Il 14 febbraio tre giovani palestinesi sono stati bloccati mentre portavano quattro bombe artigianali in un tribunale militare del nord della Cisgiordania. Casi simili c’erano già stati due giorni prima e a dicembre. Stupisce che i ragazzi siano così inconsapevoli delle procedure di sicurezza da pensare di poter entrare con i loro ordigni rudimentali.

Probabilmente sono stati spinti dallo spirito di emulazione. E ho la sensazione che i ragazzi volessero solo farsi arrestare, probabilmente per motivi economici: sono disoccupati e invidiano i loro coetanei delle famiglie benestanti e i compagni di scuola che attraverso i genitori hanno ottenuto un lavoro da Al Fatah. Magari pensano che l’arresto possa regalargli un po’ di prestigio sociale e una tregua dalle preoccupazioni economiche. Ma presto scopriranno che la detenzione ha costi altissimi per le famiglie dei condannati.

Un aspetto positivo c’è: questi ragazzi non volevano morire, altrimenti avrebbero fatto come tanti altri ragazzi e ragazze che negli ultimi due anni hanno cercato di accoltellare i soldati israeliani. In quei casi i soldati hanno prontamente soddisfatto il loro desiderio di morte.

Tra parentesi: sono in aumento anche i giovani della Striscia di Gaza che cercano di superare la barriera di separazione (la disoccupazione giovanile a Gaza sfiora il 60 per cento). Nella maggior parte dei casi finiscono in prigione, esentando temporaneamente le famiglie dall’obbligo di mantenerli.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

Questa rubrica è stata pubblicata il 16 febbraio 2018 a pagina 20 di Internazionale. Compra questo numero | Abbonati

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