Questo articolo è stato pubblicato il 9 aprile 2010 nel numero 841 di Internazionale.

In epoca vittoriana esistevano molti nomi per indicare la depressione. Charles Darwin li usò tutti. C’erano gli “accessi” scatenati da momenti di “eccitazione”, l’“agitazione” che produceva “spiacevoli palpitazioni del cuore” e gli “affaticamenti” che scatenavano “disturbi alla testa”.

In una lettera particolarmente lamentosa, scritta a uno specialista di “medicina psicologica”, Darwin confessava di soffrire di una “spasmodica flatulenza diurna e notturna” e di crisi di “pianto isterico” ogni volta che la devota moglie Emma lo lasciava solo. Sebbene siano state fatte innumerevoli ipotesi sulla sua misteriosa malattia – attribuita alle cause più diverse, dall’intolleranza al lattosio al morbo di Chagas – Darwin era preoccupato soprattutto per i suoi ricorrenti problemi mentali. Un giorno su tre la depressione lo rendeva “incapace di fare qualsiasi cosa”, lasciandolo in preda a una “bruciante mortificazione”. Ad allarmarlo era la frequenza dei disturbi mentali nella sua famiglia. “La competizione è per i forti”, scriveva, “e probabilmente io non potrò fare altro che ammirare i passi da gigante che altri faranno nella scienza”.

Ovviamente, si sbagliava. I suoi attacchi ricorrenti non gli impedirono di avere successo. Al contrario, è possibile che il dolore abbia accelerato il ritmo delle sue ricerche, spingendolo a ritirarsi dal mondo e a concentrarsi completamente sul lavoro. Le sue lettere sono piene di riferimenti al conforto che gli veniva dallo studio e che gli permetteva di sfuggire temporaneamente alla depressione. “Il lavoro è l’unica cosa che mi rende la vita sopportabile”, scriveva. Più tardi avrebbe osservato che era la sua “unica gioia nella vita”.

Il dolore di Darwin

Per Darwin la depressione era una forza chiarificatrice: lo costringeva a concentrarsi sui problemi essenziali. Nella sua autobiografia, lo scienziato s’interroga sullo scopo dell’infelicità. La sua teoria dell’evoluzione era offuscata dalla sua storia personale. “Qualsiasi tipo di dolore o sofferenza, se molto prolungato”, scriveva, “provoca uno stato di depressione e riduce la capacità di azione, pur mettendo un organismo nelle condizioni migliori per difendersi da un male grave o improvviso”. In questo modo la sofferenza veniva quasi giustificata. A volte, scriveva Darwin, “gli animali seguono la direzione più utile alla specie sotto la spinta della sofferenza”. Per lui, il buio era una luce.

Il mistero della depressione non è il fatto che esista una malattia del genere: come il corpo, anche la mente funziona in modo imperfetto. Il paradosso della depressione è la sua diffusione. Mentre la maggior parte delle malattie mentali è piuttosto rara – la schizofrenia, per esempio, tocca meno dell’1 percento della popolazione – la depressione è onnipresente, inevitabile come un raffreddore. Ogni anno, circa il 7 per cento della popolazione mondiale è afflitto in qualche misura da quel terribile stato mentale che lo scrittore William Styron ha descritto come “una grigia pioggerella d’orrore, una tempesta di fango”.

Ossessionati dalla sofferenza, ci allontaniamo da tutto. Smettiamo di mangiare, oppure mangiamo troppo. Il sesso non ci attira più, il sonno diventa un’impresa impossibile. Siamo sempre stanchi, anche se facciamo sempre meno cose. E pensiamo alla morte.

La persistenza di questa afflizione, e il fatto che sembrava un problema ereditario, costituì una vera e propria sfida per la teoria evolutiva di Darwin. Se la depressione era una malattia, l’evoluzione aveva commesso un terribile errore lasciando che un disturbo in grado di impedire la riproduzione(perché spinge a rinunciare al sesso e fa pensare al suicidio) si diffondesse tra gli esseri umani. Per qualche ignoto motivo, la mente dell’uomo moderno è incline alla tristezza e, come tendiamo a pensare, ha bisogno dell’aiuto dei farmaci per difendersi.

La mente del depresso

L’alternativa, naturalmente, è che la depressione abbia uno scopo sconosciuto e che l’intervento dei medici non faccia che peggiorare la situazione. Come la febbre aiuta il sistema immunitario a combattere le infezioni, così la depressione potrebbe essere una reazione che permette di adattarsi alla sofferenza. Forse Darwin aveva ragione. Soffriamo, soffriamo terribilmente. Ma non invano.

Andy Thomson è uno psichiatra dell’università della Virginia. Ha i capelli grigi arruffati e gli zigomi sporgenti. Quando parla tende a chiudere gli occhi, come se avesse bisogno di concentrarsi su quello che dice. Ma soprattutto ascolta. Da trentadue anni, Thomson ha uno studio privato a Charlottesville. “Da me vengono i casi più difficili”, dice. “La maggior parte dei miei pazienti ha già provato varie cure. Quando arrivano qui non hanno quasi più nessuna speranza”.

Durante tutto il tempo che abbiamo passato insieme, Thomson non ha fatto che controllare il cellulare per vedere se c’erano nuovi messaggi. Un paziente che avrebbe dovuto chiamarlo non si era fatto vivo. Per questo il dottore era molto preoccupato. “Non mi sono mai abituato a curare persone con problemi mentali”, mi ha confessato. “Forse perché ogni storia è unica. Quando hai visto un caso di anemia da carenza di ferro, li hai visti tutti. Ma ogni persona che entra nel mio studio soffre per un motivo diverso”.

Johnno. - Graham Miller
Johnno. (Graham Miller)

Alla fine degli anni novanta, Thomson ha cominciato a interessarsi di psicologia evoluzionistica, la disciplina che cerca di spiegare le caratteristiche della mente umana in base alla selezione naturale, partendo dal presupposto che la lunga storia evolutiva del cervello ha contribuito a plasmare la natura umana. Non siamo una tabula rasa, ma il risultato di una serie di adattamenti imperfetti: la nostra mente all’inizio doveva soddisfare le esigenze dei cacciatori-raccoglitori che vivevano nella savana africana durante il pleistocene. Anche se i dettagli della psicologia evoluzionistica sono ancora discussi – non è mai facile dimostrare teorie che riguardano un passato così lontano – il suo assunto di base è accettato da quasi tutti gli scienziati. Gli studiosi hanno smesso di domandarsi se sia stata l’evoluzione a plasmare la mente umana: ormai si chiedono come e quando sia successo, quali caratteristiche della mente siano adattamenti e quali invece incidenti di percorso.

Nel 2004 Thomson ha conosciuto Paul Andrews, uno psicologo evoluzionista della Virginia commonwealth university che si interessava da tempo del paradosso della depressione, studiando in particolare i motivi per cui un fenomeno così pericoloso in termini evoluzionistici sia anche molto diffuso. Naso aquilino e lunga chioma castana, prima di cominciare a parlare Andrews prende appunti su un foglio di carta. “È un argomento molto delicato”, dice. “Non voglio rispondere in modo affrettato”.

Andrews e Thomson hanno avviato un complesso dialogo sulle origini evolutive della depressione, partendo dall’attività che caratterizza questo disturbo: la cosiddetta ruminazione mentale, un’espressione derivata dal verbo latino che indica il modo di digerire dei bovini. Negli ultimi decenni, la psichiatria è arrivata a considerare il rimuginare un’abitudine mentale pericolosa, perché ci fa concentrare sui nostri difetti e sui nostri problemi, creando uno stato d’animo negativo. Nel racconto La persona depressa, David Foster Wallace (che ha combattuto per anni con la depressione fino al suicidio, nel 2008) descrive quello che accade nella mente di chi passa il tempo a rimuginare. La storia è un lungo lamento, il racconto di una mente che si odia: “Che termini potremmo usare”, scrive Wallace, “per descrivere quel vuoto emotivo infinito, autodistruttivo e solipsistico, quella spugna che orale sembrava di essere?”. I pensieri cupi diventano presto noiosi e irritanti. Il punto che Wallace vuole sostenere è proprio questo: non c’è niente di profondo nel rimuginare del depresso. È solo un circolo vizioso di dolore.

Secondo Yale Susan Nolen-Hoeksema, psicologa dell’università di Yale, la cupa tristezza di questo processo mentale spiega perché le persone che “tendono a rimuginare” sono più inclini a cadere in depressione e a innervosirsi nelle situazioni di stress. Poi ci sono le carenze cognitive. Dato che il rimuginare occupa completamente il flusso di coscienza, numerosi studi hanno dimostrato che i soggetti depressi fanno fatica a pensare ad altro, proprio come succede al personaggio di Wallace. Il risultato è che ottengono risultati scadenti nei test di memoria e nelle funzioni esecutive, soprattutto nei casi in cui è necessario tenere a mente molte informazioni.

Queste ricerche hanno rafforzato l’ipotesi secondo cui rimuginare è un’inutile forma di pessimismo, un totale spreco di energia mentale. O, almeno, è quello che pensavano tutti gli specialisti del settore fino a quando Andrews e Thomson non hanno cominciato a indagare sul paradosso della depressione. La loro prospettiva evoluzionistica, che li porta a vedere la mente come una macchina perfetta senza inutili errori di programmazione, li ha spinti a chiedersi se il rimuginare abbia uno scopo ultimo. Sono partiti da una semplice osservazione: la ruminazione mentale spesso è la reazione a un problema specifico, come la morte di una persona cara o la perdita del lavoro.

Darwin , per esempio, precipitò in uno stato depressivo debilitante in seguito alla morte per rosolia della figlia Annie, di dieci anni. Nella diagnosi della depressione il Manuale di diagnostica e statistica delle malattie mentali (Dsm)– che negli Stati Uniti è la bibbia degli psichiatri – non tiene conto di questi fattori di stress: l’unica eccezione è il dolore causato dal lutto, purché non duri più di due mesi. Eppure è chiaro che i problemi della vita quotidiana hanno un ruolo importante nella malattia mentale. “Ovviamente rimuginare non è piacevole”, spiega Andrews. “Ma di solito è la reazione a un evento traumatico e reale. E non ci sembrava logico che il cervello andasse in tilt proprio quando ne abbiamo più bisogno”.

Immaginate, per esempio, la depressione causata da un divorzio difficile. Il rimuginare può assumere la forma del rimpianto (“Avrei dovuto essere un marito/una moglie migliore”), della congettura (“Sarebbe successo lo stesso se non avessi avuto quella storia?”) e dell’ansia per il futuro (“Come la prenderanno i ragazzi? Potrò permettermi di pagare gli alimenti?”). Questi pensieri aggravano la depressione, certo. Ma Andrews e Thomson si sono chiesti se per caso non servano anche a preparare la persona alla solitudine o a permetterle di imparare dai propri errori. “Ho cominciato a pensare che forse vale la pena di essere depressi per qualche mese se questo ci aiuta a capire meglio i nostri rapporti sociali”, dice Andrews. “Forse ci rendiamo conto che dobbiamo essere meno rigidi o più affettuosi. La depressione ci spinge a riflettere e può essere molto utile”.

Poeti e pensieri

L’idea che la depressione abbia anche un lato positivo non è del tutto nuova. Il primo a proporla fu Aristotele, che nel quarto secolo avanti Cristo scrisse: “Tutti gli uomini eccezionali, nell’attività filosofica e politica, artistica e letteraria, hanno un temperamento melanconico, alcuni a tal punto da essere perfino affetti dagli stati patologici che ne derivano”.

Questa teoria fu ripresa nel rinascimento da autori come John Milton, che nel suo poema Il penseroso arrivò a esclamare: “Salve, o assai divina malinconia, / il cui santo viso è troppo lucente / per colpire il senso della vista umana”. I poeti romantici portarono la venerazione per la tristezza all’estremo e consideravano la sofferenza un requisito indispensabile della letteratura. Come scrisse John Keats: “Non vedete quanto è necessario un Mondo di dolore e tormenti per educare l’intelligenza e trasformarla in anima?”. Ma a Thomson e Andrews non interessavano né gli antichi aforismi né le apologie dei poeti. Il difficile compito che si proponevano era dimostrare che la tendenza a rimuginare tipica della depressione può dare risultati positivi, soprattutto quando si tratta di risolvere i problemi più difficili. Per questo hanno cominciato a riflettere sulle caratteristiche fondamentali della depressione, come l’incapacità di provare piacere o la mancanza di interesse per il cibo, il sesso e i rapporti sociali.

Secondo i due studiosi, questi terribili sintomi hanno un effetto collaterale positivo, perché riducono la possibilità di distrarsi dal problema più urgente. La capacità di concentrarsi, osservano, dipende in buona parte da una zona del cervello chiamata corteccia prefrontale ventrolaterale sinistra ,che si trova pochi centimetri dietro la fronte. Sebbene sia stata associata a un’ampia varietà di funzioni mentali, come la conoscenza concettuale e la capacità di coniugare i verbi, sembra che quest’area sia particolarmente importante per il mantenimento dell’attenzione. Alcuni esperimenti hanno dimostrato che per concentrarci su quello che stiamo facendo, senza lasciarci distrarre da informazioni irrilevanti, la corteccia prefrontale ventrolaterale sinistra deve essere continuamente attiva. Eventuali problemi in quest’area sono stati anche associati al disturbo da deficit dell’attenzione e iperattività (Add).

Diversi studi hanno rilevato un’intensificazione dell’attività cerebrale(misurata indirettamente in base all’aumento del flusso sanguigno) in questa zona della corteccia prefrontale nei pazienti depressi. Di recente, inoltre, un gruppo di neuroscienziati cinesi ha scoperto che nei depressi si verifica un aumento di “connettività funzionale” tra la corteccia prefrontale laterale e altre zone del cervello, e che più grave è la depressione più intensa è l’attività prefrontale. Una possibile spiegazione di questo fenomeno è che alla base del rimuginare ci sia l’iperattività della corteccia prefrontale ventrolaterale sinistra, grazie alla quale si riesce a rimanere concentrati su un problema (Andrews e Thomson sostengono che questa ossessività spiega anche le carenze cognitive dei soggetti depressi, troppo presi dai loro problemi per preoccuparsi d’altro). L’attenzione umana è una risorsa limitata, e gli effetti delle depressione sui neuroni garantiscono che venga usata nel modo migliore.

Tuttavia il coinvolgimento della corteccia prefrontale non ci porta solo a fissarci sulla situazione che ci deprime: produce anche un modo di pensare estremamente analitico. Quando rimuginiamo, infatti, sfruttiamo soprattutto la memoria di lavoro, una specie di bloc notes mentale che ci permette di “lavorare” con tutte le informazioni di cui disponiamo. Quando ci affidiamo alla memoria di lavoro, non importa se per eseguire una divisione o per riflettere su una relazione fallita, tendiamo a pensare in modo razionale, scomponendo i problemi complessi in elementi più semplici.

Alla radice della malinconia

Il guaio è che questo modo di pensare è lento, faticoso e ci espone alle distrazioni. La corteccia prefrontale si stanca presto e si arrende. Andrews e Thomson considerano la depressione un modo per rafforzare le nostre capacità analitiche, permettendoci di concentrare più facilmente l’attenzione su una questione complicata. La tristezza e l’attivazione della corteccia prefrontale ventrolaterale sinistra fanno parte di un “sistema coordinato” che, secondo i due scienziati, ha “come scopo specifico quello di permetterci di analizzare meglio il problema che ha scatenato la depressione”. Se la depressione non esistesse, se non reagissimo ai traumi rimuginando all’infinito, avremmo meno probabilità di risolvere i nostri problemi. La saggezza ha un prezzo, che si paga con il dolore.

Alice. - Graham Miller
Alice. (Graham Miller)

Prendiamo, per esempio, il caso di un giovane professore in cura da Thomson che aveva problemi con il lavoro. “Era abituato al successo facile. Ma a un certo punto si è trovato in una situazione complicata”, racconta Thomson. “Gli ho detto chiaramente che ci sarebbe voluto un po’ di tempo per trovare una soluzione. Il suo problema era come una scheggia: il dolore non sarebbe passato fino a quando non fosse stata estratta”. Doveva lasciare l’università? Rinunciare alla carriera? O cercare di risolvere i dissidi alla base dei suoi problemi? Nelle settimane successive, Thomson lo ha aiutato ad analizzare la sua situazione e a considerare attentamente tutte le alternative. “Abbiamo esaminato una variabile alla volta”, dice lo scienziato. “E alla fine ha capito che quel contrasto non poteva essere risolto. Doveva lasciare l’università. Una volta arrivato a questa conclusione, ha cominciato a sentirsi meglio”.

La pubblicazione del lungo saggio di Andrews e Thomson sul numero di luglio 2009 della Psychological Review ha provocato una spaccatura tra gli esperti del settore. Alcuni ricercatori, come Jerome Wakefield dell’università di New York, lo hanno definito “un primo passo molto importante verso la rivalutazione della depressione”, mentre altri psichiatri lo hanno considerato poco più che una riflessione irresponsabile per giustificare la sofferenza umana. Peter Kramer, professore di psichiatria e comportamento umano alla Brown university, ha definito il saggio “una scala dai pioli molto deboli”.

Kramer difende da sempre l’uso degli antidepressivi (la sua opera principale, Listening to Prozac, racconta i benefici del farmaco sui suoi pazienti) e critica chi cerca di costruire un’aura di romanticismo intorno alla depressione, come si faceva con la tubercolosi alla fine dell’ottocento. Nelle email che mi ha inviato, sostiene che Andrews e Thomson non tengono conto delle varianti della depressione che non rientrano nella loro teoria evoluzionistica: “Questo studio non ci dice nulla sulla depressione cronica né sull’odio per se stessi o sul rimuginare disperato e paralizzante che provoca”. E la depressione post-infarto? La depressione senile? La depressione estrema? Secondo Kramer, c’è una netta differenza tra la reazione di una persona sana agli stress sociali e quella di un depresso. “La depressione non è come la tristezza”, spiega. “È un appiattimento dei sentimenti”.

Anche gli scienziati che simpatizzano per quella che Andrews e Thomson chiamano “l’ipotesi del rimuginare analitico”, hanno dei dubbi sui suoi dettagli. Ed Hagen, un antropologo della Washington state university che sta scrivendo un libro con Andrews, ammette che lo studio lo ha convinto del fatto che alcuni sintomi depressivi possono aumentare la capacità di risolvere i problemi. Ma non crede che questo possa bastare a spiegare la depressione: “Le persone che soffrono di depressione grave spesso non si lavano, non si curano, a volte non vanno neanche in bagno. Di solito trascurano i figli, mettendo così in pericolo la loro sopravvivenza”. Il costo di questi comportamenti, dice Hagen, non può essere compensato dal fatto di avere più tempo per pensare.

Altri scienziati, tra cui Randolph Nesse dell’università del Michigan, sostengono che i disturbi psichiatrici complessi, come la depressione, raramente hanno spiegazioni evoluzionistiche semplici. L’ipotesi di Andrews e Thomson è solo l’ultimo tentativo di spiegare la diffusione della depressione. Secondo la teoria della “richiesta di aiuto”, per esempio, questo disturbo sarebbe un modo per chiedere aiuto ai nostri cari, mentre stando all’ipotesi del “segnale di sconfitta”, il senso di disperazione che segue la perdita di status sociale servirebbe a evitare altri attacchi. C’è poi la tesi del “realismo depressivo”: diversi studi hanno rivelato che le persone depresse hanno una visione più precisa della realtà e sono in grado di prevedere meglio il loro futuro. Anche se queste teorie hanno tutte un supporto scientifico, nessuna è sufficiente a spiegare una malattia così diffusa come la depressione.

Il punto, afferma Nesse, è che la tristezza, come la felicità, è uno stato d’animo che ha diverse funzioni. Nesse apprezza il lavoro di Andrews e Thomson, ma è convinto che non colga la complessità della depressione. I due scienziati paragonano questo disturbo a una febbre che serve a combattere un’infezione. Il paragone più appropriato, sostiene invece Nesse, è con il dolore cronico, che può insorgere per moltissimi motivi. “A volte il dolore è di origine organica”, dice. “La causa può essere un’ernia del disco o l’irritazione di un nervo. Ma spesso non ha un’origine precisa. La disfunzione è il dolore stesso”.

Andrews e Thomson rispondono a queste critiche ammettendo che il termine depressione copre una vasta gamma di sintomi. Anche se può spiegare il disturbo come reazione a una situazione di “stress acuto”, la loro analisi non è applicabile alle persone che soffrono senza una causa precisa o che rimangono depresse per anni. “Dire che la depressione può essere utile non equivale adire che lo è sempre”, dice Thomson. “A volte i sintomi si aggravano e diventano incontrollabili. Il problema, tuttavia, è che la nostra società considera la depressione come qualcosa che dev’essere sempre evitato o curato immediatamente. Siamo così ansiosi di eliminarla che abbiamo finito per stigmatizzare la tristezza”.

Thomson sostiene che questa nuova teoria della depressione ha influito direttamente sulla sua pratica medica. “La cosa che dobbiamo chiederci”, dice, “è se questa teoria aiuta a curare meglio i pazienti”. Negli ultimi anni Thomson ha ridotto notevolmente le prescrizioni di antidepressivi perché –spiega – è convinto che a volte i farmaci complicano il percorso della guarigione, rendendo più difficile la soluzione dei problemi personali dei pazienti. “Una volta una paziente mi chiese di ridurre la dose di antidepressivi”, racconta Thomson. “Le chiesi se i farmaci facevano effetto, e lei mi rispose con una frase che non dimenticherò: ‘Sì, funzionano benissimo’, disse. ‘Sto meglio. Sono ancora sposata con lo stesso bastardo alcolista, ma ora lo trovo sopportabile’”. Quella donna era depressa per un motivo specifico: il suo dolore aveva una causa precisa. Anche se i farmaci la facevano stare meglio, non riusciva a fare progressi.

Lo scetticismo di Thomson nei confronti degli antidepressivi è confermato da alcuni studi recenti che ne mettono in discussione i vantaggi, almeno per i pazienti affetti da forme di depressione non acute. Nel 2005 Steven Hollon, della Vanderbilt university, ha scoperto che nel 70 per cento dei casi le persone che fanno uso di antidepressivi hanno una ricaduta entro un anno dalla fine del trattamento, mentre nei pazienti curati con terapie cognitive il tasso di ricaduta è solo del 31 per cento. I dati raccolti da Hollon non sono nuovi: altri studi avevano già dimostrato che i pazienti trattati con i farmaci hanno circa il doppio delle probabilità di ricadere in depressione rispetto a quelli che seguono terapie di tipo cognitivo-comportamentale. “Questi dati fanno pensare che i farmaci non risolvono nulla”, dice Thomson. “Anzi, sembra che interferiscano con la soluzione dei problemi, impedendo ai pazienti di affrontarli”.

Thomson racconta il caso di uno studente universitario. “Era chiaro che soffriva molto”, dice. “Non riusciva a dormire né a studiare. Aveva problemi familiari – i genitori avevano appena divorziato – e suo padre stava facendo forti pressioni su di lui perché proseguisse gli studi. Avendo una storia familiare di depressione, in teoria avrebbe dovuto essere curato con i farmaci. Qualche anno fa lo avrei fatto anch’io”. Alla fine, invece, Thomson ha deciso di aiutare lo studente a risolvere il suo problema, facendo in modo che accelerasse il processo di rimuginazione. “Una volta che gli si fa capire qual è il dilemma che deve risolvere, il paziente comincia quasi sempre a sentirsi meglio”. A conferma delle sue parole, Thomson cita uno studio dal quale è emerso che chiedendo ai pazienti di scrivere quello che provano si possono accorciare notevolmente i tempi della depressione. Secondo Thomson, questo succede perché la scrittura aiuta la nostra naturale capacità di risolvere i problemi. “Questo non significa che abbiamo trovato una cura miracolosa”, dice. “Nella maggior parte dei casi, la guarigione è lunga e difficile”.

Anatomia della creatività

È troppo presto per giudicare la validità dell’ipotesi di Andrews e Thomson. Nessuno sa ancora se la depressione è davvero una forma di adattamento o se quella dei due scienziati è solo un’ipotesi senza prove concrete. La loro tesi rientra comunque in una rivalutazione scientifica più generale dei sentimenti negativi, da sempre considerati stati emotivi da evitare. Uno dei migliori esempi del rifiuto della tristezza e dei suoi sintomi è stata la nascita della psicologia positiva, una disciplina di ricerca dedicata alla ricerca della felicità. Negli ultimi anni sono stati pubblicati molti libri che cercano di delineare i princìpi scientifici alla base dell’“appagamento duraturo”.

Ma le ultime ricerche sugli stati d’animo negativi fanno pensare anche che la tristezza comporti una serie di vantaggi e che perfino i sentimenti più sgradevoli abbiano uno scopo. Joe Forgas, un sociopsicologo dell’università del New South Wales, in Australia, ha dimostrato che nelle situazioni complesse gli stati d’animo negativi aiutano a prendere decisioni migliori. Secondo Forgas, questo è dovuto allo stretto rapporto tra stato d’animo e cognizione. La tristezza favorisce “strategie di elaborazione delle informazioni più adatte ad affrontare le situazioni impegnative”. Questo ci aiuta a capire perché i soggetti malinconici sono più capaci di giudicare la correttezza di un’ipotesi e di ricordare eventi passati. Sono anche meno inclini a giudicare gli sconosciuti in base a stereotipi

L’anno scorso Forgas si è avventurato fuori dal suo laboratorio e ha cominciato a condurre i suoi studi in una piccola cartoleria alla periferia di Sydney. L’esperimento era semplice. Forgas ha sistemato vicino alla cassa una serie di oggetti: soldatini, animali di plastica e automobili in miniatura, e ha messo alla prova la memoria dei clienti che uscivano chiedendo loro di elencare tutti gli oggetti che ricordavano. Per controllare l’influenza dello stato d’animo sulla memoria, ha effettuato l’esperimento in alcune giornate grigie e piovose – accentuando l’effetto del tempo atmosferico con il Requiem di Verdi – e in alcune belle giornate di sole, usando la colonna sonora di un’operetta di Gilbert e Sullivan. Il risultato è stato evidente: nei giorni di pioggia i clienti erano di cattivo umore e ricordavano quattro volte più oggetti degli altri. La pioggia li intristiva e la tristezza li rendeva più attenti.

Il potenziamento di queste capacità mentali potrebbe anche essere la causa dello stretto rapporto tra produzione creativa e disturbi depressivi. Nell’ambito di una sua ricerca, la neuroscienziata Nancy Andreasen ha intervistato trenta scrittori dell’Iowa writers’ workshop sulla loro storia personale. L’80 per cento aveva sofferto di una qualche forma di depressione.

Qualcosa di simile è emerso anche da uno studio sulle biografie di alcuni scrittori e artisti inglesi condotto da Kay Redfield Jamison, docente di psichiatria alla Johns Hopkins. Jamison ha scoperto che le persone di successo hanno otto volte più probabilità di soffrire di depressione rispetto alla gente comune. Ma perché la malattia mentale è così spesso associata alla creatività? Secondo Andreasen, la depressione è legata allo “stile cognitivo”, che rende alcune persone più inclini a produrre opere d’arte. Nel processo creativo, spiega, “una delle qualità più importanti è la perseveranza”. Sulla base dei suoi studi, la scienziata ha scoperto che “gli scrittori di successo sono come i campioni di pugilato: nonostante i colpi che ricevono non vanno mai al tappeto. Resistono fino a quando non trovano la strada giusta”.

Pur ammettendo il disagio causato dalla malattia mentale, Andreasen sostiene che in molte forme di creatività la concentrazione alimentata dalla depressione costituisce un vantaggio. “Purtroppo il pensiero creativo è spesso legato al dolore”, dice. “Chi è fuori dal comune, soffre sempre”. Ci sono poi i vantaggi dell’odio perse stessi, che è uno dei sintomi della depressione. Quando una persona rimugina, non vede mai le cose positive: si concentra solo su quello che va storto.

Anche se chi ha questo atteggiamento di solito si chiude in se stesso e si rifiuta di comunicare, è stato dimostrato che l’infelicità può migliorare le capacità espressive. Forgas ha scoperto che chi è triste si esprime in modo più chiaro e incisivo, e che la depressione “favorisce una comunicazione più concreta ed efficace”. Chi è più severo nei confronti di se stesso, scrive in uno stile più raffinato, levigato dall’angoscia.

Questo filone di ricerca ha portato Andrews a condurre un esperimento per capire meglio il rapporto tra depressione e potenziamento delle capacità analitiche. Ha sottoposto 115 studenti universitari a un test di ragionamento astratto conosciuto come le Matrici progressive di Raven, che consiste nel trovare il segmento mancante in una figura. La prima cosa che Andrews ha notato è che, dopo il test, gli studenti non depressi mostravano un aumento dei sintomi della depressione.

In altre parole, il semplice fatto di trovarsi di fronte a un problema difficile – anche se si trattava solo di un quesito astratto – aveva prodotto in loro una sorta di trance dell’attenzione, che a sua volta aveva indotto un senso di tristezza. Non fa differenza se stiamo lavorando a un’equazione matematica o abbiamo il cuore infranto: l’anatomia della concentrazione è inseparabile da quella della malinconia. Questo fa pensare che la depressione sia la forma estrema di un processo mentale comune, che faccia parte del perverso meccanismo che ci attira verso i problemi come la calamita attira il metallo.

Ma questa corrispondenza serve a qualcosa? La tristezza ci aiuta a risolvere i problemi? Andrews ha scoperto che nei test di intelligenza i ragazzi con sintomi depressivi ottenevano i punteggi più alti. “La depressione aiuta a pensare”, ha concluso. La difficoltà, naturalmente, sta nel convincere le persone ad accettare la loro infelicità per abbracciare la disperazione. Dire che la depressione ha uno scopo o che la tristezza fa diventare più intelligenti non la rende certo più sopportabile. Dopotutto, la febbre sarà anche utile, ma per farla scendere prendiamo dei farmaci. È proprio questo il paradosso dell’evoluzione: anche se la sofferenza è utile, l’istinto di sfuggire al dolore è più forte di qualsiasi cosa.

Questo articolo è stato pubblicato il 9 aprile 2010 nel numero 841 di Internazionale.

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