Ci sono due cose che Muna non fa quasi mai: uscire di casa presto e guidare la macchina. L’altro giorno le ha fatte entrambe. “Vado a prendere mia sorella”, ha annunciato. Dopo venti minuti sono arrivate portando grandi buste di plastica.
Bucato. Sua sorella vive al terzo piano. Nell’ultima settimana l’erogazione di elettricità nel quartiere è stata molto debole, impedendo le forniture d’acqua ai piani superiori.
Raed, un operaio disoccupato con due bambini piccoli, mi ha detto che in casa mancava l’acqua da quattro giorni. Non ha dovuto aggiungere nulla, potevo immaginare: il gabinetto del bagno otturato, il cumulo di vestiti sporchi, le acrobazie per lavare i bambini. “E da una settimana non abbiamo neanche il gas per cucinare”, ha proseguito. In queste condizioni, le interruzioni di corrente elettrica sono il problema minore.
Nel quartiere di Muna, invece, funzionano due linee elettriche: quella che fornisce l’elettricità comprata dall’azienda israeliana e quella che fornisce l’elettricità prodotta dalla centrale di Gaza (un’azienda privata, per un terzo statunitense, un terzo palestinese e un terzo pubblica).
La centrale di Gaza potrebbe produrre elettricità per metà della popolazione della Striscia, ma ora ne rifornisce solo un terzo. Un po’ perché Israele limita le consegne di combustibile, un po’ per le conseguenze del bombardamento dell’impianto due anni fa.
La centrale è ferma da una settimana perché non arriva una goccia di combustibile. L’azienda elettrica palestinese sta cercando di distribuire i disagi equamente: interrompe l’erogazione a turno nei vari distretti della Striscia. Ma il quartiere di Muna è un’eccezione, grazie alle due linee. Le interruzioni di corrente sono state più brevi e non hanno ancora inciso sulla pressione dell’acqua.
Le sorelle stavano mettendo il primo carico di panni sporchi in lavatrice quando è andata via la corrente. Non se la sono presa e sono andate nell’altra stanza a chiacchierare. L’unica cosa che potevano fare era aspettare: due ore, forse quattro, forse di più.
Aspettare: la stessa cosa che hanno fatto gli operai al lavoro su un enorme depuratore nel nord della Striscia. È l’unico cantiere autorizzato da Israele (perché lo considera un progetto umanitario, mentre i progetti di sviluppo sono vietati da quando Hamas ha vinto le elezioni).
Aspettare i pezzi di ricambio di elettrodomestici e automobili; aspettare elettricità, acqua e gas; aspettare che apra il varco di frontiera per portare fuori le fragole; aspettare che Israele autorizzi una spedizione umanitaria delle Nazioni Unite. Ormai i palestinesi non fanno altro.
Ora sono le sei di mattina del 19 novembre. L’elettricità è appena andata via, mentre facevo una pausa per il caffè. C’è un pensiero che continua ad assillarmi: tutti questi particolari riescono a descrivere l’umiliazione di una vita umana ridotta a un’esistenza quasi animale?
Quando torna la corrente, il notiziario radio israeliano annuncia seccamente: “Oggi i varchi di frontiera con Gaza resteranno chiusi per persone e merci. Il ministro della difesa Ehud Barak ha deciso che, a causa dei continui lanci di razzi, i varchi non saranno aperti. La scorsa notte tre razzi sono caduti in aperta campagna. Non ci sono state vittime”. È la politica del castigo: “Ragazzacci, pagherete per il vostro comportamento”.
John Ging, il responsabile delle operazioni umanitarie delle Nazioni Unite nella Striscia di Gaza, mi ha detto: “La persone civili agiscono rispettando il diritto internazionale. Un atto illegale non dovrebbe portare a un altro atto illegale. Consentire solo gli aiuti umanitari e non la costruzione di scuole, l’ingresso di materiale didattico per i bambini ciechi, l’esportazione di prodotti agricoli, è illegale, disumano e controproducente”.
Ma è davvero controproducente? Se si considera la questione della sicurezza, la risposta è sicuramente sì. Questa umiliante pressione rende la maggior parte degli abitanti di Gaza dipendenti dagli aiuti, trasformandoli in persone che non hanno niente da perdere. E finisce per alimentare la violenza: nuovi razzi, nuove armi fatte passare attraverso i tunnel, nuove reclute per la lotta armata.
Credo di conoscere gli obiettivi nascosti di Israele. I politici israeliani sanno bene cosa stanno facendo: sanno che il ceto medio (di cui fanno parte i più accesi sostenitori della pace con Israele) si sta impoverendo, che l’industria sta morendo, che l’agricoltura sta perdendo colpi.
Sanno, dalle esperienze del passato, che il regime di Hamas può solo essere rafforzato da queste misure. E infatti è così: sempre più palestinesi dipendono dai suoi programmi di assistenza. L’assedio non permette di valutare serenamente i risultati del governo di Hamas.
Tutte le carenze sono attribuite al nemico. Il dibattito pubblico ne risente e i palestinesi di Al Fatah, al potere in Cisgiordania, sono considerati dei collaborazionisti.
Ecco i tre obiettivi d’Israele: tenere separate la Striscia di Gaza e la Cisgiordania; spingere la Striscia verso una tutela egiziana; alimentare la questione della “sicurezza”. Israele non cerca altro.
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