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crive Antonio Gramsci in una delle pagine dei Quaderni dal carcere che più ha influenzato la generazione del “lungo viaggio attraverso il fascismo”, quella di Enrico Berlinguer: “Può esistere politica, cioè storia in atto, senza ambizione? ‘L’ambizione’ ha assunto un significato deteriore e spregevole per due ragioni principali: 1) perché è stata confusa l’ambizione (grande) con le piccole ambizioni; 2) perché l’ambizione ha troppo spesso condotto al più basso opportunismo, al tradimento dei vecchi principii e delle vecchie formazioni sociali che avevano dato all’ambizioso le condizioni per passare a servizi più lucrativi e di più pronto rendimento”.

Un leader politico, secondo Gramsci, deve essere ambizioso, ma la sua ambizione deve essere “grande” perché solo così rispetta, senza alcun tornaconto personale, le persone che l’hanno messo nella posizione in cui si trova. Per i suoi seguaci un capo senza ambizione non è un capo, ma un elemento pericoloso, un inetto o un vigliacco. Per questo deve compiere scelte difficili e puntare al governo e non all’opposizione, considerata come fine a se stessa, e deve farlo proprio perché rispetta il mandato di chi l’ha messo lì, nel caso del Partito comunista italiano (Pci), la classe operaia.

Lo sguardo di Berlinguer

Volendo raccontare gli anni del compromesso storico, cioè il tentativo del Pci di Berlinguer di uscire dalle secche di un’opposizione destinata a durare per sempre (per via della collocazione internazionale dell’Italia), un estratto da questa citazione di Gramsci messa all’inizio del film di Andrea Segre, La grande ambizione, è una premessa indispensabile per capire il resto: “Di solito si vede la lotta delle piccole ambizioni, legate a singoli fini privati, contro la grande ambizione, che è invece indissolubile dal bene collettivo”.

Il film sembra quasi una messa in scena di questa pagina dei Quaderni, che ha segnato non solo le scelte dei comunisti degli anni settanta ma anche la successiva lettura dei loro atti politici. Un azzardo non da poco abbracciarla.

Ma La grande ambizione dichiara di voler raccontare nient’altro che le ragioni di Berlinguer, lo sguardo di Berlinguer, perfino gli abbagli di Berlinguer (l’attentato in Bulgaria, su cui non ci sono certezze ma che per certo Berlinguer vive come tale, l’incomprensione per il movimento del settantasette eccetera). Segre sceglie, dunque, in modo consapevole una “linea politica”, la dichiara addirittura, grazie a quella citazione di Gramsci da cui tutto inizia.

La chiarezza quasi didascalica con cui il regista compie questa operazione dovrebbe essere sufficiente per smontare alcune critiche al film, come quella di Nanni Moretti che, un po’ ironicamente e un po’ no, ha detto che se Segre avesse avuto vent’anni nel 1973 sarebbe stato contrario, ferocemente contrario, al compromesso storico.

Però La grande ambizione non è un film in cui si tirano le somme di un vissuto personale e politico come nel caso di Il sol dell’avvenire o di Santiago, Italia, per parlare di due opere recenti di Nanni Moretti. Il film è stato scritto e interpretato da chi negli anni settanta non c’era o se c’era era troppo piccolo, e ha scelto, tra le varie ipotesi interpretative di una stagione lontana, quella che lo convince di più. Può piacere, non piacere, ma è così. La memoria non c’entra niente con questa opera, l’identità dei comunisti nemmeno, c’è solo la storia, che non significa “le cose come sono andate veramente” (una pretesa che non ha la storiografia, quantomeno la migliore, figuriamoci il cinema), ma “i fatti come li riusciamo a raccontare” a partire dalle fonti che decidiamo di usare.

Con altre fonti, anche semplicemente testimoniali, la storia raccontata sarebbe stata un’altra, come ha notato Luciana Castellina, ma – ancora una volta – questo non significa che Segre abbia sbagliato, significa che ha scelto.

Senza alcuna pretesa di esaustività, offre un punto di vista stretto su una figura che nella storia d’Italia è stata molto amata, anche molto odiata, e comunque mal sopportata dai tanti che continuano ad accusare Berlinguer di essere stato il meno comunista tra i segretari del Partito comunista italiano, colui che avrebbe portato il Pci alla sconfitta, all’irrilevanza degli anni a venire, il responsabile della fermezza, del 7 aprile, l’alleato di Cossiga nella repressione del movimento del settantasette, e tanto altro ancora.

L’accuratezza storica

Il periodo raccontato da La grande ambizione va dal 1973 al 1978, che per i comunisti italiani coincide con l’ipotesi del compromesso storico, un progetto di alleanza con la Democrazia cristiana (Dc), partito la cui maggioranza relativa viene messa fortemente in crisi dall’avanzata del Pci dopo il 1968. Uno dei più discussi tra i progetti politici del dopoguerra, sia mentre è in atto sia in seguito nel dibattito pubblico che ha costruito la memoria di quegli anni, soprattutto dopo il 1991, quando il Pci ha cambiato nome.

Si apre con i volti sorridenti dei sostenitori di Salvador Allende in Cile, un estratto dal film Cile 1972 di Monica Maurer. Una gioia subito spazzata via dai caccia che l’11 settembre 1973 bombardano La Moneda, portando al potere il dittatore Augusto Pinochet. Dietro l’operazione militare ci sono gli Stati Uniti e la volontà di non far passare governi di sinistra in America Latina, quello che ancora, a centocinquant’anni da quando l’aveva detto il presidente James Monroe, era considerato “il cortile di casa”.

La scelta iniziale è d’obbligo, non tanto perché quello di Allende è un governo socialista particolarmente amato dal segretario comunista Berlinguer, quanto perché, dopo la strage di piazza Fontana del 12 dicembre 1969 (anche se questo nel film non c’è né viene evocato) il timore di un colpo di stato, di una soluzione autoritaria sul modello greco di fronte all’avanzata delle sinistre in Italia, è diffuso al punto che dopo la vittoria del fronte popolare cileno, Berlinguer decide che l’unico modo per governare, evitando una Moneda italiana, è farlo con la Dc.

Ripeto Dc, anche se nell’ipotesi di compromesso storico la presenza e l’alleanza con il Partito socialista italiano (Psi) sono centrali, ma questo il film non lo approfondisce. Il Partito socialista è evocato, ma i socialisti non ci sono mai (giusto il presidente della repubblica Sandro Pertini, che ormai vediamo solo ai funerali in tutti i film o documentari che ricostruiscono quel decennio).

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E questo è il punto cruciale di ogni ricostruzione storica cinematografica: un film non è un’enciclopedia, un compendio, il Bignami per immagini di un fatto storico (per questo è così rischioso usare i film per sostituire la lezione di storia). Un film risponde alla domanda che si fa chi lo scrive, alle sue intenzioni, non alle aspettative, i pregiudizi, le convinzioni giuste perché fondate su esperienze personali, di chi lo guarda. Dunque che film è La grande ambizione?

È un film storico. Una banalità. Però cosa ci aspettiamo da un film storico? Non che dica tutto, ma che abbia un punto di vista. E questo il film di Segre ce l’ha chiaro, come abbiamo detto. Non finge di essere vero, anche se usa repertorio e documenti, perché da un’altra prospettiva la stessa storia potrebbe essere raccontata in un altro modo e questo il film lo dice quando dà voce ai figli di Berlinguer, ai compagni di partito, agli operai nelle fabbriche, al movimento del settantasette.

Da un film storico ci aspettiamo anche dialoghi all’altezza del progetto che ha in mente, e questo il film lo fa bene quando il piano è quello politico, ma è meno efficace quando entra nel privato. Forse con un budget diverso avremmo avuto dei flashback, invece di costringere gli attori a dialogare intorno a episodi del passato di Berlinguer come quello della madre malata, che il segretario del Pci ha perso da bambino. Non basta il bravissimo Elio Germano a non far notare quanto sia un espediente per colmare un vuoto.

In compenso tutti gli attori e le attrici sono bravi, anche i volti di chi appare nella folla non tradiscono quasi mai il fatto di essere a noi contemporanei. Belli i costumi, belle le ambientazioni, perfetta la giustapposizione di girato e di archivio.

Un archivio in gran parte mai visto anche da chi, come me, da anni lavora sui documentari di montaggio. Bravissimo Daniele Ongaro, ricercatore che negli ultimi anni ha portato alla luce pezzi dimenticati della nostra storia televisiva e documentaristica, come alcuni film girati da registi vicini al Pci o per conto del partito stesso e oggi conservati all’Archivio audiovisivo del movimento operaio e democratico (Aamod). Sequenze che raccontano la controstoria visiva d’Italia, fatta di immagini che non troviamo negli archivi Rai o del Luce da cui vengono invece le immagini che vediamo di solito (anche se pure lì ci sarebbe ancora molto da scavare).

Nostalgia e politica

La grande ambizione, poi, è un film dove si piange, questo l’hanno detto in molti. Segno che il film piace e funziona (come disse Goffredo Fofi quando lesse La storia di Elsa Morante: qui si piange). Ma non si piange solo di nostalgia, come alcuni hanno sostenuto un po’ infastiditi invitando a “seppellire il cadavere” di Berlinguer. Senza dubbio c’è chi ha pianto per nostalgia, perché magari con Berlinguer ha lasciato indietro anche la giovinezza. Ma c’è anche chi, vedendolo, ha pianto per gratitudine di fronte alla scelta di stare dalla parte delle persone che, nelle baracche, decidono di occupare un campo destinato alla speculazione edilizia sulla via Tiburtina, a Roma. Dalla parte di chi chiede ragione della persecuzione di Sacharov e dell’alleanza con una Dc che è sempre stata dalla parte dei padroni e mai degli operai. Momenti diversi e complementari di una storia di cui essere grati, così come siamo grati a chi ha portato il primo bambino disabile in una scuola, a chi ha restituito gli oggetti personali ai ricoverati negli ospedali psichiatrici, a chi ha deciso di non usare i voti a scuola per punire e escludere. Non perché queste cose non ci siano più, ma proprio perché ci sono ancora oggi e ci scalda il cuore vedere da dove vengono.

Poi, certo, si piange anche ai funerali di Berlinguer, ma credo non sia un peccato piangere a un funerale pure se il morto è morto tanti anni fa. Parafrasando Pinocchio, se si piange vuol dire che il morto è morto e ci dispiace.

La grande ambizione è anche un film dove si fuma, si fuma moltissimo, fuma soprattutto Letizia Laurenti, la moglie di Berlinguer, il cui personaggio interpretato da Elena Radonicich rappresenta bene la solitudine delle mogli dei funzionari anche in quel gesto di accendersi una sigaretta. La sua scena più bella è forse quella in cui sola, nella cucina di casa, viene a sapere della morte di Aldo Moro. Quello sì un punto di vista inedito, anche se comune a chissà quante donne, mogli di funzionari di partito o militanti, su uno dei fatti più raccontati della storia d’Italia.

A proposito di fatti (e personaggi) già largamente raccontati, La grande ambizione è un film che mette in scena Aldo Moro e Giulio Andreotti, due figure che abbiamo spesso visto sullo schermo negli ultimi anni e infatti non ci sono grandi sorprese. Andreotti è simpatico, Moro è un martire predestinato, ma la loro caratterizzazione ormai tradizionale fa venire in mente per contrasto quanto antipatico appare Enrico Berlinguer in Esterno notte di Marco Bellocchio (2022) e quanto invece Segre in questo film riesce a rovesciarne la rappresentazione.

È vero, come ha notato ancora una volta Castellina, ma non solo, che vedendo il film non si capisce perché un italiano su tre votasse comunista: il rapporto di Berlinguer con la base del partito e con chi votava il partito non emerge dal film in tutta la sua originalità. Così come è vero che chi non sa niente di questa storia potrebbe pensare che la Cia, i servizi segreti statunitensi, siano stati gli unici responsabili della fine del progetto del compromesso storico e della morte stessa di Aldo Moro.

Ma ancora una volta viene da rispondere: possiamo chiedere a Segre di fare da solo quello che avrebbero potuto fare, e non hanno fatto, scrittori, giornalisti, autori televisivi negli ultimi quarant’anni?

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Invece dell’ennesimo film, romanzo, serie su Moro e il terrorismo, aspettiamo allora la storia degli anni che vanno dal 1978 al 1984. Berlinguer ai cancelli della Fiat, il terremoto dell’Irpinia, i fischi dei socialisti al leader comunista al congresso del Psi nel maggio 1984.

Tante storie ancora da raccontare per chi vorrà farlo, grazie intanto ad Andrea Segre per aver in qualche modo cominciato e grazie Elio Germano per la sua interpretazione.

Nel film Berlinguer è spesso con i figli, ai figli spiega tutto, non perché sia buono, non perché sia speciale. Certo, senza dubbio lo è, ma la sua è una scelta politica, una grande ambizione, quella di insegnare ai bambini “non le piccole virtù ma le grandi”. Da quando Ada Gobetti ha fondato il suo Giornale dei genitori, da quando Lucio Lombardo Radice ha tradotto i Consigli ai genitori del pedagogista sovietico Makarenko, da quando Gianni Rodari ha scritto Tra noi padri, prefazione al Libro degli errori, da quando Ivan Della Mea ha composto nel 1966 O cara moglie, i comunisti, le comuniste, ai figli e alle figlie parlano di politica. Non importa il loro livello di istruzione. E averlo ricordato è un merito ulteriore del film. ◆

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