Il 9 dicembre mi sono presentata senza preavviso a casa di amici a Nablus, in Cisgiordania. Erano tutti presenti. Alaa, 13 anni, stava incollato al tablet. Hiba, felice di aver ricevuto una borsa di studio per il Regno Unito, aiutava il fratello Aamer a prepararsi per un esame di giurisprudenza. I loro genitori sono Naela, insegnante, e Tareq, lettore universitario. Tareq è cresciuto in un campo profughi. Nel 1948 i suoi genitori, appena sposati, furono cacciati dal loro villaggio. Naela è figlia di agricoltori. Ventisei anni fa il loro matrimonio è stato un evento eccezionale, perché erano entrambi ricercati dall’esercito israeliano per la loro militanza politica ma soprattutto perché appartenevano a classi sociali diverse (i proprietari di terra erano riluttanti a far sposare i loro figli con dei profughi).
A un certo punto Aamer mi ha detto che lo zio Khaled (il fratello di Naela) era stato arrestato il giorno prima. Non ho avuto bisogno di altre informazioni. Khaled, infatti, lavora in Israele senza permesso da 18 anni. Esperto muratore, ha distribuito la terra tra figli e nipoti ed è partito per Israele. Quando il governo ha cominciato a ridurre i permessi per i palestinesi, Khaled ha deciso di rimanere lì dormendo in alloggi di fortuna.
Ho contattato un’amica avvocata che ha scoperto dove si trova Khaled e ha promesso di attivarsi. Probabilmente passerà qualche mese in carcere. “È ora che torni”, ha commentato Naela. “Ha guadagnato abbastanza per mandare tutti i figli all’università”.
Traduzione di Andrea Sparacino
Questo articolo è stato pubblicato il 12 dicembre 2014 a pagina 25 di Internazionale, con il titolo “Il sacrificio di Khaled”. Compra questo numero | Abbonati
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