A Cuba tutti gli sguardi erano rivolti alle elezioni statunitensi. La politica di plaza de la Revolución è per definizione contraria a quella di Washington. Raúl Castro ha lanciato una modesta riforma dell’immigrazione e ha spiegato che non si può fare di più, perché siamo accerchiati dall’impero.
Non si possono neanche legalizzare i partiti perché “lo zio Sam è in agguato”, mentre l’accesso a internet è selettivo per evitare che “la guerra mediatica del Pentagono” ci colpisca troppo. Analizzando questa rivalità, si potrebbe concludere che i cubani non sono mai stati così dipendenti dagli Stati Uniti.
L’uomo che vende pesciolini sulla strada sperava che fosse rieletto Barack Obama, in modo che suo fratello potesse continuare a mandargli il mangime speciale di cui hanno bisogno i suoi animali. Un ex detenuto politico voleva che vincesse Romney, perché “le cose devono peggiorare ancora affinché la gente reagisca”. L’adolescente con la testa tra le nuvole riconosce più facilmente l’inquilino della Casa Bianca del signore con la camicia a quadri che la tv chiama Fidel Castro. Raúl deve guadagnare protagonismo nell’agenda del nemico.
Per questo si manifestano già i sintomi di un’escalation diplomatica che obbligherà il nuovo presidente degli Stati Uniti a prendere posizione. Il linguaggio politico si fa più affilato, gli insulti sono più ingegnosi e il pungiglione dello scontro affonda per far reagire Washington. È il momento di cercare di aggiudicarsi un posto tra le priorità del vicino del nord. Ma questa strategia non funziona più.
Traduzione di Francesca Rossetti
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