Nelle ultime settimane, mentre il parlamento italiano spariva dalla scena, il potere si è concentrato nelle mani del presidente del consiglio Giuseppe Conte. L’emergenza sanitaria ha richiesto risposte straordinarie. La temporanea compressione di diritti e libertà è tra queste. E in questo stato d’eccezione è stata inevitabile una certa disinvoltura nelle procedure decisionali. Ma c’è un rischio. Quando tutto sarà finito ci si potrebbe ritrovare con un potere molto diverso da quello che conosciamo, soprattutto se questa disinvoltura viene accolta con indifferenza o come un fatto rassicurante.

“Non si mette sotto chiave l’Italia senza passare dal parlamento”, ha scritto Stefano Folli su Repubblica, mentre sul Corriere della Sera Massimo Franco si è detto preoccupato da “un parlamento ridotto a istituzione a mezzo servizio di fronte a misure che toccano le libertà fondamentali”. Ed è vero. Il grande assente è stato proprio il parlamento, mentre si compiva la più ampia compressione di diritti e libertà della storia repubblicana sotto la diretta responsabilità del presidente del consiglio.

La costituzione pone la salute tra gli interessi maggiormente degni di tutela. Dunque, ben venga ogni decisione che l’esecutivo ritenga necessaria per superare l’emergenza. La stessa carta dà al governo uno strumento per agire in casi straordinari di necessità e urgenza: il decreto legge. Tuttavia, si è preferito battere altre strade: i decreti del presidente del consiglio (Dpcm).

I dubbi dei costituzionalisti
Si tratta di strumenti normativi di rango secondario, “sottratti a qualsiasi controllo preventivo, dato che non sono emanati dal presidente della repubblica (come decreti legge e regolamenti) e non sono sottoposti a conversione in legge come i decreti legge e quindi non sono soggetti a esame parlamentare”, come ha scritto Marco Olivetti su Avvenire. I Dpcm emanati finora trovano la propria legittimazione in un decreto legge del 23 febbraio che, scrive Olivetti, “autorizza limitazioni assai invasive ai diritti fondamentali, ma lo fa in maniera generica”, rimettendo il loro contenuto alla responsabilità individuale del presidente del consiglio il quale, insomma, “diventa una specie di dictator”.

Se sia possibile limitare diritti e libertà con un tale strumento non è certo. E ci si chiede se non fosse preferibile ricorrere ai decreti legge che garantiscono i diritti delle opposizioni. Diversi costituzionalisti, tra i quali Michele Ainis e Francesco Clementi, hanno espresso dubbi sulla scelta di procedere con Dpcm. A emergenza finita ci sarà tempo per verificarlo. Di certo, si è osservato con inquietudine un potere mai così verticale e svincolato da controlli, impegnato a costruire un apparato normativo pesantemente restrittivo della libertà dei cittadini. E, alla fine, tanto era fondata quell’inquietudine che lo stesso governo ha dovuto cambiare registro.

“Abbiamo deliberato l’adozione di un decreto legge che riordina la disciplina dei provvedimenti che stiamo adottando in questa fase emergenziale”, ha detto il presidente del consiglio il 24 marzo. Era ora. E non soltanto perché così sono state trasferite in una fonte di rango primario le misure già prese finora, ma anche perché la selva di decreti legge, Dpcm e ordinanze che in questi giorni si sono affastellati ha dato vita a un sistema che nell’intreccio tra misure statali e regionali appariva confuso e contraddittorio.

Inoltre, si è deciso che “ogni iniziativa venga trasmessa ai presidenti delle camere e che il presidente del consiglio vada a riferire ogni 15 giorni sulle misure adottate al parlamento”. Così, mercoledì 25 marzo il presidente del consiglio si è finalmente presentato a Montecitorio per riferire sull’emergenza in corso. Qui, a proposito della scelta di procedere con Dpcm, ha spiegato: “Lo abbiamo ritenuto strumento idoneo perché rapido e flessibile”. Nulla di nuovo, insomma, ma la presenza di Conte alla camera era comunque un passaggio anche simbolicamente atteso perché era diventata inaccettabile la scomparsa del parlamento dalla scena.

Una storia che arriva da lontano
Di questa assenza, peraltro, è responsabile in parte anche la stessa pandemia, poiché il pericolo di contagio rende difficile la riunione delle camere. Per ovviare, sono state esaminate diverse possibilità: voto a distanza, a ranghi ridotti o a scaglioni. Si è pensato a una commissione speciale che sostituisca almeno in parte l’aula e perfino a traslocare altrove l’assemblea. Ma riducendo l’attività, ha scritto il costituzionalista Andrea Pertici, “il parlamento sembra quasi abdicare alle proprie funzioni”, mentre secondo Gustavo Zagrebelsky “è essenziale, proprio perché siamo in emergenza e in presenza di misure eccezionali, che il parlamento sia in piena efficienza nella sua funzione di controllo”. Ma va anche detto che il deserto di camera e senato non è stato un bello spettacolo mentre si chiedeva un sacrificio a camionisti, commessi, medici, infermieri e a molti altri lavoratori perché il paese non si fermasse.

Infine, ad aumentare la sensazione di una certa evanescenza istituzionale, ci si è messo anche il caos provocato da un federalismo che andrà certamente sottoposto a revisione. E a pandemia finita si vedrà se almeno la lezione sulla centralità della sanità pubblica sarà stata compresa.

Se siamo arrivati a tanto, non è però solo a causa dell’emergenza. Sono almeno 25 anni che è in corso una vera e propria disarticolazione dei poteri dello stato. Uscita a pezzi dagli anni in cui la politica collassava con tangentopoli e cosa nostra attuava la sua strategia stragista, il paese ha poi ricostruito se stesso su basi nuove, ma con regole tutto sommato invariate.

Sul corpo della vecchia repubblica parlamentare si è innestata una “presidenzializzazione” di fatto che ha spalancato le porte all’erosione del ruolo del parlamento come legislatore. Da un lato, come ci dicono le statistiche sulla produzione normativa, la funzione legislativa è stata esercitata sempre più dal potere esecutivo attraverso i decreti. Dall’altro, il potere giudiziario è stato costretto a operare quasi come legislatore indiretto quando il parlamento per incapacità politica non è riuscito a legiferare, come dimostra la via giudiziaria ai diritti civili. Infine, il parlamento ha perso anche la propria funzione politica a causa della crisi di credibilità dei partiti la quale in questi anni è poi andata aggravandosi sempre più.

Insomma, non stupisce che il parlamento sia stato del tutto assente in queste prime settimane di emergenza. Non stupisce ma preoccupa. “Proprio nelle situazioni più delicate, diviene centrale il ruolo di controllore dei comportamenti dell’esecutivo, perché non diventino arbitrari”, hanno scritto i docenti di diritto Carlo Melzi d’Eril e Giulio Enea Vigevani. Ecco allora che, dopo anni di arretramento, è il momento che parlamento e politica ritrovino la centralità perduta così da dimostrare che uno stato forte è l’esatto opposto di uno stato autoritario.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it