“Faccio politica da tanto tempo, ma non avevo mai vissuto un momento del genere. Stanotte abbiamo guadagnato la fiducia della popolazione, la più alta mai ottenuta in Serbia. E in condizioni molto difficili”. Così il presidente Aleksandar Vučić ha salutato il risultato delle elezioni politiche che si sono tenute in Serbia il 21 giugno, un trionfo elettorale largamente atteso, eppure sorprendente e preoccupante per le dimensioni e le modalità con cui è maturato.
Secondo i dati non ancora definitivi, nella prima tornata elettorale in Europa dall’inizio della pandemia il Partito progressista serbo (Sns), guidato da Vučić e ben poco progressista nei fatti, ha ottenuto più del 61 per cento dei consensi, e solo due altre formazioni hanno superato lo sbarramento del 3 per cento necessario per entrare in parlamento: con il 10 per cento il Partito socialista del ministro degli esteri Ivica Dačić, alleato di Vučić, e l’Alleanza patriottica serba, il movimento conservatore fondato dall’ex giocatore di pallanuoto Aleksandar Šapić, che ha avuto poco più del 4 per cento dei consensi. Le elezioni sono state boicottate dalle formazioni di opposizione riunite sotto la sigla Alleanza per la Serbia e alle urne è andato il 48 per cento degli aventi diritto, circa nove punti in meno rispetto al voto del 2016.
Più che a un trionfo democratico, in Serbia si è assistito al prevedibile successo del progetto autocratico che Vučić – che fu il ministro dell’informazione di Slobodan Milošević alla fine degli anni novanta – coltiva ormai da anni e che negli ultimi mesi ha rafforzato usando la pandemia come amplificatore del suo messaggio politico, e accreditandosi come il salvatore della nazione, anche grazie a una martellante presenza sui mezzi d’informazione e a un controllo assoluto della macchina pubblica. Non è un caso che nel 2019 Freedom House abbia declassato la Serbia da “democrazia semiconsolidata” a regime ibrido. D’altra parte, l’opposizione si è rivelata debole e incapace di approntare un programma credibile e ha affrontato il voto divisa e senza una strategia. Tra le forze che non hanno sostenuto il boicottaggio, nessuna è riuscita a entrare in parlamento. Un fallimento evidente, che risulta ancora più grave se si considera che arriva dopo una lunga mobilitazione politica, cominciata alla fine del 2018 e proseguita per buona parte del 2019 con una buona partecipazione popolare.
Bruxelles sembra più interessata alla stabilità politica dei paesi dei Balcani candidati all’adesione che al loro sviluppo democratico
Nonostante i suoi contorni decisamente discutibili, il voto serbo è stato salutato con soddisfazione dalle istituzioni europee. La scorsa settimana l’ex presidente del consiglio europeo Donald Tusk aveva augurato “buona fortuna” a Vučić a nome del Partito popolare europeo. A urne chiuse il commissario per l’allargamento, Oliver Varhelyi, ha aggiunto di “essere pronto a lavorare con il nuovo governo” di Belgrado e “determinato ad aiutare la Serbia ad avvicinarsi rapidamente all’Unione europea”. Anche questo atteggiamento non deve stupire. Ormai da anni Bruxelles sembra più interessata alla stabilità politica dei paesi dei Balcani candidati all’adesione che al loro sviluppo democratico. Ciò vale soprattutto in una fase molto delicata per i negoziati sulla questione del Kosovo, tema sul quale negli ultimi mesi è piombata con forza l’amministrazione statunitense.
Il 22 giugno Miroslav Lajčák, il responsabile europeo per il dossier Serbia-Kosovo, è in visita a Belgrado, poi Vučić dovrebbe volare a Mosca da Vladimir Putin, e in seguito, il 27 giugno, dovrebbe essere a Washington per un incontro con il presidente kosovaro Hashim Thaci e il negoziatore statunitense Richard Grenell, personaggio molto discusso e nominato da Donald Trump lo scorso ottobre con grande irritazione degli europei. Probabilmente si tornerà a parlare di uno scambio di territori tra Belgrado e Pristina, soluzione che spaventa Bruxelles ma che Vučić, forte di una maggioranza parlamentare sufficiente per modificare la costituzione, oggi può finalizzare. Insomma, un inizio di mandato intenso e sotto gli occhi della comunità internazionale. Dettaglio che comunque non cancella il problema di fondo: in Serbia la democrazia è agonizzante.
Tuttavia, come succede spesso con i risultati elettorali nei regimi di cosiddetto autoritarismo competitivo (cioè sistemi in cui la competizione sopravvive ma è pesantemente falsata a favore del partito al potere), osservando bene i numeri si capisce che i rapporti di forze in seno alla società sono più complessi di quanto non dicano le percentuali del voto. In Serbia il partito di Vučić ha ottenuto il consenso di due milioni di persone sulle 3,3 che sono andate alle urne. Ma gli elettori sono circa 6,7 milioni. Il che significa che per l’Sns ha votato meno di un elettore su tre. In futuro quella parte della società che non è andata a votare o che n0n ha portato rappresentanti in parlamento potrebbe decidere di trovare altri metodi per far sentire la propria voce.
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