c’era un’atmosfera festosa. Stavano accovacciati sul prato intorno alla piscina con bottiglie di champagne nei secchielli di ghiaccio rubati dal ristorante dell’ambasciata e se la spassavano alla grande. Un uomo con il cappello spruzzava bollicine addosso a un altro e due meccanici dell’aviazione, Frank ed Elmer, cantavano gioiosamente continuando a ripetere, sulle note di The camp town races: “Torniamo a casa sulle ali della libertà/ Du-da du-da/Non torniamo a casa in sacchi di plastica/Oh du-da-da”.

“Ecco cosa ho ottenuto dopo dieci anni”, disse Warren Parker con le lacrime agli occhi. “Vedi quell’uomo laggiù? È un funzionario della polizia nazionale: nient’altro che un carnefice”. Warren Parker era stato fino a quella mattina il console americano a My Tho, nel Delta, dove l’avevo incontrato una settimana prima. Era un uomo tranquillo, quasi schivo, che aveva passato dieci anni in Vietnam cercando di “consigliare” i vietnamiti e meravigliandosi perché tanti di loro sembravano non volere i suoi consigli. Ci facemmo largo insieme verso il ristorante vicino alla piscina passando accanto a un uomo che diceva: “Niente vietnamiti qui, niente vietnamiti”, e rubammo una bottiglia di Taylor New York, un vino rosa e dolce. I bicchieri erano già finiti, perciò bevemmo dalla bottiglia. “Ti dico una cosa,” affermò con il suo morbido accento della Georgia, “se c’è mai stato un momento della verità, per me è oggi. Per tutti questi anni sono stato laggiù a fare un lavoraccio per il mio e per questo paese, e l’unica cosa che riesco a vedere è che siamo riusciti a separare le persone per bene dalla feccia. E noi ci teniamo la feccia”.

Dollari in fumo
Alle 15.15 Graham Martin uscì dall’ascensore dell’ambasciata, attraversò l’atrio e raggiunse il giardino. I grandi elicotteri, i Jolly green giants dovevano ancora arrivare e il ceppo del tamarindo non era più basso, a dispetto della furibonda attività di marines e cowboy con seghe e accette. La Cadillac lo stava aspettando e mentre il personale dell’ambasciata seguiva la scena sconvolto, l’auto si diresse verso il cancello che ormai era sotto assedio. Il marine di guardia non credeva ai suoi occhi. La Cadillac si fermò, il marine alzò le braccia e la macchina fece marcia indietro. L’ambasciatore scese e superò il ceppo e i cowboy con aria furibonda. “Voglio rientrare ancora una volta nella mia casa”, esclamò. “Voglio camminare liberamente in questa città. Lascerò il Vietnam quando il presidente mi dirà di partire”. Uscì dall’ambasciata passando da una porta laterale, si fece largo tra la folla e percorse a piedi i quattro isolati fino a casa sua. Un’ora e mezzo dopo tornò con il suo barboncino, Nitnoy, e il suo domestico vietnamita.

Mentre il primo elicottero Chinook tentava un atterraggio precario, i rotori squarciarono un albero e i rami spezzati crepitarono come spari. “Giù! Giù!”, continuava a strillare un caporale – imbottito di anfetamine – alla fila di persone accovacciate contro il muro in attesa del loro turno di essere evacuate, finché arrivò un ufficiale a calmarlo.

L’elicottero poteva trasportare cinquanta persone, ma decollò con settanta. Il pilota dimostrò un’abilità mozzafiato salendo in verticale fino a quota 200 piedi, con i proiettili che rimbalzavano contro i rotori e i documenti stracciati dell’ambasciata che giocavano nella corrente d’aria discendente. Ma non tutti i documenti dell’ambasciata erano stati sminuzzati e alcuni rimasero intatti in qualche sacchetto di plastica. Io ne ho uno. È datato 25 maggio 1969 e recita “Top Secret. Promemoria di John Paul Vann, controinsurrezione. Novecento case della provincia di Chau Doe sono state distrutte da colpi aerei americani senza che ci siano prove dell’uccisione di un solo nemico. La distruzione di questo villaggio avvenuta attraverso il fuoco amico americano è un avvenimento che i sopravvissuti ricorderanno sempre e non potranno mai perdonare”.

Dall’inceneritore fumante sul tetto dell’ambasciata piovevano soldi: biglietti da venti, cinquanta e cento dollari. La maggior parte erano bruciati, alcuni no. I vietnamiti in attesa intorno alla piscina non credevano ai loro occhi: ex ministri, generali e torturatori si azzuffavano per fuggire. Un funzionario dell’ambasciata disse che si stavano bruciando oltre cinque milioni di dollari. “Tutte le casseforti dell’ambasciata sono state svuotate e poi chiuse di nuovo a chiave,” disse un altro, “così i musi gialli ci resteranno fregati quando ce ne saremo andati”. Erano le 2.30 del mattino del 30 aprile quando Kissinger telefonò a Martin e gli disse di terminare l’evacuazione alle 3.45. Dopo mezz’ora Martin riemerse con una cartella, una valigia e la bandiera a stelle e strisce piegata in una borsa.

Si diresse in silenzio verso il sesto piano dove un elicottero lo stava aspettando. “Lady Ace 09 è in aria con codice due”. Codice due era il codice per un ambasciatore americano. L’annuncio trasmesso al circuito riservato significava che l’invasione americana dell’Indocina era finita. Mentre il suo elicottero virava sulla Highway One, l’ambasciatore vide i fari dei camion dell’Esercito popolare del Vietnam che stavano aspettando. Gli ultimi marines raggiunsero il tetto e spararono dei lacrimogeni nella tromba della scale. Sentivano i vetri che andavano in frantumi e i tentativi disperati dei loro ex alleati di forzare le casseforti vuote. I marines erano spossati e cominciavano ad avere paura. L’ultimo elicottero doveva ancora arrivare e l’alba era passata da un pezzo.

Tre ore dopo, mentre il sole abbagliava una città in attesa, una colonna di carri armati con i colori dell’Nlf entrò nel centro di Saigon. Gli uomini festanti non sembravano minacciosi e non spararono un solo colpo. Uno di loro saltò a terra, stese una mappa sul suo carro armato e chiese ai passanti stupefatti: “Per favore, guidateci fino al palazzo del presidente. Non conosciamo Saigon. È parecchio che non ci veniamo”. I carri armati si diressero sferragliando verso piazza Lam Som percorrendo via Tu Do, superarono la cattedrale e abbatterono i cancelli arabescati del palazzo presidenziale dove “Big” Minh e il suo gabinetto li stavano aspettando per arrendersi. Sulle strade, stivali e divise erano ammucchiati in file ordinate dove i soldati dell’Arvn si erano spogliati per unirsi alla folla. Non ci fu nessuno “spargimento di sangue”.

Una volta cacciato l’invasore il Vietnam tornò a essere un unico paese. La guerra più lunga del secolo era finita.

(Traduzione di Giuseppina Cavallo)

Questo articolo è stato pubblicato il 29 aprile 2005 nel numero 588 di Internazionale.

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