Questo articolo è stato pubblicato il 29 dicembre 2011 sul numero 930 di Internazionale.
Autunno del 2009. Lionel Messi è appena tornato da Disney World. Si presenta strascicando gli infradito con l’ineleganza tipica degli sportivi in libera uscita. Siamo nella Ciudad deportiva, il centro sportivo del Futbol Club Barcelona, che si trova in una valle a pochi chilometri dalla città. È uno scintillante laboratorio di vetro e cemento, dove gli allenatori trasformano giocatori di talento in macchine di precisione. Messi è un giocatore da manuale e la Ciudad deportiva è la sua incubatrice. Mi ha concesso un quarto d’ora d’intervista e sembra felice di essere qui. Dopo aver girato gli Stati Uniti con la sua squadra, Messi è andato a Disney World in compagnia di genitori, fratelli, cugini, zii e nipoti. Topolino lo voleva per pubblicizzare il suo mondo di fantasia e così, in cambio di qualche ripresa, la sua famiglia ha avuto accesso a tutte le attrazioni. Ora su YouTube c’è un video in cui Messi fa dei numeri con il pallone nel regno dei cartoni animati. “È stato fantastico”, dice e, più che un messaggio pubblicitario, il suo sembra vero entusiasmo.
“Cosa ti è piaciuto di più?”.
“I giochi acquatici, i parchi, le attrazioni. Tutto. Più che altro siamo andati per i miei nipoti, i cuginetti e mia sorella. Però anch’io, da quand’ero bambino, volevo andarci”.
“Era un tuo sogno?”.
“Sì, direi di sì. In genere lo è per tutti quelli che non hanno ancora quindici anni. Ma può esserlo anche per chi ha qualche anno in più, no?”.
Nella Ciudad deportiva siamo soli, seduti uno di fronte all’altro. Messi sembra masticare ogni parola prima di pronunciarla. È come se volesse assicurarsi che il suo interlocutore lo capisca, come se chiedesse il permesso di parlare. Da bambino ha sofferto di una forma di nanismo causata da un deficit dell’ormone della crescita, e i giornalisti parlano sempre del rapporto tra la sua statura e il suo gioco. Da vicino, Messi ha l’aspetto un po’ disarmonico dei bambini ginnasti: occhi timidi ma curiosi, sopra un paio di gambe così muscolose che sembrano sul punto di scoppiare. È un guerriero dallo sguardo infantile. Non riesco a smettere di pensare che sono venuto a intervistare Superman e ho trovato un personaggio disneyano distratto e vulnerabile. “Qual è il tuo personaggio preferito di Walt Disney?”.
“Nessuno in particolare. Da bambino non vedevo molti cartoni animati”, spiega con un sorriso. “E dopo mi sono trasferito qui per giocare a calcio”. Quando pronuncia la parola “calcio”, smette di sorridere e diventa serio, come quando sta per battere un rigore. È lo stesso sguardo circospetto che siamo abituati a vedere in tv. Messi non ride mai in campo. Il calcio è una cosa troppo seria: solo venticinque paesi al mondo vantano un prodotto interno lordo superiore al giro d’affari di questo sport. È lo sport più famoso del mondo e Messi è il protagonista dello show. Nei mesi successivi al ritorno da Disney World, Messi ha stabilito record che nessuno aveva mai raggiunto alla sua età. Ha vinto sei titoli in un anno con il Barcellona, è stato premiato come miglior giocatore d’Europa ed eletto calciatore più forte del mondo, è diventato il giocatore più giovane nella storia del Barcellona a segnare cento gol e il fuoriclasse più pagato di sempre con un contratto da dieci milioni e mezzo di euro all’anno, dieci volte la cifra guadagnata da Maradona quando giocava al Barça.
Tutti i giorni, dopo gli allenamenti con il Barcellona, pranza e va a dormire. Per due, anche tre ore. Un’abitudine generalmente inderogabile
Domani Messi volerà verso il principato di Monaco dove, sfoggiando un abito italiano su misura, riceverà il premio di miglior giocatore d’Europa. Questa sera, però, ha la frangia con la riga in mezzo, sorride e indossa la seconda maglia giallo fosforescente del Barcellona sopra i calzoncini d’allenamento. È una delle principali star della scena calcistica mondiale, ma oggi sembra solo un ragazzino trasandato. Dopo essersi esibito a Disney World, Messi aveva ancora qualche settimana di ferie. Sarebbe potuto andare ai Caraibi o alle Seychelles, ma ha preferito tornare con la famiglia nella sua città d’origine. Come Che Guevara, Messi è nato nella terza città più grande d’Argentina, Rosario, che si trova nella provincia di Santa Fe. Ha trascorso il resto delle vacanze dividendosi tra gli amici d’infanzia e i genitori, che vivono nel quartiere di Las Heras. Una settimana prima che finissero le ferie, ha fatto le valigie ed è tornato a Barcellona, dove ad aspettarlo c’è sempre Facha, il suo cane boxer.
La stampa si è chiesta perché un calciatore famoso come lui tornava in anticipo dalle ferie, e lui ha spiegato che si voleva allenare per tornare in forma. In quei giorni la nazionale argentina stava giocando per le qualificazioni ai Mondiali in Sudafrica. Maradona era il suo allenatore e Messi sapeva che quello poteva essere il suo primo mondiale da titolare con la maglia numero dieci. Voleva tornare a Barcellona perché lo show doveva continuare, ma anche perché in Argentina si stava annoiando. “È sempre bellissimo tornare a Rosario. Lì ho la mia casa, la mia gente, tutto. Però allo stesso tempo mi annoio perché non faccio nulla”, mi dice, con il tono di uno che alza le spalle. “È noioso non far nulla tutto il giorno”.
“Non guardi la tv?”.
“Ho cominciato a vedere Lost e Prison break, ma poi mi hanno stancato”.
“Perché?”.
“Perché succedono sempre cose nuove, e c’è sempre qualcuno che te le vuole raccontare”.
Messi si annoia con Lost. Messi è mancino. Eppure, a prima vista, il suo talismano potrebbe sembrare la gamba destra, che si accarezza come per tenerla a bada. Poi mi rendo conto che sta accarezzando il Blackberry nella tasca. I fuoriclasse hanno abitudini che li avvicinano al resto dei mortali, rendendo più umana la loro genialità. Di Johan Cruyff si diceva che fumasse nello spogliatoio pochi minuti prima di scendere in campo. Maradona ha fatto della cocaina la sua complice e nemica. Perfino Pelé, nonostante la sua irreprensibile vita sociale, è stato accusato di aver trascorso qualche serata con delle minorenni. Spesso i calciatori famosi comprano cose per ostentare la loro ricchezza di oggi più che per assicurarsi un domani: macchine sportive, vestiti di marca, orologi appariscenti. A Castelldefels Ronaldinho ha una villa in affitto, Messi invece se l’è comprata: un edificio di due piani in cima a una collina, con vista sul Mediterraneo. Smentendo il cliché della stella del calcio con il Rolex d’oro, gli occhialoni da sole Gucci e un seguito di modelle bionde, il genio che si annoia guardando Lost va matto per i profumi alla moda. I parenti sanno quanto gli fa piacere ricevere una boccetta in regalo. L’unico oggetto della sua vanità è tanto effimero quanto invisibile. “Ci racconti la tua giornata tipo dopo gli allenamenti?”.
“Mi piace farmi una dormita. E la sera magari vado a cena da mio fratello”.
Per concedere questa intervista, Messi ha infranto un rituale che osserva fin da bambino. Tutti i giorni, dopo gli allenamenti, pranza e va a dormire. Per due, anche tre ore. Un’abitudine generalmente inderogabile. Me la spiega con voce pacata mentre camminiamo in uno dei campi dove si allena. La siesta per lui è una cerimonia, ma negli anni il suo scopo è cambiato. Quand’era piccolo il sonno, insieme alle cure mediche, lo aiutava a rigenerare le sue cellule. All’epoca Messi dormiva per crescere. Oggi, invece, dice che lo fa per altri motivi. Ma lo fa sempre allo stesso modo: crolla vestito sul divano del salotto. E se qualcuno nel frattempo lava i piatti in cucina o sbatte una porta, non ci fa caso. Oggi a Messi non serve crescere: dorme perché è l’unica cosa che gli piace fare dopo essersi separato dal pallone. Le altre cose lo annoiano. Per Messi la siesta è un antidoto. Nessuno si annoia mentre dorme. I geni hanno sempre un lato misterioso, che tutti vogliono scoprire. I tifosi fanno l’impossibile per riuscire a toccare i loro idoli e convincersi che anche loro sono reali. I giornalisti, invece, cercano di scoprire se la loro vita privata somiglia a quella dei comuni mortali. “È vero che non puoi fare a meno dei videogiochi?”, gli ha chiesto una volta un giornalista del Periódico de Catalunya.
“Prima ci andavo matto, ma ora gioco molto poco”.
“Guardi il calcio in tv?”, ha voluto sapere un giornalista del País.
“No, non guardo il calcio. Non mi piace guardare”. Prima di questo pomeriggio a tu per tu con Messi, centinaia di giornalisti hanno chiesto di intervistarlo. Uno di loro ha perfino rischiato la vita. Ma Messi non sembra rendersene conto. Una sera, dopo una partita di Coppa del Re, ha trovato un uomo minacciato di morte ad aspettarlo nel tunnel che portava agli spogliatoi dello stadio Camp Nou di Barcellona. Era lo scrittore Roberto Saviano. Era venuto per conoscerlo, pur sapendo che avrebbero potuto ammazzarlo anche lì. Da quando ha scritto Gomorra, Saviano ha sempre vissuto in località segrete, protetto giorno e notte da una scorta armata. Quella sera il Barcellona gli aveva riservato un posto speciale allo stadio, al riparo dai colpi di un cecchino. Saviano voleva conoscere Messi di persona, stringergli la mano, chiedergli un autografo, fargli qualche domanda. Voleva stare solo con lui, ma la scorta non gliel’ha permesso. Le guardie del corpo hanno detto che erano gli ordini: in realtà anche loro morivano dalla voglia di conoscere il calciatore che sognava di andare a Disney World. Uno aspetta nove mesi per poter trascorrere quindici minuti con lui. A Saviano, che aveva rischiato la vita per incontrarlo, Messi ha detto che a Napoli si sarebbe sentito a casa. Gli ha detto una ventina di parole. E basta.
Un paesaggio immobile che condanna alla noia le telecamere di sicurezza. Sono lì per controllare se succede qualcosa, ma il più delle volte non succede proprio nulla
Oggi, dopo avermi raccontato le sue vacanze a Disney World, Messi aggrotta le sopracciglia come un attore del cinema muto che aspetta altre domande. Sembra un mimo sorridente, uno che cambia continuamente espressione. Spesso, per quel suo corpo elettrico sui campi di calcio, dicono che sembra uscito da un videogioco. Ma a Lionel Messi si addicono meglio metafore meno elettriche e più surrealiste. Dopo gli allenamenti il ragazzo che fa sognare milioni di noi non ha niente di meglio da fare che schiacciare un pisolino.
Con gli estranei Messi parla solo di calcio, tranne che in alcuni casi. Per esempio quando si fa portare a casa la spesa. Un giorno, dopo aver parcheggiato il camioncino davanti alla villa del suo cliente più famoso, il macellaio di fiducia di Messi mi indica con fare da guida turistica le video-camere di sorveglianza sulla facciata dell’edificio. Sono le tre del pomeriggio ed è probabile che a quest’ora la Pulga (la pulce) stia dormendo. Nessuno affronta il pendio di curve di Castell-defels solo per contemplare il Mediterraneo. Ma quando Messi ha voglia di carne, chiama il macellaio e lui si presenta con bistecche, frattaglie, salsicce. Il macellaio, un argentino che i suoi amici chiamano El Gallego, si è offerto di farmi da guida. La Pampa, il ristorante dove lavora, serve arrosto alla brace e vende carne argentina a domicilio. La casa di Messi si trova in cima a una collina, alla fine di una strada stretta, circondata da un bosco di pini. I mezzi pubblici qui non arrivano. È il posto ideale per chi vuole un po’ di privacy. Parlare con Messi è un privilegio concesso a pochi, tra cui il suo allenatore, suo padre e il macellaio. A volte nemmeno all’allenatore. Maradona, quando lo allenava nell’Argentina, diceva che riuscire a parlare con Messi al telefono era più difficile che intervistare Dio. Di fronte a un personaggio così sfuggente, gli informatori si dividono tra chi si vanta di frequentarlo ora e chi dice di averlo conosciuto prima che la fama lo rendesse irraggiungibile. Mónica Dómina è stata la maestra di Messi alla scuola di Las Heras, dalla prima alla quarta elementare. Una sera la chiamo per farmi raccontare di quando la Pulce sedeva al primo banco: “È stata lei a insegnargli a leggere e scrivere?”.
“Sì, però la scuola non gli piaceva per niente. Ci veniva perché era obbligato”. La voce della signora Dómina ha il tono materno di una maestra e la solennità di un notaio. “Era timidissimo”, dice, “per me è stato molto difficile riuscire a comunicare con lui”.
“E cosa faceva per spingerlo a parlare?”.
“C’era una sua amica che si sedeva vicino a lui e mi riferiva tutto quello che Leo voleva dire”.
“Era una specie di interprete personale?”.
“Sì, e gli comprava anche la merenda. Si comportava come una mamma. E lui la lasciava fare”.
All’età in cui tutti i bambini fanno domande, Leo Messi comunicava con la maestra attraverso una ventriloqua di sei anni. Oggi, come tutti i geni, non ha bisogno di maestri. “Messi sembra non prendersi ancora sul serio”, dice Jorge Valdano, ex direttore generale del Real Madrid. “Raggiungere quel livello di celebrità e non perdere un po’ la testa è impossibile, a meno di essere superdotati o autistici”. Leo Messi è accusato di vivere in una campana di vetro. “Secondo lei, aveva bisogno di uno psicopedagogista?”, chiedo alla maestra.
“Dissi alla madre di portarlo da una psicologa. Aveva bisogno di superare la sua timidezza e di aumentare l’autostima, che all’epoca era molto bassa”.
L’autostima del macellaio di Messi, invece, è molto alta. Il ristorante dove lavora, a cinque minuti di macchina da casa di Messi, sfrutta il nome del campione per farsi pubblicità. La domenica a ora di pranzo viene sempre qualcuno a chiedere se è qui che l’idolo del Barcellona mangia i suoi piatti preferiti. “È vero che ordina quasi sempre la milanesa a la napolitana?”, chiedo. È un tipico piatto argentino: una cotoletta di vitello al forno ricoperta di prosciutto cotto, pomodoro e mozzarella gratinata, con contorno di patate fritte. “Qui da noi, no”, risponde il maître. “Ordina sempre tira de asado, le costolette”. Ecco i suoi dilemmi fuori dal campo: meglio le costolette o una milanesa a la napolitana? Uno psicoanalista non arriverebbe più lontano se avesse Messi su un divano. Messi i divani li usa per dormire.
“E alla fine è andato da uno psicologo?”, chiedo alla maestra.
“Non ricordo”, risponde. “Ricordo solo che sua madre portava in classe tutti i trofei che Leo vinceva, e lui si vergognava da morire”.
“Ha avuto altri alunni timidi come lui?”.
“No, ma lui era diverso dagli altri. Tutti volevano giocare con lui”. Dal tono sento che vuole dirmi altro. “Era un leader silenzioso”, aggiunge, e ho l’impressione che stia stringendo la cornetta del telefono. “Esercitava la sua autorità con i fatti, non a parole. Mi sembra che oggi faccia lo stesso”.
“Che immagine le è rimasta di lui?”.
“Me lo ricordo piccolo e irrequieto, con un sorriso che nascondeva qualcosa, come se sapesse che avrebbe lasciato il segno”.
“Lo ha mai rivisto dopo le elementari?”.
“No, mai”. Non dice più nulla. Messi ha ancora a cuore la sua scuola, a cui ha regalato banchi, computer e altro materiale. Oggi la Pulce osserva il mondo dalle sue finestre sul Mediterraneo. Un paesaggio immobile, che condanna alla noia le telecamere di sicurezza. Sono lì per controllare se succede qualcosa, ma il più delle volte non succede nulla. Il macellaio, se conosce qualche segreto su Messi, non me lo dirà. Magari mi darà qualche dettaglio insignificante, come si getta un osso a un cane. Quando sto per risalire sul camioncino, il maître mi confessa che una sera Messi è arrivato con una ragazza nella sua Audi Q7, l’auto che il Barcellona fornisce a tutti i suoi giocatori. Hanno ordinato tira de asado e salsicce. Per dolce, gelato ricoperto di caramello. È stata una cena a lume di candela. Messi l’ha presentata come la sua ragazza.
Leo Messi comincia a essere infastidito dalle mie domande sulle sue vacanze. Si accarezza la gamba, cioè il telefonino, e intanto guarda fuori, tra gli alberi che circondano la Ciudad deportiva. I suoi occhi si muovono come se stessero cercando una pallina smarrita in un campo da golf. Quando gli mostro un articolo di giornale, il titolo cattura la sua attenzione. Nel pezzo si parla della sua ragazza. Era un giorno di carnevale a Sitges, una località turistica a sud di Barcellona con spiagge caraibiche, molti gay e un fantastico festival cinematografico. Il sole era già primaverile. Nella fotografia si vede Messi, che vive a pochi chilometri da lì, camminare a braccetto con una ragazza che gli arriva alle spalle. Sotto la foto, un nome: Antonella Roccuzzo. Una miniatura dal cognome eccentrico.
“Qui dicono che è la tua ragazza”, dico. “È vero?”.
“Sì, ci conosciamo da quand’eravamo piccoli”, risponde, come se stesse scartando una caramella. “È la cugina del mio migliore amico”. Messi ha degli amici. E il suo migliore amico si chiama Lucas Scaglia. “La cugina del mio migliore amico”. Sembra il titolo di un film italiano. Un film di serie B. Un giorno Scaglia me lo racconta al telefono. Nelle giovanili del club Newell’s Old Boys di Rosario, i bambini erano kamikaze pronti a tutto per giocare con Messi. Scaglia era il kamikaze numero cinque. Messi era un goleador timido. Quando si conobbero, avevano appena cominciato la scuola elementare. A volte la Pulce rimaneva a dormire a casa di Scaglia. Messi non ama le storie sdolcinate.
“E la cugina la vedevi a casa di Lucas?”, gli chiedo nella Ciudad deportiva. Si china verso di me come se stesse per rivelarmi un trucco alla Playstation. Invece mi dice: “Da piccoli giocavamo sempre insieme. Poi è nata una storia”. La famiglia Messi è originaria di Recanati, la città del poeta Giacomo Leopardi. Nella grande comunità di immigrati di Rosario, gli italiani sono il gruppo più numeroso. La madre della Pulce si chiama Celia Cuccittini. I cugini di cognome fanno Biancucchi. Il suo migliore amico Scaglia. La ragazza Roccuzzo. Gli Scaglia e i Roccuzzo sono cugini. I loro genitori gestiscono un supermercato e dividono una casa di due piani. Messi andava a trovare Scaglia. Quella che sarebbe diventata la sua ragazza viveva al primo piano. “Ma qualche volta lei ti ha rifiutato?”, chiedo.
L’intervista va avanti da appena dieci minuti e lui già non vede l’ora che sia finita, come un palombaro che conta i secondi per tornare in superficie
Le fotografie che immortalano Messi turbato mentre riceve un calcio sono fuorvianti, così come le immagini delle telecamere che lo inquadrano mentre ha la palla tra i piedi. La virilità calcistica impone urla da guerriero a chi segna un gol, ma Leo Messi è l’unico campione capace di farci tenerezza con le sue manifestazioni di gioia, come quando alla fine di una partita imbraccia il pallone con l’espressione di un bambino che ha vinto un peluche al luna park. In campo, el pibe perde ogni inibizione: piange, cammina con la maglietta fuori dai calzoncini, tira fuori la lingua, fa mille facce diverse. Invece di irritarsi quando gli chiedo se la sua ragazza lo ha mai respinto, mi risponde con lo sguardo complice di chi sta al gioco: “Ci siamo piaciuti dal primo incontro”. La Pulce fa un sorrisetto. “Per un paio d’anni non ho visto né lei né il mio amico. Poi ci siamo rivisti, e da lì è cominciata la storia”.
Messi si gira di colpo, come se una mano invisibile gli avesse toccato la spalla. L’intervista va avanti da appena dieci minuti e lui già non vede l’ora che sia finita, come un palombaro che conta i secondi per tornare in superficie. Le vite degli altri sembrano muoversi più lentamente. La maestra insegna ancora nella stessa scuola. La sua ragazza studiava moda ma poi ha lasciato perdere. Il suo miglior amico è calciatore e gioca in Grecia. In dieci anni la Pulce è cresciuta di 37 centimetri. Messi teneva le fiale di ormoni della crescita nel frigorifero del suo miglior amico. Quando dormiva fuori, se le portava dietro. Lucas Scaglia lo ha visto farsi le iniezioni più di una volta. Se le faceva ogni sera. In tutte e due le gambe. Una alla volta. Faceva tutto da solo. In silenzio. E non piangeva. Messi non ha mai confidato a Scaglia che gli piaceva sua cugina. Gliel’ha detto quando stavano già insieme e Scaglia giocava in Grecia. Eppure si conoscevano da tredici anni. Messi parla poco, e non solo con la stampa. “Fa parlare di sé solo con i piedi”, dice Valdano. Un modo diplomatico di presentare come una virtù quello che la stampa considera un difetto. Il silenzio di Messi non è il silenzio di chi si estrania per riflettere: è il silenzio del calciatore che ci diverte e che, divertendosi, non ha nulla da aggiungere.
“E ora che farete?”, gli chiedo. “Vi sposerete?”. Un vento leggero smuove la spessa aria estiva sopra la Ciudad deportiva.
“Stiamo bene così”, mi dice istintivamente. E subito aggiunge: “Non ci ho ancora pensato. Ora non mi sento pronto né ho voglia di farlo. Ho altre cose a cui pensare”.
Per la prima volta Messi parla apertamente del futuro. Le parole scorrono caute, come lungo uno scivolo per bambini. Anche quando lo intervistano alla televisione, chiedendogli di commentare il campionato che vuole vincere, il tono di Messi oscilla tra il timido e il prudente. Ma questa volta, invece che di gol o di tattiche di gioco, Messi parla della sua ragazza e dell’incertezza del loro matrimonio. Il racconto è interrotto da una mano che spunta improvvisamente alle sue spalle. La mano ha uno, due, tre dita alzate. È la mano dell’addetto stampa del club, che mi avverte che il tempo sta per finire. Ancora qualche minuto e Messi sparirà dietro una parete della grande incubatrice di cemento e cristallo.
Ogni volta che va a Barcellona, Celia Cuccittini, la madre di Messi, ripete i riti dell’infanzia di suo figlio. La sera, prima di andare a dormire, gli prepara una tazza di mate, si siede sul letto e gli accarezza i capelli prima di spegnere la luce. Le madri dei geni di solito non interessano alla stampa e ai fan, ma riuscire a parlare con la signora che accarezza la testa di Messi è comunque un’impresa: il suo telefono è sempre staccato. In Spagna Celia Cuccittini appare sorridente nello spot televisivo di una marca di dolci, insieme al figlio che alla fine dice “grazie, mamma” in tono infantile. La famiglia e il club lo tengono in una campana di vetro, in un’estensione del ventre materno, per proteggerlo dal duro mondo del calcio.
Da Barcellona bisogna comporre un numero di quindici cifre per chiamare la madre di Messi a Rosario, un’operazione che dopo un po’ diventa stancante.
Ora che aveva la maglia dell’Argentina e le responsabilità di un adulto, pensava troppo, e pensando troppo tradiva il suo gioco, che si basa su una spensieratezza da bambino
Una sera, dopo due mesi di inutili tentativi, una donna risponde. Ha un tono spensierato, come se stesse facendo altro mentre sta al telefono. Le chiedo se è la signora Cuccittini. “No, sono la figlia”. “Cercavo tua madre”. “Non c’è”. “Puoi darmi un numero al quale trovarla?”. “Sì, però non lo so a memoria”. María Sol Messi ha 16 anni. Rimane in silenzio, aspettando di sapere con chi sta parlando. È a casa sua, nel quartiere di Las Heras, e mi dice che sta usando il cellulare della madre perché il suo si è rotto. María Sol non appare spesso nelle foto della famiglia Messi scattate dai paparazzi, però a volte la stampa parla di lei. Il giorno che suo fratello è stato eletto miglior calciatore del mondo, una telecamera si è soffermata per alcuni secondi su di lei durante la cerimonia di premiazione: magra, con i capelli castani, ha un viso dai lineamenti spigolosi che le dà un’aria severa, simile a quella del fratello quando non sorride. I successi di Leo la accompagnano praticamente da sempre. Quando il fratello è andato a Barcellona per entrare nel calcio professionistico, María Sol aveva appena cominciato le elementari. “All’inizio lo vedevo in televisione e non riuscivo a crederci”, ricorda. “Oggi per tutti è Messi, però non è cambiato. È sempre la stessa persona”.
“Segui il calcio in tv?”.
“Sì, ma non con mia madre. Mi piace di più seguirlo con mio padre”.
“Perché?”.
“Nessuno vuole vedere le partite con mia madre. Appena appare Leo, comincia a gridare, piange, si agita. Mio padre è più tranquillo”. María Sol Messi non ha bisogno di domande per continuare a parlare del fratello. “Io somiglio di più a Leo. Mi piace stare a casa. Per essere felice mi bastano una tv e un computer”.
“Tuo fratello mi ha detto che preferisce dormire”.
“Sì. Torna dagli allenamenti, si stende sulla poltrona e dorme tutto il pomeriggio. Non so come faccia ad addormentarsi subito la sera. È felice così”.
Jorge, il padre di Messi, vive anche lui a Rosario ed è il procuratore del figlio. Piccolo e robusto, sembra la copia di Leo tra vent’anni. Quando il Barcellona ha vinto ad Abu Dhabi il mondiale per club contro l’Estudiantes, una squadra di Buenos Aires, gli spettatori hanno confuso Jorge con il figlio, sollevandolo per festeggiare la vittoria. Da giovane anche il padre di Messi ha giocato nella squadra del Newell’s, ma poi ha mollato per il servizio militare, gli studi e il matrimonio. Anche se lavorava in un’industria siderurgica, la paternità gli ha permesso di non rinunciare del tutto al calcio. Quando la Pulce ha cominciato a stupire il pubblico nel Barcellona, i suoi due fratelli più grandi già giocavano nelle giovanili del Newell’s. Jorge Messi era pronto a curare gli interessi di una grande promessa del calcio. Certo, dopo due figli calciatori, non gli sarebbe spiaciuto avere una femminuccia. Lionel Messi giocava a pallone come una pulce magica. E, come una pulce magica, non cresceva. Diventare un giocatore professionista era un sogno, ma anche una necessità, perché le cure costavano. A undici anni Messi era alto come un bambino di nove, poco più di un metro e trenta. Fin dalla prima visita, il medico aveva capito che la diagnosi era “ritardo dell’età ossea”, provocato dal deficit di Gh, l’ormone della crescita. Messi doveva assumere ogni giorno una dose di somatotropina sintetica, e il trattamento costava mille dollari al mese, più della metà dello stipendio del padre. Il calcio, per Messi, non era più solo un gioco: era diventato il suo unico appiglio.
Quando María Sol Messi è diventata adolescente, le medicine di suo fratello non erano più un problema per la famiglia. Ora anche lei si gode la fama del suo cognome da dietro le quinte, come spesso capita ai fratelli minori. La vita pubblica del fratello deve sembrarle uno show da guardare mangiando pop corn. “Una volta stavo facendo shopping con mamma, papà, zio, zia, tutti, insomma. Ci chiamò Leo e disse che ci avrebbe raggiunti”. Quando entrò nel centro commerciale, fu circondato dalla folla. Tutti volevano toccarlo. Lo dovette portar via la polizia. María Sol scoppia in una risata complice pensando all’incoscienza con cui Messi vive la notorietà. Non è un caso se tra i fan di Messi ci sono più bambini e ragazzi che giocano alla Playstation che adulti appassionati di calzoncini di marca. María Sol Messi cambia argomento con la rapidità di chi fa zapping la domenica pomeriggio. “Quando perde è meglio non parlargli”, racconta. “Vegeta sulla poltrona e guarda la tv. Ma non lo fa per cattiveria, è solo che si deprime”.
In quel periodo la Pulce aveva i suoi buoni motivi per vegetare qualche ora in più sul divano: aveva segnato solo due reti nelle ultime dieci partite delle qualificazioni ai Mondiali in Sudafrica, e i quotidiani argentini si chiedevano che fine avesse fatto il suo genio. Lo consideravano uno straniero con la divisa sbagliata. Lontano dal Barça, il cannoniere della Champions league sembrava un ragazzo triste, depresso. Sembrava aver perso il suo intuito, quella qualità che, unita alla velocità, gli permette di essere sempre un passo avanti rispetto agli altri. Ora che aveva la maglia dell’Argentina e le responsabilità di un adulto, Messi pensava troppo, e pensando troppo tradiva il suo gioco, che si basa su una spensieratezza da bambino.
Per avere autorità in uno spogliatoio bisogna essere un caudillo, un Maradona, e non solo in Argentina ma in tutta l’America Latina. In politica i caudillos devono conquistare i loro sostenitori nelle strade prima di salire al potere. Nel calcio li conquistano nello spogliatoio prima di scendere in campo. Il silenzio di Messi a secco di gol cominciava a pesare. La stampa argentina non lo aveva mai criticato tanto. Gli chiedevano di essere un padre severo, ma lui si comportava come un figlio timido e irrequieto, che scoppia a piangere nei momenti di frustrazione. Una volta, dopo che la sua squadra aveva vinto una partita di Champions league, Messi era scoppiato a piangere nello spogliatoio perché non aveva giocato da titolare. Era successa la stessa cosa il giorno della sua prima chiamata nella nazionale argentina, e lo avevano mandato a casa senza farlo giocare nemmeno un minuto. Anche dopo aver vinto sei titoli in un anno, non era riuscito a trattenere le lacrime dopo che il Barcellona era stato eliminato dalla Coppa del Re. Messi vive ogni sconfitta come una tragedia, perché vive il calcio con il trasporto di un bambino. Di fronte alle delusioni in nazionale, invece, Messi non piangeva. Guardava a terra. Sul viso non si vedevano lacrime, ma solo una serietà funerea. “Stava molto male in quel periodo”, mi dice la sorella, “lo sanno tutti”.
“E tu che facevi?”.
“Gli prendevo la mano”. Le mani di Lionel Messi sono grandi come quelle di un portiere. Quando aveva cinque anni, la nonna materna lo prese per mano e lo accompagnò a giocare a calcio per la prima volta. Oggi il nipote le dedica sempre i suoi gol, puntando le dita al cielo. Da allora Messi non ha mai lasciato la mano della sua famiglia. “Gli prendevo la mano”, aggiunge María Sol, “senza dire nulla”.
La genialità di Messi ha spinto chi gli sta vicino a rinunciare alla propria vita per amministrare il suo talento e la sua fortuna. Rodrigo Messi è il più grande dei tre fratelli e, dopo suo padre, è il secondo tramite per arrivare alla Pulce. Venuto in Europa per continuare la carriera avviata nel Newell’s, ora si occupa, tra le altre cose, della cena di Messi. Dopo aver appeso gli scarpini al chiodo, ha studiato gastronomia e ogni sera ha il compito di nutrire un genio a cui piace solo la carne. Una sera, nel bar di un hotel a cinque stelle, Rodrigo Messi mi ha detto che a suo fratello non piacciono né il pesce né le verdure. Quello stesso giorno, la Pulce aveva rinnovato il contratto con il Barcellona per dieci milioni di euro all’anno, e Rodrigo lo aveva accompagnato. È l’unico della famiglia che si è trasferito a Barcellona per aiutare Leo. Ogni tanto sorride nervosamente e si passa la mano tra i capelli, anche se non è spettinato. A casa lo chiamano Problemita, e il suo problema principale non è pensare ogni giorno al menù della cena, ma garantire la sicurezza di Leo Messi. “Quando va fuori a cena”, spiega, “mi preoccupo. Non gli piace avere appresso le guardie del corpo, ma le mandiamo comunque, senza che lui se ne accorga”. “Hai paura che possa succedergli qualcosa?”. Rodrigo Messi riassume in una smorfia di nervosismo tutti i pericoli che ora non mi può elencare: “Il successo attira l’invidia, e quindi la brutta gente. Bisogna essere pronti a tutto”, dice. “Il calcio è un mondo particolare”.
“E lui ha ballato?”. “Sì! Eravamo tutti stupiti, perché al matrimonio di mio fratello era rimasto seduto tutta la sera”. Era la prima volta che sua sorella lo vedeva ballare
Avere il cognome di un genio è una fortuna, ma anche un peso. Al fratello di Maradona è andata così male con il pallone che è finito a giocare in Perù come fosse un’attrazione del circo. Quand’era nel Barcellona, il figlio di Cruyff ha dimostrato di aver ereditato dal padre solo gli occhi azzurri. Il figlio di Pelé è stato un pessimo portiere della squadra brasiliana del Santos, prima di finire coinvolto in storie di droga e riciclaggio di denaro sporco. Per Rodrigo Messi, tenere lontano suo fratello da un mondo oscuro e pericoloso ormai è la missione della sua vita. All’altro capo del telefono, María Sol preferisce parlare di una festa indimenticabile. “E che ti ha regalato per il tuo compleanno?”, le chiedo.
“Di tutto. Era in Spagna, ma mi chiamava tutti i giorni per sapere di che colore era il vestito che avrei indossato”. Il calciatore che dorme se non ha un pallone tra i piedi ha fatto l’impossibile per festeggiare i quindici anni della sorella. Da Barcellona ha prenotato la sala del migliore albergo di Rosario e ha contattato un servizio di catering per duecento persone. Si è assicurato che la sorella potesse avere il vestito che più le piaceva, ha scelto anche la musica dal vivo, e le ha regalato un anello e una catenina d’oro con un cuore. “E lui ha ballato?”. “Sì! Eravamo tutti stupiti, perché al matrimonio di mio fratello era rimasto seduto tutta la sera”. Era la prima volta che sua sorella lo vedeva ballare. A Messi non si chiede altro che dimostrare il suo genio in campo. Un suo dribbling può scatenare mesi di discussioni, e i fanatici racconteranno ai nipoti di averlo visto giocare allo stadio. Senza volerlo, Leo Messi è diventato uno dei nuovi effetti speciali della felicità collettiva. Ed è anche l’idolo di sua sorella. “Cosa ti piacerebbe fare da grande?”, le chiedo.
“Vorrei trasferirmi a Barcellona a fare teatro”. La sua voce da adolescente prende un tono deciso. “Mi piacerebbe diventare come mio fratello”, aggiunge, “però come attrice”. María Sol Messi lo dice con la certezza di chi crede che tutto sia possibile, anche negare che in una famiglia può nascere un solo genio. Ancora non sa che dietro ogni artista si nasconde un calvario. Quello di suo fratello potrebbe essere la noia, che incombe appena si allontana dai campi di calcio. Senza spettatori né applausi, per Leo Messi lo spettacolo deve continuare ogni pomeriggio, nel silenzio di casa, quando chiude gli occhi e abbandona la testa su un cuscino.
Fuori dal campo si muove, parla e tace con una pigrizia fuorviante, che svanisce di fronte ai suoi avversari
Leo Messi preferisce non ricordare alcuni episodi della sua infanzia. Mancano tre minuti alla fine dell’intervista e, come quando gli annullano un gol, si lascia andare a un gesto di sconforto: mento basso, bocca contratta, fronte corrugata. È la sua reazione alla vista del libro che spunta dalla mia borsa. Oggi ha dovuto rinunciare al pisolino, ma non è per questo che è nervoso. In Spagna due sue biografie sono uscite prima ancora che compisse ventidue anni. Una delle due, El niño que no podía crecer (Il bambino che non poteva crescere), di Luca Caioli, celebra l’epopea calcistica della Pulce. Ora Messi osserva quel libro con diffidenza. “Lì ci sono scritte cose che non dovevano essere scritte”, dice, indicando il libro con il mento. Detesta alcuni ricordi della sua infanzia leggendaria. Aveva tredici anni quando salì per la prima volta su un aereo per andare in Europa con il padre. Con loro c’era una terza persona. Se fosse andato tutto per il meglio, un agente si sarebbe dovuto occupare dei contratti.
“Lo ricordo come fosse oggi”, mi dice al telefono Fabián Soldini. Parla di Messi in tono paterno. “Era così forte”, ricorda, “che ci eravamo offerti di pagare il cinquanta per cento delle sue cure”. Messi era un prodotto da esportare e Soldini sentì che il suo futuro era in Spagna. In un video amatoriale, si vede Messi bambino che riesce a fare 97 palleggi con un’arancia e 130 con una pallina da tennis. Sfere che non toccano mai il suolo. L’agente l’aveva ripreso e aveva inviato delle copie del video ai suoi contatti a Barcellona. “Com’era Messi a dodici anni?”. “Molto introverso. Quando lo accompagnavamo dal medico, gli pesava doversi spogliare per la visita”. E gli pesava anche separarsi dalla famiglia. Quando fecero scalo a Buenos Aires, durante quel primo viaggio in Spagna, per Messi fu una tragedia. “Non smetteva di piangere”, racconta Soldini. “Era come se avesse già capito che non sarebbe tornato”.
“Era fragile”, dico, “però quando gioca sembra agguerrito”.
“È vero. Le sfide lo stimolano. Ha sempre avuto bisogno di giocare per qualcosa”. Soldini risponde senza esitare a tutte le domande, come se se le facesse ogni mattina. “Una volta gli ho promesso che se faceva cinque gol in una partita gli avrei regalato un completo sportivo della Puma”.
Erano i suoi primi giorni al Barcellona. La Pulce viveva in una stanza dell’Hotel Plaza, nel quartiere Sants. Dalla sua finestra si vedevano le torri veneziane, le colline alberate del Montjuïc, plaça d’Espanya. Aveva solo una cosa in testa: in diciassette giorni doveva dimostrare quant’era bravo con il pallone. Aveva lasciato un pae-se dove nessun dirigente sportivo voleva pagargli le cure. A Barcellona si stava giocando il futuro. Ma pochi minuti prima di entrare nello spogliatoio, la Pulce si bloccò. “Non voleva entrare da solo”, dice Soldini. “Dovetti accompagnarlo io”. Quella sera Leo Messi fece quattro gol e gliene annullarono uno. Soldini mantenne la promessa e gli regalò la tuta. Oggi, nella Ciudad deportiva, Messi guarda con sospetto i libri che parlano di questo capitolo della sua vita. “Cos’è che non doveva essere scritto?”, chiedo, mentre sfoglio la biografia.
“Di queste cose è meglio che parli con il mio vecchio”. Ma suo padre si agita quando si parla di affari. “Leo non ha mai avuto un agente”, mi dice alterato al telefono, “non ho nulla da aggiungere”. Non vuole affrontare una questione ancora aperta: la società dell’ex agente reclama un compenso per i giorni in cui Soldini e i suoi colleghi si occuparono del viaggio di Messi a Barcellona. Tempo dedicato all’incerto futuro della Pulce. Oggi Soldini sembra molto dispiaciuto. “Non mi saluta nemmeno”, mi dice di Messi. “Sono dovuto andare dallo psicologo per questo. Ho detto a Leo: tu non mi hai rubato dei soldi, mi hai rubato il cuore”.
Anche Leo Messi si è dovuto piegare alla logica degli affari. Il video in cui palleggia con l’arancia è finito nello spot di una carta di credito. Soldini, l’autore delle riprese, l’ha scoperto guardando la televisione. La fine dell’innocenza del dilettante ha coinciso con l’inizio dell’avidità commerciale. Il primo grande contratto della Pulce fu firmato su un tovagliolo. L’allora direttore sportivo del Barça, Carles Rexach, lo vide giocare sette minuti e, davanti a un agente intermediario, prese il tovagliolo di un ristorante e firmò una proposta di contratto. Non voleva che un altro club glielo soffiasse. Con quell’improbabile pezzo di carta, il Barça s’impadronì del suo futuro. In meno di un decennio, Messi è arrivato a guadagnare molto più di quello che Barack Obama guadagna con la vendita dei suoi libri e come presidente della più grande potenza mondiale. Il suo cognome ormai è un marchio registrato che funziona come un’impresa familiare, la Leo Messi Management. Il genio del calcio è apparso in spot di banche, bibite, compagnie aeree, videogiochi, rasoi elettrici e ha posato per pubblicità di pantaloncini e pigiami. Anche se a lui, per la siesta, il pigiama non serve.
Leo Messi si guarda di nuovo intorno ma il suo salvatore, l’addetto stampa del Barça, è scomparso. È impaziente come un alunno disciplinato che aspetta la campanella della ricreazione per scappare via. Secondo Juanjo Brau, il fisioterapista che lo segue ovunque, per capire lo stato d’animo della Pulce bisogna guardare come muove la testa: quando la china, per esempio, vuol dire “non disturbare”. Molte stelle del calcio hanno comportamenti che le contraddistinguono dentro e fuori dal campo: il petto all’infuori di Maradona, il sorriso festaiolo di Ronaldinho, la flemma aristocratica di Zidane. Ma senza pallone, Leo Messi sembra il clone scarico del giocatore elettrico che tutti conosciamo. Una brutta copia di se stesso. L’addetto stampa è scomparso e la Pulce sta per alzarsi. Prima però controlla il cellulare per vedere se ci sono chiamate: nessuna.
“Stai guardando delle foto sul telefonino?”, chiedo. Messi si rimette gli infradito come se stesse per alzarsi dal letto. Si stira. “Le foto le mando”, risponde, “non le guardo”. L’addetto stampa torna, agitando le braccia come un arbitro che ha appena espulso un giocatore. Tempo scaduto. Messi ha distolto lo sguardo dalla mia borsa, dove ci sono i libri che raccontano la sua storia e che lui non vuole leggere. I libri, per lui, sono come i vicini che non hai voglia di salutare. Una volta il suo allenatore, Pep Guardiola, gliene ha regalato uno. Sperava che il titolo potesse incuriosire un giocatore abituato a vincere, ma voleva anche mandargli un messaggio. Era l’ultimo romanzo di David Trueba, Saper perdere.
“L’hai letto?”.
“L’ho cominciato perché me l’aveva regalato Guardiola”, mi dice, “ma a me non piace leggere”.
“Lo sai che racconta la storia di un pibe che viene dall’Argentina e che conosce una ragazza in Spagna?”.
“Sì, me l’hanno detto”. Saper perdere. Lionel Messi continua a piangere quando perde. Alla Ciudad deportiva mi saluta con una stretta di mano che non stringe, rilassata e assente com’è lui quando non ha la palla tra i piedi. Fuori dal campo si muove, parla e tace con una pigrizia fuorviante, che svanisce di fronte ai suoi avversari. Nel suo periodo migliore, Ronaldinho distraeva i difensori nascondendo un’azione letale dietro un sorriso. Messi, invece, inganna tutti con la sua aria distratta. Domani lo rivedrò in tv, quando lo premieranno come miglior giocatore dell’anno in Europa, uno dei venti trofei che ha vinto in questa stagione. Indosserà un abito italiano su misura, che addosso a lui sembrerà di qualcun altro. Poi tornerà alla sua placida routine casalinga, paradosso per eccellenza nella vita del ragazzo più imprevedibile del calcio. Ma questo pomeriggio, tra pochi minuti, Messi salirà solo sulla sua auto, guiderà su per la collina fino alla sua casa affacciata sul Mediterraneo e sprofonderà, come ogni giorno, nell’ipnotico sopore della sua poltrona.
(Traduzione di Antonello Guerrera)
Questo articolo è stato pubblicato il 29 dicembre 2011 sul numero 930 di Internazionale.
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