La vegetazione di un verde intenso sarebbe anche invitante se non fosse per il nome del posto: Fukushima. La nostra guida un tempo abitava nel villaggio di Iitate, a nordovest della famigerata centrale nucleare. Dei seimila abitanti del suo villaggio, ci ha raccontato, solo cinquecento sono tornati, quasi tutti anziani. Secondo il rilevatore di radiazioni, la sua casa e i suoi terreni sono ancora contaminati, nonostante il governo si sforzi di convincere la popolazione che il pericolo è passato.
Molti terreni della zona, vicino a case e strade, sono pieni di sacchi di terra contaminata. Dove un tempo c’erano campi di riso, che in questo periodo dell’anno sarebbero stati pronti per il raccolto, c’è solo terra marrone, inutilizzata e minacciosa.

La strada 114, che percorriamo verso sud, è stata aperta solo la settimana scorsa, sei anni dopo il disastro. Le strade secondarie che s’immettono da entrambi i lati sono chiuse da recinzioni. Attraversiamo città e villaggi fantasma: case vuote, insegne rotte, ragnatele e automobili abbandonate nei garage.

Alcuni responsabili della comunicazione giunti qui dagli uffici della Tepco (l’azienda che gestisce la centrale nucleare) mi accompagnano alla centrale per una visita di cinque ore. Continuano a dirmi che è tutto sotto controllo. Ma le città fantasma e la pioggia che, cadendo, raccoglie e diffonde altra radioattività dalle foglie e dalle radici mi dicono che qui si è perso il controllo già da molto tempo.

(Traduzione di Giusy Muzzopappa)

Questa rubrica è stata pubblicata il 6 ottobre 2017 a pagina 37 di Internazionale. Compra questo numero | Abbonati

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