Questo articolo è uscito il 22 luglio 2016 nel numero 1163 di Internazionale. L’originale era uscito sul New York Times Magazine, con il titolo The humiliating practice of sex-testing female athletes.
Un giorno di giugno del 2014, mentre riposava dopo una serie di scatti sui 200 metri, Dutee Chand ricevette una telefonata dal direttore della Federazione indiana di atletica leggera (Afi), che le chiedeva di raggiungerlo a Delhi. Chand, che all’epoca aveva 18 anni ed era una delle più forti velociste del paese, si stava preparando per i Giochi del Commonwealth a Glasgow, la sua prima grande competizione internazionale da adulta. All’inizio del mese aveva vinto la medaglia d’oro nei 200 metri e nella staffetta 4x400 ai campionati asiatici juniores a Taipei, Taiwan, ed era molto ottimista per Glasgow.
Chand era cresciuta a Gopalpur, un villaggio rurale nell’India orientale dove l’elettricità arriva a singhiozzo. La casa di famiglia era una baracca di fango senza bagno e acqua corrente. I suoi genitori, due tessitori che guadagnavano meno di otto dollari alla settimana lavorando a un telaio di proprietà dello stato, erano analfabeti. Non immaginavano una vita diversa per i loro sette figli, ma Chand aveva altri progetti.
Durante le cinque ore di viaggio in pullman per raggiungere Delhi da un centro sportivo nel Punjab, Chand pensava al suo imminente trasferimento a Bangalore, dove avrebbe cominciato un nuovo programma di allenamento. Si chiedeva se avrebbe trovato dei nuovi amici e come se la sarebbe cavata senza l’allenatore a cui era tanto legata e che l’aveva sostenuta per anni, elaborando strategie per le gare e aiutandola a rilassarsi quando era nervosa. Pensava poco all’incontro di Delhi, perché credeva che si trattasse di un semplice controllo antidoping.
Ma una volta arrivata a Delhi, racconta, la mandarono da un medico dell’Afi, affiliata all’Associazione internazionale delle federazioni di atletica leggera (Iaaf), l’organizzazione che regola questo sport al livello mondiale. Il medico le disse che non avrebbe prescritto le solite analisi delle urine e del sangue perché non c’erano infermiere disponibili, e invece le prescrisse un’ecografia. Chand era confusa. Quando chiese spiegazioni, ricorda, il medico rispose che era la routine.
Chand non sapeva che la sua straordinaria prestazione ai campionati juniores di Taipei e a un campionato nazionale che si era svolto quello stesso mese avevano spinto avversari e allenatori a rivolgersi alla federazione perché secondo loro la ragazza aveva un fisico sospettosamente mascolino: i muscoli erano troppo pronunciati e la falcata troppo possente per una ragazza alta poco più di un metro e cinquanta. Il medico in seguito avrebbe dichiarato che l’ecografia non era dovuta a quelle accuse, e che l’aveva ordinata perché Chand aveva accusato un dolore addominale. Lei dice invece di non aver mai avuto dolori di quel tipo.
Tre giorni dopo l’ecografia l’Afi inviò alle autorità sportive del governo indiano una lettera intitolata “Oggetto: verifica del sesso”. La lettera diceva: “È stato portato all’attenzione dei sottoscritti che esistono dubbi circostanziati sul genere di un’atleta, la signorina Dutee Chand”. Aggiungeva anche che in passato simili casi “hanno procurato imbarazzo al buon nome dello sport indiano”. La lettera chiedeva alle autorità di sottoporre Chand a “un test di verifica del sesso”. Poco dopo la ragazza fu mandata in un ospedale privato di Bangalore, dove una donna dai modi bruschi le prelevò un campione di sangue per accertare il suo livello di testosterone naturale, anche se Chand non aveva idea di cosa volessero misurare. Fu anche sottoposta a un’analisi dei cromosomi, una risonanza magnetica e una visita ginecologica durante la quale si sentì umiliata. Il protocollo dell’Iaaf per valutare gli effetti di un alto livello di testosterone prevede che vengano misurati e palpati clitoride e labbra, mentre la dimensione del seno e la peluria pubica sono classificate secondo una scala da uno a cinque.
Bizzarria genetica
I test servono a individuare gli atleti con cromosomi, ormoni, genitali, organi riproduttivi e caratteristiche sessuali secondarie che non hanno uno sviluppo o un allineamento tipico. La parola “ermafrodita” è considerata uno stigma, perciò medici e avvocati preferiscono il termine “intersessuale”, oppure definiscono questa condizione “disordine dello sviluppo sessuale”. Le stime del numero di persone intersessuali variano in modo significativo – da uno su cinquemila a uno su sessanta – perché gli esperti non sono d’accordo su quali delle tante condizioni includere nella lista e come valutarle con precisione.
Alcune donne intersessuali, per esempio, hanno cromosomi XX e ovaie ma, a causa di una bizzarria genetica, nascono con genitali ambigui, né maschili né femminili. Altre hanno cromosomi XY e testicoli non scesi, ma una mutazione che riguarda un enzima fondamentale le fa apparire femmine alla nascita; vengono educate come bambine ma, quando arrivano alla pubertà, l’aumento dei livelli di testosterone le porta ad avere una voce profonda, un clitoride allungato e una massa muscolare molto sviluppata. Altre ancora hanno cromosomi XY e testicoli interni ma sembrano femmine per tutta la vita – hanno i seni e i fianchi arrotondati – perché le loro cellule non sono sensibili al testosterone. Potrebbero non scoprire mai che il loro sviluppo sessuale è stato atipico, a meno che non si sottopongano a un test per l’infertilità. O arrivino a competere in gare sportive internazionali.
A metà degli anni quaranta le autorità sportive cominciarono a chiedere alle atlete di presentare certificati medici per accertare la loro “femminilità”
Qualche giorno dopo la visita, quando arrivarono i risultati delle analisi, il medico disse a Chand che i livelli degli “ormoni maschili” erano troppo alti. La ragazza, cioè, produceva più androgeni della maggioranza delle donne, soprattutto più testosterone. Per le donne di solito si va da circa 1,0 a 3,3 nanomoli di testosterone per litro di sangue, più o meno un decimo del valore riscontrato negli uomini. Il livello di Chand non fu reso noto, ma era al di sopra della soglia di dieci nanomoli per litro stabilita dalla Iaaf per le atlete, un valore quindi che rientrava nella “gamma maschile”. Di conseguenza, le dissero, non poteva più gareggiare.
Da allora Chand è al centro di un processo in cui è contestata non solo la squalifica ma anche il regolamento internazionale. Quell’insieme di regole che, secondo gli avvocati della donna, discrimina gli atleti con uno sviluppo sessuale atipico.
Per Chand, che non aveva mai sentito le parole “testosterone” o “intersessuale”, fu un’educazione lenta e dolorosa. Quando le comunicarono che era stata squalificata a causa dei suoi livelli di testosterone, non capì nulla di quello che i funzionari le stavano dicendo. “Mi sono limitata a chiedere: ‘Cosa ho fatto di sbagliato?’”, mi racconta tramite un interprete di hindi durante una telefonata a maggio. “Poi i giornalisti si sono procurati il mio numero e hanno cominciato a telefonare per chiedermi di una certa analisi degli androgeni, ma io non avevo idea di cosa fosse. Mi chiedevano: ‘Ha fatto il test di verifica del sesso?’, e io rispondevo: ‘Cos’è il test di verifica del sesso?’”.
Decenni di discriminazioni
I dirigenti della Iaaf e del Comitato olimpico internazionale (Cio) hanno provato tenacemente a determinare chi può considerarsi una donna in ambito sportivo. Queste due influenti organizzazioni hanno passato mezzo secolo a presidiare bellicosamente i confini dell’identità sessuale. Per decenni hanno dato la caccia agli atleti che si spacciavano per donne, ma non hanno mai trovato un impostore. Hanno individuato invece decine di donne intersessuali.
Il modo in cui sono trattate le atlete, e le donne intersessuali in particolare, ha una storia lunga e squallida. Lo sport è stato per secoli una provincia esclusiva dei maschi, l’arena di competizione dove era coltivata e dimostrata la mascolinità. Lo sport dotava gli uomini della forza fisica e psicologica richiesta dalla “virilità”. Alla fine dell’ottocento, quando le donne cominciarono a entrare nei settori dominati dagli uomini – sport, istruzione, lavoro retribuito – furono in molti a preoccuparsi: se il ruolo delle donne non era immutabile, forse allora il ruolo e il potere degli uomini poteva essere in pericolo.
Mano a mano che le atlete diventavano più forti e più sicure di sé, alcuni osservatori cominciarono a chiedersi se le donne veloci e possenti fossero davvero delle donne. Durante le Olimpiadi di Berlino del 1936 circolò la voce che la velocista polacca Stella Walsh e la statunitense Helen Stephens – che avevano entrambe straordinarie capacità atletiche, muscoli “da maschio” e il viso spigoloso – fossero in realtà degli uomini. Stephens batté per un soffio Walsh sui 100 metri, stabilendo un nuovo record mondiale, e subito dopo fu pubblicamente accusata di essere un uomo. Le autorità olimpiche tedesche avevano esaminato i genitali di Stephens prima della gara e avevano decretato che era una donna. Quarant’anni dopo, a sorpresa, un’autopsia sul corpo di Walsh rivelò che aveva genitali ambigui.
Nel 1938 scoppiò una nuova controversia. Una saltatrice in alto, la tedesca Dora Ratjen, che aveva vinto una medaglia d’oro ai campionati europei di atletica leggera, fu improvvisamente identificata come maschio, e la Germania restituì la medaglia senza fare storie. Anni dopo il suo caso diventò di pubblico dominio (Ratjen sostenne che i nazisti lo avessero costretto a fingersi donna per tre anni) e fece riaprire le crescenti preoccupazioni sulle frodi legate all’identità sessuale. Ma nel 2009 la rivista tedesca Der Spiegel ha studiato le cartelle mediche e i documenti della polizia e ha scoperto che Ratjen era nato con genitali ambigui ma, su suggerimento dell’ostetrica, era stato educato come una bambina, vestito con abiti femminili e mandato a una scuola femminile. Dora visse da donna fino al 1938, quando una persona che viaggiava su un treno chiamò la polizia affermando che sul convoglio c’era una passeggera che aveva un aspetto sospettosamente mascolino. Ratjen fu molto sollevato e spiegò che, nonostante quello che dicevano i suoi genitori, lui sospettava da tempo di essere un maschio. Un medico della polizia lo visitò e confermò il suo sospetto, ma riferì che i genitali di Ratjen erano atipici. Dora cambiò il suo nome in Heinrich. Questi particolari sono venuti alla luce solo di recente, quindi per decenni Ratjen fu considerato un truffatore.
A metà degli anni quaranta le autorità sportive internazionali cominciarono a chiedere alle atlete di presentare certificati medici che accertassero la loro “femminilità”. Susan K. Cahn, docente di storia all’università di Buffalo, negli Stati Uniti, nel libro Coming on strong: gender and sexuality in women’s sport scrive che negli anni cinquanta molti funzionari olimpici erano a disagio per la partecipazione delle donne. Tanto che il principe del Liechtenstein Francesco Giuseppe II, che era nel consiglio del Cio, disse che voleva “risparmiarsi lo spettacolo antiestetico di donne che cercano di apparire e di comportarsi come uomini”. Alcuni erano particolarmente infastiditi dalla presenza delle donne nell’atletica leggera per via dell’espressione contratta sui loro volti durante le gare. Quegli sforzi violavano l’ideale di femminilità della borghesia bianca, e il loro fisico “mascolinizzato” spinse i dirigenti olimpici a valutare la possibilità di cancellare le gare femminili.
Nel 1952 l’Unione Sovietica partecipò per la prima volta alle Olimpiadi, sorprendendo il mondo con il successo e la forza muscolare delle sue atlete. Quell’anno le donne conquistarono 23 delle 71 medaglie vinte dall’Unione Sovietica, contro le otto vinte dalle statunitensi (gli Stati Uniti ottennero in tutto 76 medaglie). Negli anni sessanta, quando le Olimpiadi diventarono il nuovo fronte della guerra fredda, si diffuse la voce secondo cui le a-tlete del blocco orientale fossero in realtà uomini che nascondevano i genitali.
Alla fine degli anni sessanta, a causa delle proteste per i controlli dei genitali, la Iaaf e il Cio introdussero una nuova strategia di “verifica del sesso”: un test cromosomico. Le autorità lo consideravano un modo più dignitoso e obiettivo per allontanare non solo gli impostori ma anche le a-tlete intersessuali che, si diceva, dovevano essere squalificate per garantire la correttezza della competizione. Ewa Kłobukowska, una velocista polacca, fu una delle prime a essere squalificata dopo essersi sottoposta a questo test: a quanto pare aveva sia cromosomi XX sia XXY. Nel 1968 un editoriale pubblicato sulla rivista del Cio ribadiva che il test cromosomico “indica definitivamente il sesso di una persona”, ma molti genetisti ed endocrinologi non erano d’accordo, e sottolineavano che il sesso era determinato da una confluenza di fattori genetici, ormonali e fisiologici, e non da una sola di queste componenti.
Affidarsi alla scienza per stabilire il confine tra uomini e donne nello sport era insensato, dicevano, perché la scienza non poteva tirare una linea che la stessa natura si rifiutava di tracciare. Sostenevano anche che i test fossero discriminatori nei confronti di atlete con anomalie che non garantivano nessun vantaggio in gara. Inoltre quelle analisi traumatizzavano le donne che per tutta la vita erano state certe di essere femmine e all’improvviso si sentivano dire che non lo erano abbastanza.
Lontana dalla famiglia
Dutee Chand aveva solo quattro anni quando cominciò a correre insieme alla sorella Saraswati, una maratoneta che si allenava lungo le rive del fiume Brahmani. Saraswati trovava noioso fare sport da sola e aveva convinto la sorella, di dieci anni più piccola, a farle compagnia. Per anni Dutee ha corso a piedi nudi – anche sulle strade di fango e ciottoli del villaggio – perché doveva risparmiare il suo unico paio di scarpe: delle leggere infradito di gomma che i genitori, lo sapeva benissimo, non potevano permettersi di ricomprare.
Quando aveva sette anni i genitori cominciarono a farle pressioni perché smettesse di correre e imparasse a tessere. Ma Saraswati sosteneva che la sorella, con la sua velocità, avrebbe potuto guadagnare di più gareggiando. Saraswati, che oggi lavora nella polizia, fece notare ai genitori che anche lei, correndo, aveva portato dei benefici in famiglia: quando l’amministrazione distrettuale si era resa conto del suo potenziale sportivo, Saraswati – come altri atleti – aveva cominciato a ricevere carne, pollo e uova, tutti prodotti che la sua famiglia non aveva i soldi per comprare. E poi c’erano stati i premi in denaro, quando aveva ottenuto un buon piazzamento nelle maratone. Alla fine i genitori consentirono a Dutee di continuare a correre.
Nel 2006, a dieci anni, Dutee entrò in un programma sportivo sponsorizzato dallo stato a più di due ore di distanza da casa. La struttura forniva vitto, alloggio e pagava per gli allenamenti. La bambina sentiva la mancanza della famiglia ma apprezzava l’elettricità del dormitorio, l’acqua corrente e i bagni al coperto. Ed era contenta di poter inviare i soldi dei premi ai suoi genitori.
Dutee non lo sapeva, ma proprio in quel periodo un’altra velocista indiana stava vivendo una tragedia. Santhi Soundarajan, una ragazza di 25 anni del sud dell’India, era arrivata seconda negli 800 metri ai Giochi asiatici di Doha, in Qatar, un risultato reso ancora più incredibile dal fatto che la ragazza apparteneva ai dalit, gli intoccabili nella gerarchia delle caste indiane. Nel decennio precedente il Cio e la Iaaf avevano ceduto alle pressioni della comunità medica e scientifica e avevano smesso di imporre test di verifica del sesso a tutte le atlete. Ma quando c’era un’incertezza potevano ancora sottoporre l’atleta a un esame cromosomico, seguito da un test ormonale, una visita ginecologica e una valutazione psicologica.
Nel caso di Soundarajan, i mezzi d’informazione insistettero sul fatto che l’atleta non era semplicemente veloce ma aveva anche la voce profonda e il seno piatto. Il giorno dopo la sua gara l’Afi le prelevò un campione di sangue e la fece visitare. Ci furono delle fughe di notizie. Qualche giorno dopo Soundarajan apprese dalla tv che non aveva “superato” la verifica del sesso. Espulsa dalle federazioni sportive locali, privata della sua medaglia d’argento, tormentata dalle continue indagini e spaventosamente imbarazzata, tentò il suicidio ingerendo del veleno.
Chand stava cominciando a gareggiare a livello nazionale quando un’altra atleta di un villaggio povero, stavolta in Sudafrica, salì alla ribalta internazionale. Caster Semenya aveva battuto tutte le sue avversarie nella gara degli 800 metri ai campionati africani juniores, ma la sua prestazione aveva fatto nascere dei sospetti. Poco dopo, mentre si preparava per i Mondiali di atletica, le autorità sportive l’avevano sottoposta a un esame. Tutt’altro che preoccupata – pensava che si trattasse di un semplice test antidoping – Semenya era tornata a correre e aveva vinto la medaglia d’oro negli 800 metri ai Mondiali. Quasi immediatamente, i giornali diffusero la notizia che l’atleta era stata sottoposta a un test di verifica del sesso. Invece di partecipare alla conferenza stampa, Semenya si nascose. Il portavoce della Iaaf, Nick Davies, dichiarò che, se si fosse scoperto che aveva barato, Semenya rischiava di perdere la medaglia. E aggiunse: “Ma se è un fenomeno naturale e l’atleta ha sempre pensato di essere una donna, non è un vero e proprio imbroglio”.
Le avversarie, la stampa e i commentatori esaminarono attentamente il corpo di Semenya, sottolineando le sue presunte infrazioni: il fisico muscoloso, la voce profonda, le pose con i bicipiti contratti, le ascelle non rasate, i pantaloncini lunghi con cui correva e, soprattutto, la sua straordinaria velocità. Una delle avversarie di Semenya, l’italiana Elisa Cusma, che era arrivata sesta, dichiarò: “Queste persone non dovrebbero correre con noi. Secondo me non è una donna. È un uomo”. La velocista russa Marija Savinova si limitò a dire: “Basta guardarla” (in seguito l’agenzia mondiale antidoping avrebbe accusato Savinova di usare sostanze per migliorare le prestazioni sportive, chiedendone la squalifica a vita). Pierre Weiss, segretario generale della Iaaf, disse di Semenya: “È una donna, ma forse non al 100 per cento”. A differenza dell’India, il Sudafrica presentò alle Nazioni Unite una denuncia per violazione dei diritti umani sostenendo che i test a cui la Iaaf aveva sottoposto Semenya erano “sessisti e razzisti”. In seguito l’atleta avrebbe scritto in una dichiarazione: “Sono stata sottoposta a un esame ingiustificato e invasivo dei dettagli più intimi e privati del mio essere”.
Dopo quasi un anno di negoziati (i cui dettagli non sono stati resi pubblici), nel 2010 la Iaaf autorizzò Semenya a correre, e nelle Olimpiadi del 2012 l’atleta vinse la medaglia d’argento. Correrà anche alle Olimpiadi di Rio de Janeiro del 2016. Ma la federazione rischiava ancora la condanna per fuga di notizie, per diffamazione e per le verifiche sul sesso delle atlete. La Iaaf sosteneva di dover proteggere le atlete che si trovavano a “gareggiare contro avversarie che nelle prestazioni sportive hanno vantaggi di natura ormonale comunemente associati agli uomini”. Nel 2011 l’associazione annunciò che avrebbe abbandonato ogni riferimento alla “verifica del sesso” o alla “politica sull’identità sessuale”. Avrebbe però introdotto un test per iperandrogenismo (alto livello di testosterone) nel caso in cui ci fossero “elementi ragionevoli per credere” che una donna presentasse questa condizione. Le donne con un livello di testosterone che rientrava nella “gamma maschile” sarebbero state squalificate. Con due eccezioni: se una donna era resistente agli effetti del testosterone o se una donna riduceva il livello di questo ormone. Un risultato che poteva essere ottenuto facendosi asportare chirurgicamente i testicoli non scesi o assumendo farmaci soppressori.
“Mi sentivo nuda. Sono un essere umano, ma avevo la sensazione di essere un animale. Mi chiedevo come avrei potuto vivere”
Secondo un articolo pubblicato nel 2013 dal Journal of Clinical Endocrinology & Metabolism, qualche tempo dopo l’entrata della nuove linee guida le autorità sportive chiesero a quattro atlete provenienti da “regioni rurali o montagnose di paesi in via di sviluppo” di recarsi in un ospedale francese per ridurre il loro livello di testosterone. Nell’articolo gli autori, tra cui i medici che avevano seguito quelle atlete, raccontano di aver spiegato alle donne che mantenere i testicoli interni “non comportava rischi per la salute”, ma rimuovendoli potevano tornare a gareggiare, anche se forse le loro prestazioni ne avrebbero risentito. Le donne, tutte fra i 18 e i 21 anni, accettarono di sottoporsi alla procedura. I medici raccomandarono alle donne anche di ridurre chirurgicamente i loro clitoridi per farli apparire nella norma. L’articolo non precisa se i medici dissero alle pazienti che quell’intervento avrebbe potuto pregiudicare le loro sensazioni durante i rapporti sessuali, ma spiega che le donne acconsentirono.
Chand non conosceva la storia di Semenya e di altre atlete intersessuali. Le sue preoccupazioni legate all’essere donna erano molto più dirette: vedeva le sue coetanee che diventavano più formose e le sentiva parlare delle mestruazioni. Chiese alla madre perché a lei non succedesse niente e accettò la sua risposta: il suo corpo sarebbe cambiato al momento giusto.
Nel 2012 Chand entrò in un programma di allenamento nazionale, che oltre a vitto e alloggio assicurava un compenso in denaro. A 16 anni diventò campionessa nazionale nella categoria under 18, vincendo i 100 metri con un tempo di 11,8 secondi. L’anno dopo vinse la medaglia d’oro nei 100 e nei 200 metri. E poi, nel giugno del 2014, quell’oro ai campionati asiatici di Taipei.
Qualche giorno più tardi ricevé la telefonata in cui veniva convocata a Delhi per sottoporsi alle analisi. Quando arrivarono i risultati, i funzionari le dissero che poteva rientrare in nazionale solo se avesse ridotto il suo livello di testosterone, e che per un anno non avrebbe potuto gareggiare. I dettagli del test non furono resi pubblici, ma i giornali entrarono in possesso della notizia e scrissero che Chand non aveva superato “la verifica del sesso” e che non era una donna “normale”. Chand pianse inconsolabilmente per giorni. Si rifiutava di bere e di mangiare. “Nei notiziari qualcuno sosteneva che ero un ragazzo e altri dicevano che forse ero un transessuale”, racconta. “Mi sentivo nuda. Sono un essere umano, ma avevo la sensazione di essere un animale. Mi chiedevo come avrei potuto vivere dopo una tale umiliazione”.
Quando si diffuse la notizia che Chand era stata esclusa dalla squadra nazionale, gli avvocati le dissero di non arrendersi. Payoshni Mitra, una ricercatrice indiana con un dottorato su questioni di genere nello sport e attivista che aveva difeso la causa di altre atlete intersessuali, consigliò a Chand di chiedere all’Afi di revocare la squalifica. “Non mi sono dopata e non ho imbrogliato”, scrisse Chand in hindi. Mitra, che poi il governo avrebbe nominato consulente della ragazza, tradusse la lettera in inglese. “Non riesco a capire perché mi si chieda di modificare il mio corpo in un certo modo solo per partecipare come donna. Sono nata donna, sono stata educata da donna, mi sento donna e credo che dovrei poter gareggiare con altre donne, che spesso sono più alte di me o sono cresciute in ambienti privilegiati, cose che sicuramente assicurano un vantaggio”.
Mitra convinse anche la ragazza a portare il suo caso al Tribunale arbitrale dello sport (Tas), la corte suprema per le controversie nello sport, sostenendo che le linee guida della Iaaf sul testosterone erano discriminatorie e andavano cancellate.
Vantaggi competitivi
Nel marzo 2015 una commissione composta da tre giudici ha esaminato per quattro giorni il caso di Chand, ascoltando sedici testimoni tra cui scienziati, responsabili delle autorità sportive e atlete.
Le atlete, non solo quelle intersessuali, si chiedevano se il caso di Chand avrebbe inciso sulla loro vita. All’udienza Paula
Radcliffe, la maratoneta britannica che detiene il record mondiale in questa specialità, ha testimoniato per la Iaaf, sostenendo che livelli di testosterone elevati “falsano la competizione più di quanto possano fare il talento naturale e l’impegno”. E ha aggiunto: “Resta il timore che i loro corpi rispondano in modo diverso all’allenamento e alla corsa, con più forza rispetto alle donne con livelli di testosterone normali, e che per questo la competizione diventi sostanzialmente sleale”.
Madelaine Pape, un’australiana che aveva partecipato alle Olimpiadi del 2008, ha testimoniato a favore di Chand. Pape era stata sconfitta da Caster Semenya ai Mondiali del 2009, l’ultima gara dell’atleta sudafricana prima che i risultati della verifica del sesso fossero resi pubblici. Pape aveva sentito le compagne accusare Semenya di essere un uomo o di avere vantaggi paragonabili a quelli degli uomini, ed era arrabbiata per l’apparente facilità con cui Semenya riusciva a vincere. “All’epoca pensai che le persone come Semenya non dovevano poter gareggiare”, mi dice Pape. Ma nel 2012 ha cominciato un dottorato di sociologia sulle donne nello sport. “Lasciata alle spalle l’attività agonistica, ho avuto modo di riflettere più criticamente su questi problemi”, mi spiega. “All’epoca non sapevo che sul tema delle differenze sessuali esistesse un dibattito scientifico estremamente acceso, con posizioni che sono cambiate nel tempo. Anche i regolamenti sportivi sono cambiati, ma la situazione non è migliorata”.
Non è ancora chiaro quale ruolo abbia il testosterone nell’aumentare le prestazioni sportive. Al Tas entrambe le parti erano d’accordo sul fatto che il testosterone sintetico – doping con steroidi anabolizzanti – rafforza effettivamente le capacità atletiche, aiutando gli atleti a saltare più in alto e a correre più velocemente. Ma i punti di vista erano molto distanti quando si trattava di dire se il testosterone prodotto dal corpo avesse lo stesso effetto.
Secondo i testimoni della Iaaf, la logica suggeriva che il testosterone naturale potesse agire come il suo gemello sintetico. I testimoni di Chand hanno obiettato che, se anche questi effetti potenziali fossero stati dimostrati, il testosterone da solo non sarebbe bastato a spiegare la percentuale troppo elevata di campionesse intersessuali. Dopo tutto, molte atlete con cromosomi XY avevano livelli di testosterone bassi o cellule prive di recettori di androgeni. Alle Olimpiadi di Atlanta del 1996 – una delle poche occasioni in cui il Cio consentì la pubblicazione di dati dettagliati sulle atlete intersessuali – sette delle otto donne a cui fu trovato il cromosoma Y risultarono insensibili agli androgeni: il loro corpo non poteva usare il testosterone che produceva. Alcuni genetisti ipotizzano che quei dati dipendono da un gene del cromosoma Y che aumenta la statura. L’altezza è chiaramente un vantaggio in molte discipline sportive, ma questo sicuramente non è il caso di Chand.
In tribunale la Iaaf ha ammesso che i livelli di testosterone naturale degli uomini non sono regolamentati perché non è provato che gli uomini con un testosterone eccezionalmente alto abbiano un vantaggio in gara. Incalzati dagli avvocati di Chand, i rappresentanti della Iaaf hanno anche riconosciuto che nessuna ricerca scientifica ha mai dimostrato che livelli insolitamente alti di testosterone naturale determinano prestazioni eccezionali nello sport femminile. E nessuno studio ha documentato che le donne con un livello di testosterone naturale associabile alla “gamma maschile” hanno un vantaggio paragonabile a quello che gli atleti maschi di alto livello tipicamente hanno sulle atlete femmine di alto livello nelle stesse discipline (un vantaggio atletico del 10-12 per cento). Di fatto, gli stessi testimoni della Iaaf stimavano che il vantaggio delle donne con testosterone alto fosse tra l’1 e il 3 per cento, e la corte ha abbassato il limite del 3 per cento perché si basava su dati limitati e non pubblicati.
Secondo i giudici, chiedere alle donne di trasformare il loro corpo per continuare a gareggiare è un’ingiustificabile discriminazione
I testimoni di Chand hanno anche fatto notare che secondo la scienza esistono più di 200 anomalie che possono garantire specifici vantaggi in gara, come una maggiore capacità aerobica, resistenza alla fatica, arti eccezionalmente lunghi, articolazioni flessibili, mani e piedi grandi e un maggior numero di fibre muscolari a contrazione rapida: tutti fattori che rendono illusoria l’idea di un’assoluta parità di condizioni e che, se presenti fin dalla nascita, non sono soggetti a regolamentazione.
Ma la causa di Chand non si è occupata solo di testosterone. Implicitamente ha messo in discussione decenni di implacabili indagini sulle atlete, soprattutto quelle di maggior successo. La canadese Veronica Brenner, che alle Olimpiadi invernali del 2002 vinse l’argento nello sci acrobatico, mi racconta di aver scoperto l’esistenza di un test di verifica del sesso ai giochi invernali del 1998 a Nagano, in Giappone. “Quando me lo dissero risposi: ‘State scherzando? Faccio gare da una vita e nessuno ha mai messo in discussione il fatto che io sia una donna!’”. Il test confermò che Brenner aveva cromosomi XX e le fu rilasciata quella che viene comunemente chiamata “carta di femminilità”. Ma lei trovava insopportabile che, nonostante i molti progressi fatti dalle atlete negli ultimi cinquant’anni, i grandi campioni fossero osannati mentre le grandi campionesse fossero viste con sospetto. “Si sentono continuamente commenti tipo: ‘È davvero forte. Dev’essere un mezzo maschio’”.
Per alcuni il test del testosterone non è altro che la vecchia “verifica del sesso”, l’ultimo sforzo per allontanare le donne che non rientrano nelle norme sull’identità sessuale o non hanno il tipico corpo femminile. Katrina Karkazis, esperta di bioetica dell’università di Stanford, in California, e attiva nella campagna internazionale contro la squalifica delle atlete intersessuali, spiega che se l’analisi degli androgeni indica un alto livello di testosterone, l’atleta deve comunque sottoporsi a un visita ginecologica: “La logica del regolamento della Iaaf sull’iperandrogenismo è far sembrare questi esami più giustificabili dal punto di vista scientifico e meno discriminatori, ma in realtà non è cambiato nulla rispetto al passato. Il test è ancora basato su idee di sesso e genere rigidamente binarie”.
Chi critica il regolamento della Iaaf sostiene che, se fosse davvero preoccupata per la correttezza sportiva, l’organizzazione smetterebbe di fare controlli su un gruppo ristretto di donne con alti livelli di testosterone naturale e indagherebbe in modo serio sugli atleti sospettati di usare sostanze che sicuramente migliorano le prestazioni. Nell’ultimo anno la Iaaf è stata accusata di aver deliberatamente ignorato centinaia di analisi del sangue sospette.
Verso Rio
A luglio del 2015 il Tas ha emesso la sentenza per il caso di Dutee Chand. I tre giudici della commissione hanno affermato che, anche se il testosterone naturale può avere un ruolo sulle prestazioni atletiche, non sappiamo ancora quale sia esattamente questo ruolo e quale influenza possa avere. Così i giudici hanno concluso che il regolamento della Iaaf non è giustificato dalle attuali conoscenze scientifiche: “Anche se ci sono indicazioni che livelli più alti di testosterone naturale possano migliorare la prestazione atletica, la commissione non è convinta che la portata di questo vantaggio sia più significativa di quella derivante dalle numerose altre variabili che influenzano la prestazione atletica femminile, come l’alimentazione, l’accesso a strutture di allenamento specialistico e altre variazioni genetiche e biologiche”.
I giudici hanno concluso che chiedere a donne come Chand di trasformare il loro corpo per continuare a gareggiare comporta una discriminazione ingiustificabile. La commissione ha sospeso il regolamento sui test di verifica del sesso fino a luglio del 2017 per dare alla Iaaf il tempo di dimostrare che l’entità del vantaggio agonistico di cui godono le donne con un alto testosterone naturale è paragonabile al vantaggio maschile. Se la Iaaf non fornirà queste prove, ha detto la corte, il regolamento “sarà dichiarato nullo”. Era la prima volta che il Tas revocava l’intera politica di un organismo sportivo.
Chand era elettrizzata: “Non si tratta soltanto di me”, ha detto, “ma di tutte le donne come me che vengono da posti difficili. Sono per lo più le persone povere che si dedicano alla corsa, persone che sanno di poter avere vitto, alloggio e un lavoro se corrono bene. Le persone più ricche possono pagare per diventare medici, ingegneri; i poveri non sanno nemmeno quali problemi di salute li attendono”.
Chand sperava che la decisione della corte avrebbe spinto anche il Cio a sospendere il suo regolamento sul testosterone, così lei avrebbe potuto provare a qualificarsi per le Olimpiadi di Rio de Janeiro (che cominceranno il 5 agosto). Dopo tutto la linea del Cio, che invitava i comitati olimpici nazionali a “indagare su ogni deviazione percepita nelle caratteristiche sessuali”, si basava sugli stessi dati scientifici che il Tas aveva decretato insufficienti.
Nel novembre del 2015 il Cio ha stabilito nuovi parametri per affrontare la questione dell’identità sessuale, ma non ha mai veramente discusso se sospendere la sua politica sul testosterone. Questa ambiguità lasciava le atlete intersessuali in un limbo. Poi, alla fine di febbraio del 2016, il comitato ha dichiarato che non avrebbe regolamentato i livelli di testosterone naturale delle donne “finché le questioni ancora aperte” non fossero state risolte, sollecitando di fatto l’Iaaf a trovare le prove entro la scadenza fissata dalla corte, così da ripristinare il regolamento sospeso dal Tas. E ha aggiunto che, per evitare discriminazioni, le donne con testosterone alto ritenute non idonee a partecipare alle gare femminili avrebbero dovuto poter gareggiare con gli uomini. I difensori delle donne intersessuali sono rimasti senza parole. “È ridicolo”, ha detto Payoshni Mitra. “Dicono che questo regolamento non serve a verificare il sesso di una persona, ma poi affermano che una donna iperandrogenica può gareggiare con gli uomini, considerandola implicitamente un uomo. E questo riporta indietro il dibattito sull’identità sessuale di un’atleta, umiliandola pubblicamente”. Emmanuelle Moreau, responsabile dei rapporti del Cio con i mezzi d’informazione, non è d’accordo e ha scritto in un’email: “È una questione d’idoneità, non di genere o sesso biologico”.
Un centesimo di secondo
Una sezione separata delle linee guida del Cio in materia di genere è dedicata a un altro gruppo di donne (e uomini): gli atleti transessuali. A differenza della parte dedicata alle intersessuali, la sezione sulle persone transessuali sottolinea l’importanza dei diritti umani e della lotta alle discriminazioni. Il Cio ha cancellato gran parte dei requisiti precedentemente imposti agli a-tleti transessuali, tra cui quello di sottoporsi a un intervento per la rimozione di ovaie o testicoli e per fare in modo che i genitali esterni corrispondessero alla loro identità di genere. Secondo le nuove linee guida, gli atleti transessuali (da donna a uomo) non sono sottoposti a limitazioni di nessun tipo; invece le atlete transessuali (da uomo a donna) hanno alcune restrizioni, tra cui l’obbligo di abbassare i livelli di testosterone al di sotto della “gamma maschile”. Inoltre, una volta che si sono dichiarate donne, non possono cambiare nuovamente sesso per almeno quattro anni se vogliono gareggiare.
In mancanza di prove scientifiche del fatto che un livello di testosterone nella “gamma maschile” assicuri effettivamente un vantaggio, a detta di alcuni commentatori è prematuro elaborare un regolamento basandosi sulle ipotesi, soprattutto se questo regolamento impone alle persone di modificare il loro corpo. A maggio il Centro canadese per l’etica nello sport, che dirige il programma antidoping del paese ed elabora standard etici, ha emesso delle linee guida sulle persone transessuali per tutte le organizzazioni sportive del Canada. Nel testo si legge che le politiche sull’idoneità degli atleti, come quelle relative agli ormoni, dovrebbero essere sostenute da validi dati scientifici. “Non ci sono prove che indicano se, e in che misura, i livelli di ormoni garantiscano sistematicamente un vantaggio competitivo”. Eppure è difficile immaginare che molte atlete accettino facilmente l’idea di competere con avversarie transessuali senza l’adozione di simili regolamenti.
Queste discussioni sono lontane dai pensieri di Chand. Ora la ragazza punta soprattutto a ricavare il massimo dalla finestra concessa dalla sentenza del Tas: qualificarsi per le Olimpiadi di Rio senza dover cambiare il suo corpo. Nei difficili mesi seguiti alla pubblicazione dei risultati delle sue analisi, Chand ha perso il ritmo degli allenamenti e la concentrazione. Ma dopo la sentenza è rientrata nella nazionale indiana e ha intensificato gli allenamenti per i 100 metri, i 200 e la staffetta 4x400. Oltre ad allenarsi sei ore al giorno, cerca di riposarsi con dei pisolini e di distrarsi su Facebook. Ha viaggiato in molti paesi per partecipare alle qualificazioni: a marzo ha gareggiato in India, Cina e Taiwan, a giugno in Kazakistan e Kirghizistan.
È dolorosamente consapevole del fatto che , se non riuscirà a partecipare alle Olimpiadi di Rio, potrebbe non avere un’altra occasione. La Iaaf potrebbe ancora presentare prove che soddisfino il Tas e che impedirebbero alle donne come lei di gareggiare senza modificare il loro corpo. La sua migliore opportunità di qualificarsi per Rio è nei 100 metri, che deve completare in 11,32 secondi, o meno. Le manca ancora un centesimo di secondo.
Il 25 giugno 2016 Dutee Chand si è qualificata per le Olimpiadi di Rio, correndo i 100 metri in 11,31 secondi ad Almaty, in Kazakistan, e battendo il record indiano.
(Traduzione di Gigi Cavallo)
Questo articolo è uscito il 22 luglio 2016 nel numero 1163 di Internazionale. L’originale era uscito sul New York Times Magazine, con il titolo The humiliating practice of sex-testing female athletes.
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