Le migliaia di messaggi e storie personali che dall’inizio di gennaio hanno inondato i social network, con l’hashtag #ProhibidoOlvidarSV, sono una conferma che né il dolore né la memoria possono essere cancellati per decreto. Sono storie, quasi tutte dolorose, di lutti personali e sofferenza per una guerra che nessuno, tra chi l’ha vissuta, vuole che si ripeta o sia dimenticata.

Le testimonianze sono state così tante che molti, sulla rete, hanno parlato della più autentica commemorazione mai vista da quando sono stati firmati gli accordi di pace, il 16 gennaio 1992. Ma è stato anche un passaggio di testimone, grazie all’appropriazione di quell’evento da parte delle nuove generazioni che non solo non avevano avuto esperienza diretta della guerra, ma erano anche lontane dalla pace firmata nel castello di Chapultepec a Città del Messico. Come ha detto di fronte al monumento alle vittime civili, a San Salvador, Tania Grande, una donna di 35 anni, “gli attacchi alla memoria e il dolore ci hanno spinto ad appropriarci degli accordi di pace”.

Gli attacchi a cui si riferisce sono stati lanciati dal presidente del Salvador, il populista Nayib Bukele. A dicembre Bukele, in visita al villaggio del Mozote, nel dipartimento di Morazán, ha detto davanti ai sopravvissuti e ai familiari delle vittime del massacro avvenuto nel 1981 (quando l’esercito uccise almeno ottocento civili) che la guerra e gli accordi di pace erano una farsa. È stato troppo anche per le nuove generazioni.

Memoria orale
Molte storie condivise sui social network sono state scritte da giovani che ricordavano i parenti scomparsi o condividevano i racconti ascoltati a casa, da bambini. Questa trasmissione orale del conflitto, per quanto assente nella retorica ufficiale da trent’anni, ci ha spinto a ricordare che la guerra civile ha colpito tutte le famiglie del paese.

Tra settantamila e centomila persone persero la vita nel conflitto armato (1979-1992) in gran parte civili. Di queste fanno parte le quasi mille persone, tra donne, anziani e soprattutto minorenni, uccise a El Mozote. A trent’anni dalla fine della guerra ancora non si conosce la sorte di settemila salvadoregni scomparsi in quegli anni. Tutto l’orrore di quel periodo, e la sua conclusione tramite il dialogo e i negoziati che portarono alla firma della pace, sono stati riassunti nel titolo del rapporto della Commissione per la verità: “Dalla follia alla speranza”.

Bukele disprezza gli accordi di pace perché segnano l’atto di nascita delle istituzioni democratiche che lui vuole smantellare

Gli accordi di pace hanno gettato le basi della democrazia che ha permesso a Bukele di diventare presidente della repubblica; hanno dissolto i corpi repressivi di sicurezza creando una polizia nazionale civile; hanno separato l’esercito dalla vita politica, facendo sì che la soluzione di tutte le differenze politiche avvenisse all’interno delle istituzioni statali; hanno istituito la procura per la difesa dei diritti umani e hanno disposto la creazione della commissione per la verità. Infine, hanno permesso agli ex guerriglieri del Frente Farabundo Martí para la liberación nacional (Fmln) di partecipare alla vita politica del paese, un fatto che ha aperto la strada alla carriera di Bukele.

Le storie con l’hashtag #ProhibidoOlvidarSV raccontano un paese in cui convivono ancora il dolore del conflitto e la determinazione a sostenere gli accordi di pace, perché sono considerati un traguardo importante. Sono un racconto collettivo che parla non solo di chi siamo stati, ma anche di chi siamo e di chi vogliamo essere, cioè una società che non è disposta a farsi dire da nessuno cosa conservare nella sua memoria e come farlo.

Un’opportunità mancata
Ridurre gli accordi di pace a un “patto tra corrotti” per fare campagna elettorale è da opportunisti e ignoranti, non si addice a un capo di stato. Ma non è la corruzione che preoccupa il presidente, visto quello che succede nel suo stesso governo. Bukele disprezza gli accordi di pace perché segnano l’atto di nascita delle istituzioni democratiche che lui vuole smantellare.

Se oggi il Salvador è in queste condizioni, la colpa non è certo degli accordi, ma dei suoi dirigenti politici, incapaci d’infondere nella vita della nazione lo spirito d’incontro e riconciliazione con cui si firmò la pace.

Dopo la pace sia l’Alianza republicana nacionalista (Arena, destra) sia il Fmln hanno tratto beneficio dal mantenimento di un sistema politico polarizzato, perché loro erano i due poli del sistema. Bukele aveva l’opportunità inedita di condividere con tutti i salvadoregni un progetto di nazione, ma non è all’altezza. La sua superbia lo ha spinto a mantenere la stessa divisione di prima, però intorno alla sua persona. Da una parte ci sono i suoi sostenitori, che lo appoggiano senza criticarlo o chiedergli conto di niente; dall’altra tutti i nemici, che lui cerca di mettere a tacere attraverso intimidazioni, campagne diffamatorie o per decreto.

La reazione dei salvadoregni alle dichiarazioni di Bukele sulla guerra civile lo ha costretto a provare a raddrizzare la rotta. La sera del 16 gennaio il presidente ha dichiarato che d’ora in poi in quella data si celebrerà la giornata delle vittime. Un’iniziativa tardiva (peraltro già esistente) e ipocrita: è stato proprio Bukele a negare al giudice che si occupa del massacro del Mozote l’accesso agli archivi militari, quindi il diritto delle vittime alla verità. Anche se in questo non è solo.
Nel Salvador è vietato dimenticare.

(Traduzione di Federico Ferrone)

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