Dato che viaggio spesso sulla strada 443, partecipo (mio malgrado) al discriminatorio sistema stradale israeliano.
La 443 è stata costruita in Cisgiordania su terre palestinesi, e dal 2001 le uscite dei villaggi sono chiuse. Una petizione presentata a un alto tribunale ne ha chiesto la riapertura, ma l’esercito ha trovato una soluzione talmente meschina che non riesco neanche a descriverla. Vi basti sapere che la 443 è ancora riservata agli israeliani. A un certo punto c’è un’apertura che conduce a una delle strade secondarie riservate ai palestinesi. Un cartello stradale giallo (divieto di accesso) accoglie gli automobilisti israeliani. Le due strade sono divise da file di chiodi.
La settimana scorsa stavo tornando a casa dopo mezzanotte. C’era una macchina che bloccava l’uscita dalla 443. Alcuni giovani discutevano animatamente. Uno di loro era israeliano, gli altri palestinesi. L’israeliano, autista di un carro attrezzi, vendeva macchine israeliane usate nei villaggi lungo la 443. La legge palestinese proibisce l’acquisto di automobili israeliane immatricolate più di tre anni fa. Ma chi può permettersi un modello nuovo? In ogni caso le vecchie auto israeliane circolano senza problemi (senza targa e senza assicurazione).
“Gli israeliani ci vendono la loro spazzatura”, ha confermato uno dei ragazzi. E io ho capito perché lungo le strade secondarie ci sono cumuli di vecchi rottami: una buona metafora per il “processo di pace” di Oslo.
*Traduzione di Andrea Sparacino.
Internazionale, numero 931, 13 gennaio 2012*
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