Alle 12 di domenica 30 novembre mi hanno comunicato che dovevo lasciare Gaza immediatamente. I due giovani uomini, responsabili dell’unità che mi ha fatto da scorta nelle ultime tre settimane, mi hanno detto che l’ordine arrivava dal ministro dell’interno Said al Siam.

“Hanno paura per te o di te?”, mi ha chiesto un amico. A me naturalmente hanno detto che lo facevano per “motivi di sicurezza”, per proteggermi. “Deve ammettere che non abbiamo mai ostacolato i suoi movimenti e il suo lavoro”, ha detto uno della scorta. In realtà la scorta ha ostacolato il mio lavoro con la sua sola presenza, ma io avevo deciso di accettare tutto per capire qualcosa di più del ruolo di Hamas nella società.

Alle 12.15 mi ha telefonato N. ricordandomi l’invito a casa sua, alle due, per passare il pomeriggio con la sua famiglia. N. è un membro di Hamas che conosco da quindici anni. Grazie a lui ho capito molte cose del movimento. Quando gli ho spiegato la situazione, non riusciva a crederci.

Ha promesso che avrebbe fatto qualcosa. All’una è venuto a prendermi con un membro del Consiglio legislativo palestinese (Plc). Hanno parlato ai due agenti della sicurezza e poi ci siamo trasferiti tutti a casa di N. Da lì hanno continuato a fare telefonate.

Erano sempre più preoccupati. Poi, alle tre, il membro del Plc se n’è andato. Le persone contattate non richiamavano. “È un brutto segno”, ha spiegato N. “Significa che non possono fare niente”. Alle quattro la scorta mi ha detto che il tempo era scaduto. I loro volti erano poco amichevoli.

Un ordine è un ordine e così abbiamo chiamato un taxi per andare a prendere le mie cose. Ho telefonato a un portavoce militare israeliano, chiedendo se fosse possibile aprire il posto di controllo per farmi passare. Ma in quel momento è arrivata un’altra telefonata: potevo restare fino al giorno dopo, ma non oltre le due del pomeriggio. Qualche altra ora di grazia per salutare i miei amici. Chissà quando e dove potremo rivederci di nuovo.

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