C’è questo abbraccio travolgente di una madre che rivede sua figlia uscita da un anno e mezzo di prigionia, una giovane donna che piange affondando il volto sul petto di sua madre, un gesto che nel bel mezzo della pandemia riporta un intero paese, ormai abituato al distanziamento sociale, alla decenza di un abbraccio, alla necessità che i corpi si tocchino, all’insostituibilità dell’incastro del collo nel collo, all’esperienza imprescindibile che sono gli altri e la loro fisicità nella vita di ciascuno. Così in quell’abbraccio un intero paese, collegato in diretta tv, ritorna al mondo e si sente consolato, confortato. È la prima vera buona notizia dopo due mesi di spaesamento per la peggiore crisi sanitaria di quest’epoca. Fine.
Avremmo dovuto fermarci lì, sulla soglia di quell’abbraccio tra una madre e una figlia che si ritrovano, dopo aver temuto per lungo tempo di essersi perdute. Avremmo dovuto ricordare la lezione di Susan Sontag in Davanti al dolore degli altri, quando ci chiede di non usare i cliché ogni volta che vediamo qualcuno soffrire, di non “dare mai un noi per scontato quando si parla del dolore degli altri”. Invece l’arrivo di Silvia Romano a Ciampino più che una liberazione è stata una gogna. Dopo essere stata di fatto dimenticata per mesi dai mezzi d’informazione, dalla politica e dall’opinione pubblica (se non con rare eccezioni come gli appelli di Giuseppe Civati sui social network), la ragazza, il suo corpo, il suo sorriso, il modo in cui è vestita sono improvvisamente scandagliati e fatti a pezzi dallo sguardo feroce dei commentatori che la colpevolizzano, la criminalizzano ben prima di sapere cosa le sia successo e senza nessun riguardo per la violenza che ha vissuto.
Le vere domande
Le prime a non avere il pudore del silenzio sono le autorità, che si mettono in bella mostra davanti alle telecamere al momento dell’arrivo. Di Maio indossa una mascherina con il tricolore, Conte diffonde le foto del suo colloquio con la ragazza dopo l’atterraggio. Tutti vogliono alzare una bandiera su quella buona notizia. La questione diventa anche politica: perché è stato pagato il riscatto? Si tratta con i terroristi? Qualcuno scambia il sequestro di Silvia Romano con il caso Moro. Le vere domande avrebbero dovuto essere altre: perché la ragazza è stata sequestrata? Quali sono le responsabilità dell’organizzazione per cui lavorava come volontaria? Che cosa è successo in questi 18 mesi? Chi sono i rapitori? Qual è stato il ruolo dell’intelligence turca? A chi sono andati i soldi del riscatto?
Invece comincia un linciaggio ai danni dell’ostaggio liberato: le autorità forniscono ai mezzi d’informazione particolari che non avrebbero dovuto essere resi pubblici, come il colloquio tra la ragazza e la psicologa nel volo del ritorno, e la sua conversione all’islam. Daniele Raineri sul Foglio ha spiegato quanto tutte le informazioni che un ostaggio fornisce al momento della sua liberazione debbano rimanere riservate per lungo tempo, innanzitutto e perlopiù per ragioni di sicurezza. Inoltre, come ha scritto Ida Dominijanni, c’è “una strana idea di come una donna possa tornare da un sequestro di diciotto mesi. Non è esattamente come tornare da un viaggio di piacere. Si può anche essere sotto trauma pesante e si ha il diritto di essere lasciate a elaborarlo in pace”.
Rimane lo sbigottimento per la valanga d’illazioni e insulti che hanno colpito Silvia Romano al momento del suo arrivo. In un paese cattolico come il nostro, dove le chiese riaprono prima delle scuole in nome della libertà di culto, si stenta a credere che si possa criticare la scelta di una donna di convertirsi all’islam, dopo essere stata nelle mani di un gruppo di terroristi e che ha raccontato di aver letto il Corano per 18 mesi. Eppure l’abito, il jilbab verde (che non è un abito tradizionale somalo, come ha spiegato Igiaba Scego), con cui Silvia Romano scende dall’aereo turba i commentatori italiani di tutte le provenienze: quelli di destra e di estrema destra, ma anche i moderati e i progressisti.
Il suo velo diventa l’insopportabile simbolo di uno scontro di civiltà che va in scena ancora una volta sul corpo di una donna, trasformato in un terreno di battaglia, con tutto l’armamentario ideologico, ormai quasi prevedibile, della peggiore islamofobia. Si confonde l’islam con i terroristi islamici, si mette in discussione che la scelta di Romano sia stata libera, la si accusa di essere “un’ingrata” e di indossare la “divisa” del nemico. I più benevoli le contestano di essersi fatta strumentalizzare e di aver indossato la bandiera dei suoi aguzzini, cioè di aver veicolato senza saperlo il messaggio di propaganda di Al Shabaab.
Nessuno si chiede quale sia stato il ruolo dei mezzi d’informazione invece nell’esaltare quel messaggio di propaganda. Ancora di più infastidisce il fatto che pur essendo una vittima, quella donna non mostri le sue ferite, non indugi sullo stereotipo della vittima, non pianga, non si lamenti e non mostri il dolore che ha provato, anzi si presenti in pubblico con un sorriso, lo stesso che si vedeva in alcune vecchie foto prima del rapimento.
Sono i meccanismi tradizionali di colpevolizzazione delle vittime, spesso accusate di aver causato o favorito l’abuso e la violenza subita. C’è sempre quello sguardo feroce che le mette sotto esame alla ricerca di un pretesto per dire: “Te la sei cercata”. I centri antiviolenza di tutto il mondo raccolgono ogni giorno i racconti di donne che hanno denunciato di essere state stuprate e non sono state credute, perché erano truccate o vestite bene, o perché non piangevano.
È già successo a molti ostaggi, soprattutto alle donne, di subire questa colpevolizzazione. Come ha scritto la giornalista Marta Serafini, è come se il fatto di aver pagato un riscatto per la liberazione di queste persone ci desse “il permesso di impossessarci della loro vita”. È stato fatto notare tuttavia che gli ultimi due ostaggi liberati erano uomini e tutti hanno raccontato di essersi convertiti all’islam, senza suscitare né stupore, né indignazione. È successo con Alessandro Sandrini, bresciano, liberato nel maggio 2019 dopo essere stato per tre anni ostaggio di un gruppo legato ad Al Qaeda, in Siria, ed è capitato anche a Luca Tacchetto, sequestrato in Mali per 16 mesi con la sua fidanzata canadese, entrambi liberati a marzo di quest’anno.
Nessuno tuttavia si ricorda questo particolare, e a dire il vero nemmeno le circostanze dei loro rapimenti e della loro liberazione. Sono le donne che spaventano, quelle che convivono con la vulnerabilità del loro corpo, ma non la subiscono, quelle che continuano ad andare in giro per il mondo per una causa, per una buona causa o perché gli va.
Detto questo, non bisogna nemmeno trasformare Silvia Romano in un’icona della libertà delle donne. Sarà lei a dire, se e quando le andrà di dire, a raccontare, se e quando le andrà di raccontare, la complessità e le difficoltà che ha vissuto. E non saranno certo le frotte di giornalisti stipate sotto casa sua ad aggiungere qualche elemento di comprensione a quello che le è successo.
Noi che abbiamo assistito sbigottiti per giorni a questo circo violento di insulti e contrapposizioni non abbiamo potuto non pensare a un processo repressivo e regressivo più generale. “Per essere bellissimi e risplendere su questa terra, prima qualcuno deve vederci, ma essere visti significa essere prede”, scrive lo scrittore Ocean Vuong nel suo libro Brevemente risplendiamo sulla terra. Le donne che infrangono i canoni della bellezza muta della preda, dell’oggetto della conquista, con le loro parole, con i loro sorrisi e con le loro scelte inaspettate pagano un prezzo molto alto: sono sottoposte alla violenza di uno sguardo che le fa a pezzi.
In molti si sono chiesti se saremmo usciti migliori dall’isolamento e dalla pandemia, se avremmo scoperto che siamo più interdipendenti e quindi più vulnerabili. Di sicuro ne siamo usciti più misogini e la gogna politica e mediatica contro Silvia Romano è solo la punta dell’iceberg di un processo che da una parte rende invisibili le donne, ricacciate nelle case e ai lavori di cura, assenti dal dibattito pubblico e sempre meno interpellate nelle discussioni politiche, e dall’altra le sottopone di nuovo e con ancora più violenza agli stereotipi ai quali per decenni si sono ribellate.
È come se l’isolamento, la sospensione temporanea dello spazio pubblico avesse fatto entrare ancora più in crisi quelli che sono abituati a una separazione netta tra pubblico e privato, ed è come se questo avesse avuto delle conseguenze immediate sui rapporti di potere. La buona notizia è che una generazione o più generazioni di donne non accetteranno questa controriforma.
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