La scorsa settimana alcune città nella regione Amhara, nell’Etiopia settentrionale, sono state bloccate da proteste di massa. Gli studenti hanno portato in piazza la loro frustrazione per il massacro di centinaia di civili avvenuto lo scorso 18 giugno. Le proteste sono cominciate nella capitale Addis Abeba il 25 giugno, proseguendo fino al 1 luglio con manifestazioni più grandi nelle città di Gondar e nel capoluogo della regione Amhara, Bahir Dar.
I manifestanti hanno denunciato le uccisioni e criticato l’incapacità del governo di porre un freno alle violenze etniche. “Sono andato alla manifestazione perché non ne posso più delle violenze contro donne e bambini”, ha detto Geremew Habtemariam, studente di Bahir Dar che ha partecipato alle proteste. “In alcune parti del paese appartenere all’etnia amhara sta diventando una condanna a morte”. Qualche giorno dopo le proteste è emersa la notizia di un altro massacro di civili avvenuto nella regione dell’Oromia il 4 luglio.
La tragedia che ha scatenato la protesta risale alla metà di giugno, quando uomini armati hanno ucciso centinaia di persone nel distretto di Gimbi della regione dell’Oromia, 380 chilometri a ovest di Addis Abeba. Le vittime erano tutte amhara, il secondo gruppo etnico dell’Etiopia. Secondo i testimoni, le uccisioni sono cominciate di mattina proseguendo senza tregua fino alle quattro del pomeriggio.
Qualche settimana dopo, Abdu Ahmed, un padre in lutto, racconta quanto la perdita delle due figlie adolescenti Hayat e Birtukan lo abbia distrutto. “Sparavano a tutti, perfino ai bambini e agli anziani”, ha raccontato al telefono. “Che genere di pazzo spara a bambine indifese?”. “Personalmente ho perso il conto del numero di cadaveri che ho seppellito”, racconta Ali Said, un sopravvissuto. “Molti sono stati uccisi da un colpo di arma da fuoco o dalle fiamme, ma ho trovato anche cadaveri di persone uccise a colpi di ascia”.
Durante una conferenza stampa il 7 luglio, Billene Seyoum, la portavoce del primo ministro etiope Abiy Ahmed, ha riferito ai giornalisti che in quel momento le vittime accertate erano 338. A compiere il massacro sarebbero stati i combattenti dell’Esercito di liberazione oromo (Ola). Anche Abiy ha condannato le violenze, dichiarando “tolleranza zero” da parte del suo governo per l’uccisione di civili. Il gruppo ribelle dell’Ola, in guerra con l’esercito federale dal 2019, controlla alcune aree della regione ma ha negato qualsiasi coinvolgimento negli attacchi contro i civili. Ha accusato Addis Abeba di aver sfruttato alcuni ex membri dell’Ola per compiere i massacri.
Qualche giorno dopo le stragi un sorridente Abiy e decine di altri funzionari governativi hanno partecipato alla cerimonia di inaugurazione della campagna sull’“eredità verde”, lanciata per incoraggiare la popolazione a piantare alberi per salvaguardare l’ambiente. Gli organi di comunicazione statali e lo stesso primo ministro hanno incoraggiato gli utenti dei social network ad adottare gli hashtag della campagna per promuoverla. Per gran parte della scorsa settimana, però, tra gli utenti etiopi di TikTok e Twitter gli hashtag della campagna sono stati surclassati. Un altro hashtag ha preso piede, “eredità rossa”, in riferimento al recente massacro. Sui social network molti hanno caricato foto in cui si ritraggono con cartelli con l’hashtag in solidarietà ai manifestanti.
Frustrazione alle stelle
Secondo Tedros Tirfe, presidente dell’organizzazione statunitense Amhara association of America, la frustrazione tra gli etiopi, e in particolare tra gli amhara, è ormai alle stelle. “Abiy ha dimostrato molto presto di non voler dare ascolto alle difficoltà degli amhara, ritenendo la crescita del loro movimento un problema”, ha riferito. “Gli amhara hanno più volte denunciato la sua negligenza, la sua incapacità e la sua complicità nei massacri. I giovani protestano per chiedere le sue dimissioni da primo ministro e la protezione degli amhara che vivono fuori della loro regione”. Un altro contenuto di tendenza tra gli etiopi è stato il nuovo singolo del famoso musicista etiope Teddy Afro che denuncia le violenze su scala nazionale. Il singolo, che ha ottenuto cinque milioni di visualizzazioni su YouTube, critica implicitamente le autorità per la loro incapacità di proteggere i civili.
Alcune persone che hanno preso parte ai massacri sono state premiate con incarichi governativi e terre
In Etiopia l’insicurezza è una costante. La guerra civile esplosa nel novembre 2020 nella regione del Tigrai, la più settentrionale del paese, non è finita. I combattimenti sono ancora in corso anche negli stati dell’Oromia e del Benishangul-Gumuz. Altrove si registrano diffusi episodi di violenza per dispute territoriali, sullo sfondo di un peggioramento delle tensioni etniche. In totale nel 2021 circa 5,1 milioni di persone sono state costrette a lasciare le loro case e trasferirsi in altre regioni dell’Etiopia: un record mondiale per un solo paese.
Secondo gli osservatori, il massacro di giugno è tra i più gravi degli ultimi anni. “Gli Stati Uniti sono profondamente preoccupati per i civili amhara che vivono nella regione dell’Oromia”, ha dichiarato il portavoce del dipartimento di stato americano Ned Price. Come molti degli oltre 80 gruppi etnici dell’Etiopia, gli amhara, che rappresentano circa un quarto dei 118 milioni di abitanti del paese, si sono sposati e si sono integrati in altre comunità ben oltre i confini della loro regione. Negli ultimi anni però l’Etiopia occidentale è stata regolarmente teatro di massacri. Più di 50 civili sono stati uccisi in attacchi avvenuti tra il febbraio e il marzo 2021. Nel novembre 2020 uomini armati hanno massacrato almeno 54 civili che si erano riuniti nei locali di una scuola.
“L’incapacità dell’amministrazione di proteggere i suoi cittadini ha messo a repentaglio la vita di migliaia di civili innocenti”, ha riferito Addisu Lashitew, ricercatore associato della Brookings institution. “Sul piano politico, il governo non è stato in grado di costringere i suoi funzionari a rispondere di questo gigantesco fallimento della sicurezza. L’amministrazione dovrebbe avviare immediatamente un’indagine indipendente per fare giustizia”.
Sei sopravvissuti al massacro di Gimbi hanno riferito che i membri di una forza governativa locale, a cui era stato affidato il compito di proteggere l’area, sono andati via senza alcun preavviso il 16 o 17 giugno, lasciando gli abitanti privi di difese. Sono poi tornati qualche ora dopo la fine della carneficina. “Non c’è spiegazione del perché i soldati siano andati via”, ha detto Ali Said. “Anche se nella zona ci sono altre forze di sicurezza, nessuno è venuto ad aiutarci”.
Così aumentano le denunce degli attivisti, secondo cui i funzionari governativi in Oromia starebbero collaborando con i gruppi ribelli per eliminare dalla regione tutte le minoranze etniche. “I funzionari federali e regionali e l’apparato di sicurezza non hanno fatto nessuno sforzo per fermare gli attacchi e in molti casi ne sono stati complici”, ha spiegato Tedros. “Alcune persone, note per aver preso parte ai massacri, sono state premiate con incarichi governativi e terre”.
L’Amhara association of America, di cui Tedros è presidente, sta documentando le atrocità. Sul suo sito web ha pubblicato una dichiarazione per chiedere le dimissioni di Abiy e del presidente della regione dell’Oromia, Shimelis Abdisa, accusati di “negligenza, complicità o coinvolgimento nel genocidio perpetrato dallo stato ai danni degli amhara in Etiopia”. Accuse di questo genere non sono nuove. Alla fine del 2020 cinque ufficiali governativi della regione del Benishangul-Gumuz sono stati arrestati per un attacco con più di cento morti.
Il governo etiope ha negato qualsiasi coinvolgimento e ribadisce il suo impegno a processare gli autori delle violenze. “Attualmente abbiamo un problema”, ha affermato il sottosegretario etiope alla giustizia Fekadu Tsega. “Aggiorneremo l’opinione pubblica quando le indagini saranno concluse”.
Questo impegno non rassicura gli abitanti dell’Amhara, né metterà fine alle proteste. Un recente provvedimento del governo federale che aveva come obiettivo il disarmo dei gruppi ribelli amhara ritenuti illegali ha scatenato a maggio forti proteste antigovernative. Le forze di sicurezza hanno reagito arrestando più di quattromila manifestanti, giornalisti e politici dell’opposizione in tutta la regione.
Intanto i sopravvissuti temono l’arrivo di nuovi attacchi, davanti ai quali saranno del tutto inermi. “Non ha senso mandare l’esercito o la polizia dopo che abbiamo perso i nostri amici e i nostri familiari”, dice Ali Said. “Non m’importa di quello che dicono i politici. Qui nessuno si fida più di loro”.
(Traduzione di Giusy Muzzopappa)
Questo articolo è uscito su Al Jazeera. Internazionale ha una newsletter che racconta cosa succede in Africa. Ci si iscrive qui.
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