Il processo è stato posticipato di qualche ora, e così ho potuto ammirare l’architettura della corte suprema di Gerusalemme. Il giudice era Salim Jubran, il primo (e finora unico) arabo israeliano a far parte della corte (che di recente è finita nel mirino dell’estrema destra in parlamento e fuori). Cristiano maronita, Jubran è nato ad Haifa nel 1947, poco prima che la maggioranza dei palestinesi fosse espulsa da Israele. Mi chiedo quale sia il significato della sua presenza in un feudo dell’élite culturale ashkenazita: una foglia di fico per coprire l’egemonia ebraica? Oppure un segno di rispetto per le altre componenti culturali? Forse entrambe le cose.
L’ebraico di Jubran ha conservato solo in parte la ricchezza della pronuncia araba, sfortunatamente perduta dalla nostra lingua moderna (di origine semitica, come del resto l’arabo), che ha la dolcezza di una sega elettrica. Il giudice ha esaminato vari casi. In uno di questi, un avvocato specializzato in questioni fiscali (a me oscure) difendeva i suoi clienti. L’avvocato indossava la kippah e quindi era ebreo, ma nel suo accento c’erano tracce della complessità araba. Probabilmente era di origine arabo-ebraica, forse siriano o iracheno.
Scambiandosi commenti e osservazioni a proposito di quel caso per me indecifrabile, Jubran e l’avvocato si sono progressivamente allontanati dallo stridulo accento ashkenazita, tornando alla dolce pronuncia che rispetta le origini comuni dell’arabo e dell’ebraico.
*Traduzione di Andrea Sparacino.
Internazionale, numero 929, 23 dicembre 2011*
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