Il 13 marzo, annunciando che l’Europa era diventata l’epicentro della pandemia di covid-19, il direttore esecutivo dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), il dottor Michael Ryan, ha lanciato un appello in favore delle popolazioni invisibili. “Non possiamo dimenticare i migranti, non possiamo dimenticare i lavoratori senza documenti, non possiamo dimenticare i detenuti”, ha detto.

Nel giro di pochi giorni, le società civili di tutto il mondo hanno cominciato a scoprire che il problema dell’invisibilità accompagna sempre le epidemie. Estremamente difficile da contenere a causa della possibilità di contagio asintomatico e del lungo periodo di incubazione, il covid-19 è stato anche difficile da identificare come causa di morte, complicando i tentativi di tracciare e contare le sue vittime. Anche se qualcuno dice che è democratico, il virus sembra colpire in modo particolare le fasce più deboli e invisibili della popolazione.

In tutta Europa, gli anziani ricoverati nelle case di riposo sono stati decimati senza che si sappia quanti siano esattamente. Dalla Cina alla Pennsylvania, tutte le persone che sono morte in solitudine nelle loro case – o nei loro rifugi – non compaiono nelle statistiche ufficiali. Gli immigrati irregolari stanno morendo a causa del virus perché hanno troppa paura di chiedere aiuto, e anche il loro numero di solito non arriva alle statistiche ufficiali. Se oggi “essere contati” è più che mai una precondizione per ottenere assistenza e cure, i paesi occidentali non tengono conto delle condizioni di salute di popolazioni invisibili come quelle in movimento. Al tempo del covid-19, come mai prima, questa drammatica mancanza di dati dimostra che l’invisibilità può significare la morte.

Vantaggi e svantaggi dell’invisibilità
La pandemia di covid-19 ci mette di fronte a un dilemma a proposito delle popolazioni invisibili, e dei migranti in particolare, che comporta una serie di problemi di tipo sociale e tecnologico. Da una parte, la mancanza di visibilità è un aspetto sistematico della gestione delle popolazioni che può fare comodo sia ai governi sia alle persone interessate. L’illusione di un “panottico dei dati” non tiene conto delle condizioni in cui sono raccolti, dei vuoti e dei limiti di un sistema interoperabile: in ogni sistema, non tutto è contato, e non nello stesso modo.

Questa invisibilità può tornare utile alle economie sommerse e ai politici senza scrupoli pronti a lanciare allarmi sulla sicurezza. Dal punto di vista opposto, per categorie come quelle dei senzatetto, dei detenuti, dei migranti e delle lavoratrici e dei lavoratori del sesso, l’invisibilità può essere una difesa da un’attenzione che troppo spesso somiglia al controllo e alla sorveglianza.

D’altra parte, è pur vero che un aumento della visibilità dei migranti potrebbe contribuire a ridurre il contagio e a evitarne la diffusione tra le fette di popolazione più vulnerabili. Durante una pandemia, essere invisibili si traduce spesso nell’impossibilità di accedere a servizi fondamentali, e in particolare alla sanità. L’accesso ai test e alle cure richiede un’assicurazione sanitaria, e per averla bisogna poter essere contati. Anche quando i costi di questa assicurazione sono a carico della collettività, poter essere contati rimane essenziale.

Negli Stati Uniti, per esempio, il secondo pacchetto di aiuti alla popolazione, che è stato chiamato “Prima risposta al coronavirus per le famiglie”, ha esteso i test alle persone che hanno il diritto di accedere al programma Medicaid anche se non sono assicurate, ma non agli immigrati irregolari né ad altri residenti temporanei.

A nostro avviso, mentre in condizioni normali i migranti forse preferiscono rimanere invisibili invece di affrontare la repressione, il marchio d’infamia o l’espulsione, la situazione attuale impone di riconsiderare il rapporto tra dati, popolazioni e (in)visibilità. La domanda è: in quali condizioni includere le persone invisibili nel conteggio complessivo dei casi di covid-19 potrebbe rivelarsi la soluzione giusta?

È necessaria una risposta universale al covid-19, indipendentemente dallo stato di cittadinanza

Di sicuro, è necessario prendere alcune precauzioni. Nel migliore dei casi, piuttosto che mettere in difficoltà le popolazioni vulnerabili, questa riconsiderazione potrebbe anche implicare una forma di “inclusione civile”. Il nostro ragionamento cerca di dimostrarne l’utilità considerando i migranti e i clandestini come persone particolarmente vulnerabili alla pandemia a causa della loro assenza dai registri ufficiali delle amministrazioni, e dell’impossibilità di usufruire di assistenza professionale che questa invisibilità comporta.

Anche se molti dei nostri esempi si riferiscono al continente europeo, che è il nostro principale campo di studio, riteniamo che in queste riflessioni ci sia qualcosa di universale che può influire sul modo in cui altri paesi e comunità si rapportano con le persone in movimento in tempi di pandemia.

António Vitorino, direttore generale dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni, di recente ha invocato la necessità di dare una risposta universale al covid-19, indipendentemente dallo stato di cittadinanza.

Ambiente ostile
Nella sua gestione della pandemia, il Portogallo ha specificamente tenuto conto della condizione dei migranti, estendendo ai cittadini di paesi terzi in attesa di permesso di soggiorno il diritto ad accedere agli stessi servizi dei residenti: dall’assistenza sanitaria a quella sociale, dai conti in banca ai contratti di lavoro e di affitto. La soluzione portoghese costituisce un’inclusione temporanea di fatto dei cittadini stranieri, in nome del pragmatismo oltre che dei diritti umani.

Tuttavia, è un’iniziativa unica in un continente che ha invece bloccato quasi tutte le procedure burocratiche e l’elaborazione dei dati dei migranti. La Svezia, i Paesi Bassi e il Belgio hanno sospeso i servizi amministrativi per migranti, rifugiati e richiedenti asilo. Dopo aver interrotto le procedure relative alle richieste di asilo, la Grecia ha messo in quarantena i migranti in campi sovraffollati.

Anche la Bosnia Erzegovina ha introdotto controlli più rigidi nei suoi centri di accoglienza, dai quali i migranti non possono più né uscire né entrare. L’Italia ha dichiarato che i suoi porti “non sono sicuri”, gli uffici che vagliano le richieste di asilo sono chiusi e l’elaborazione dei dati è sospesa. Intanto, nella stessa Italia, 200mila lavoratori agricoli irregolari vivono in insediamenti non ufficiali sovraffollati in condizioni igieniche precarie e senza acqua corrente, il che rende impossibile applicare le norme di distanziamento sociale imposte dal governo per abbassare il tasso di contagio.

In Francia, molti vivono in campi improvvisati o in strada, e le organizzazioni non governative (ong) locali stanno lanciando l’allarme sull’imminente arrivo di una “emergenza sanitaria” e mettendo in discussione l’adeguatezza dell’operato del governo.

Nel Regno Unito, le ong fanno notare che la sospensione di varie reti di supporto mette sempre più in pericolo persone che si trovano già in una situazione precaria, e che l’atmosfera ostile scoraggia i clandestini dal chiedere aiuto. Nel complesso, in molti paesi europei i migranti non sono inclusi nel conteggio dei soggetti a rischio covid-19, e al tempo stesso non possono usufruire dei servizi sanitari e sociali. Quali sono le conseguenze di questa situazione, e come la si può cambiare?

Le conseguenze dell’invisibilità
L’invisibilità delle popolazioni in movimento in un periodo di pandemia può avere conseguenze sanitarie, economiche e sociali. Prima di tutto, vediamo chiaramente che i suoi effetti vanno ad aggiungersi alle disuguaglianze sociali già esistenti. Nell’affrontare i problemi di salute pubblica posti dall’epidemia di coronavirus, non si tiene conto delle popolazioni vulnerabili. Dato che l’atmosfera già ostile impedisce ai migranti di rivolgersi alle strutture sanitarie ufficiali, la diffusione e gli effetti della pandemia saranno più gravi tra queste popolazioni. Sono già a rischio a causa della mancanza di accesso alle informazioni e ai servizi igienici, ma a questo si aggiunge la vulnerabilità economica che li costringe a cercare lavoro mentre altri possono scegliere di rimanere a casa.

L’esclusione di alcune persone dall’impegno comune per contrastare la diffusione del Sars-covid-2 provocherà un’esposizione maggiore e più prolungata di queste persone agli effetti del virus. Questo a danno non solo della loro salute, ma anche della salute della società nel suo complesso, perché se non si riesce a contenere il virus, questo continuerà a diffondersi.

Un migrante a Lepe, in Andalusia, Spagna, 7 maggio 2020. (Niccolò Guasti, Getty Images)

In secondo luogo, l’invisibilità può provocare una grave asimmetria sia dal punto di vista economico sia da quello dei rapporti di lavoro. Nell’agricoltura, nell’edilizia, nel mercato dei lavori temporanei, e non solo, l’invisibilità non solo incoraggia lo sfruttamento, ma produce anche una forte asimmetria tra il contributo dei lavoratori immigrati alla risposta al covid-19 e la loro sottorappresentazione nelle statistiche. Per esempio, alcuni paesi europei come l’Austria e la Germania stanno importando lavoratori stagionali dall’Europa orientale per la raccolta di verdure come gli asparagi. La ministra dell’agricoltura italiana Teresa Bellanova ha recentemente proposto di concedere ad alcuni dei circa 600mila immigrati irregolari presenti nel paese un permesso di lavoro temporaneo per colmare la carenza di manodopera nel settore agroalimentare.

Ma le asimmetrie permangono in settori lavorativi che sono fondamentali per rispondere alla pandemia. Nelle città europee, gli addetti alle consegne alimentari sono perlopiù migranti che non possono permettersi di “stare a casa” senza guadagnare. Secondo il Migration policy institute, negli Stati Uniti, i lavoratori stranieri costituiscono il 38 per cento dei badanti e una buona fetta di quelli che lavorano nella produzione e nella distribuzione dei generi alimentari, settori che sono in prima linea nella lotta al coronavirus.

In terzo luogo, l’invisibilità ha anche conseguenze sociali, perché contribuisce ad alimentare il razzismo e la xenofobia. In Italia, per esempio, un paese dove l’immigrazione è spesso associata a un diverso colore della pelle e i pazienti ospedalizzati sono per la maggior parte bianchi, sui social media si stanno diffondendo leggende pseudoscientifiche. Non solo queste spiegazioni di una presunta immunità al virus alimentano il razzismo, mancano di qualsiasi base scientifica e non tengono minimamente conto delle prove empiriche costituite dalle comunità afroamericane tragicamente e sproporzionatamente colpite dal virus sull’altra sponda dell’Atlantico, ma riaccendono classificazioni razziali e concetti genetici pseudoscientifici che speravamo fossero stati sepolti con l’antropologia coloniale del diciannovesimo secolo.

Inoltre, impediscono possibili spiegazioni socioscientifiche, e le politiche che ne conseguirebbero. Se gli invisibili sono meno inclini a chiedere aiuto nel momento in cui ravvisano i sintomi del covid-19, questo potrebbe essere dovuto alla loro tendenza ad associare il sistema sanitario alle autorità repressive, alla loro scarsa competenza linguistica e alla frammentazione delle reti sociali: tutte ipotesi sulle quali bisognerebbe indagare se si vuole fermare il contagio.

Per una corretta visibilità
Considerato tutto questo, l’attuale emergenza probabilmente ci impone di rivedere il rapporto tra dati, visibilità e popolazioni. Le soluzioni istituzionali sembrano andare timidamente nella direzione di rendere i migranti più visibili. In Italia, l’introduzione dell’autocertificazione obbligatoria per uscire di casa è stata sufficiente a fermare la catena della produzione agricola, dato che la forza lavoro è costituita in buona parte da immigrati irregolari. Di conseguenza, il ministero dell’agricoltura sta cercando di superare l’impasse creando un nuovo registro di lavoratori agricoli.

Perfino la studiosa e scrittrice americana Shoshana Zuboff, notoriamente critica nei confronti di quello che lei stessa definisce il “capitalismo della sorveglianza”, in un’intervista rilasciata al quotidiano italiano la Repubblica ha sorprendentemente affermato che le applicazioni per il tracciamento dei contatti dovrebbero essere obbligatorie e i dati raccolti dovrebbero essere gestiti da istituzioni pubbliche.

L’inclusione di fatto comporterebbe il riconoscimento dei diritti civili e l’accesso per tutti a servizi come la sanità e l’assistenza sociale

Ma il ragionamento di Zuboff non funziona per le popolazioni vulnerabili, che non hanno nessuna voglia di essere tracciate e hanno un’innata diffidenza nei confronti delle autorità. Diventare visibili grazie a un’applicazione del genere non si concilia con la loro paura di essere oggetto di repressione ed espulsione.

La questione allora è: come può la visibilità essere giusta? Le varie conseguenze dell’invisibilità che abbiamo elencato non sono isolate. Le forme di invisibilità si sommano tra loro. Come abbiamo già detto, i migranti spesso lavorano in settori precari dove regna lo sfruttamento, e che durante la pandemia sono diventati improvvisamente “essenziali”. Questo crea il paradosso per cui mentre adesso il loro lavoro è palesemente considerato vitale, quelli che lo svolgono non possono godere dei diritti civili, non vengono contati e quindi sono esclusi da qualsiasi tipo di aiuto.

È quindi fondamentale riflettere sul tipo di inclusione necessaria ai fini della risposta al covid-19: sarà una visibilità provvisoria per seguire il decorso del contagio, e permettere a quelli che sono immuni di ritornare nei frutteti e nelle case degli anziani per poi diventare di nuovo invisibili? O i diritti civili saranno garantiti in modo permanente a tutti quelli che ancora non ne godono?

Nel considerare il dilemma tra visibilità e invisibilità per le popolazioni in movimento, si aprono vari scenari che vanno dalla possibilità che governi repressivi approfittino di questa provvisoria uscita allo scoperto per identificare e tracciare gli irregolari a una forma di “inclusione civile di fatto”. L’inclusione di fatto comporterebbe il riconoscimento dei diritti civili e permetterebbe a tutti di accedere a servizi come la sanità e l’assistenza sociale.

Sarebbe un modo infrastrutturale (ma comunque politico) di riconoscere i migranti come membri della comunità e allo stesso tempo proteggerli. In pratica, comporterebbe una visibilità protetta. Vediamo ora quali sono le condizioni in cui contare gli invisibili può portare a questa seconda soluzione.

Contare in modo giusto
A nostro avviso, per poter contare i migranti invisibili nel modo più giusto è necessario agire su vari fronti. Prima di tutto, dobbiamo riflettere bene su come contarli e quale infrastruttura digitale usare a questo scopo.

Tanto per cominciare, è necessario agire nel rispetto dei principi contenuti nel Regolamento generale sulla protezione dei dati (Gdpr) dell’Unione europea, in particolare per quanto riguarda la loro minimizzazione (la raccolta dei dati deve essere finalizzata a scopi specifici, espliciti e legittimi). Ma bisognerebbe anche impegnarsi a rispettare la correttezza e la trasparenza, quindi i dati personali dovrebbero essere elaborati in modo che sia verificabile dai soggetti e, vorremmo aggiungere, che rispetti i princìpi della responsabilità e del controllo tipici della democrazia.

In altre parole, il conteggio che proponiamo dovrebbe mirare a proteggere le popolazioni vulnerabili e le società che le ospitano, piuttosto che all’esclusione, alla discriminazione o alla repressione. A questo fine, è necessario garantire che la raccolta e l’uso dei dati non consentano discriminazioni in futuro, e che, per esempio, quelli sulle condizioni di salute raccolti durante l’emergenza della pandemia non possano essere usati contro i migranti in seguito.

In questo processo di elaborazione di regole per contare le popolazioni vulnerabili, bisogna poi prendere in giusta considerazione le caratteristiche dell’infrastruttura usata. Sebbene “invisibili” in sé, le infrastrutture digitali – compreso il modo in cui sono state progettate e integrate e a chi appartengono – sono parte integrante di qualsiasi processo decisionale che riguardi le modalità di conteggio soprattutto per quanto concerne la proprietà e il controllo da parte di enti pubblici o privati.

Un secondo punto, strettamente collegato al precedente, è che l’accesso ai diritti civili deve comprendere anche il diritto a essere cancellati da qualsiasi database, e di non essere tracciati al di là delle finalità originarie (come prevede il Gdpr). I dati delle persone in movimento sono già conservati nei sistemi di identificazione e registrazione usati alle frontiere.

In aggiunta a questo, essere inseriti in un database della sanità o dell’assistenza sociale spesso significa entrare a far parte di un sistema di controlli incrociati che possono essere invasivi della vita privata e influire pesantemente su certe scelte personali. Dato che molti registri sono anche strumenti di controllo e di sorveglianza, l’inclusione dovrebbe comprendere anche il diritto a essere dimenticati. Senza contare che qualsiasi misura restrittiva o invasiva dovrebbe essere accompagnata da clausole di caducità, in base alle quali qualsiasi raccolta di dati che sia in qualche modo invasiva della privacy possa cessare di avere effetto quando, per esempio, diventa disponibile e viene ampiamente somministrato un vaccino.

Un terzo punto è che, poiché sappiamo che la pratica del conteggio va a vantaggio di chi conta più che di chi è contato, proponiamo un accordo tra le diverse organizzazioni coinvolte sulla necessità di un controllo da parte del pubblico. Queste organizzazioni comprendono, come minimo, le organizzazioni dei migranti, i centri di accoglienza, le istituzioni sanitarie pubbliche, le organizzazioni internazionali e le ong, le strutture territoriali. Anche questo comporta una serie di problemi, tra cui quello dell’interoperabilità dei database, quindi le diverse organizzazioni dovranno trovare un punto di incontro tra concetti di sanità pubblica che variano a seconda delle loro esperienze e dei loro valori. L’alternativa sarebbe un prolungamento della crisi sanitaria o una centralizzazione della raccolta dati da parte delle autorità statali o di società private.

La vera sicurezza
Infine, e soprattutto, il tipo di conteggio proposto dovrebbe tenere conto del regime europeo di governo delle migrazioni, e invertire la priorità attribuita nel 2015 ai dati sulla sicurezza rispetto a quelli sanitari. La ricerca che abbiamo condotto per Processing citizenship ha dimostrato che nei paesi al confine europeo, in origine la valutazione delle condizioni di salute era la preoccupazione principale al momento dello sbarco di persone salvate in mare.

Ma con l’”approccio hotspot” introdotto nel 2015, per motivi di sicurezza sono diventati prioritari i database amministrativi. Se non altro, il Sars-cov-2 ci ha ricordato in modo inequivocabile la necessità di riportare al primo posto i dati sanitari.

Per concludere, non possiamo che sottolineare che l’insieme delle nostre proposte – soprattutto per quanto riguarda la protezione e la minimizzazione dei dati, l’obbligo di attenersi alle finalità originarie e le clausole di caducità – è valido anche per l’utilizzo di applicazioni di tracciamento per la popolazione in generale. Il che ci porta a chiederci fino a che punto qualsiasi sistema di conteggio per contenere il virus può essere efficace se si continua a fare distinzione tra le popolazioni.

Riflettendo su come è possibile includere correttamente gli invisibili nel conteggio che oggi più ci interessa, potremmo finire per renderci conto della necessità di ridefinire anche la maggior parte delle classificazioni delle persone visibili. Una soluzione più completa sarebbe ripensare i servizi essenziali per fare in modo che includano tutti i residenti in un certo paese indipendentemente dal loro stato giuridico. La difficoltà sta tutta nel garantire che questa ridefinizione sia più inclusiva possibile. Questo potrebbe significare cambiare il modo in cui l’Europa vede i suoi cittadini e anche il ruolo che svolgono le infrastrutture digitali in questo nuovo conteggio inclusivo.

(Traduzione di Bruna Tortorella)

Ringraziamenti

Si ringrazia Chiara Milan (università di Graz) per aver condiviso le sue informazioni sull’attuale situazione nei Balcani riguardo alle migrazioni e alla pandemia.

Gli autori hanno ricevuto i seguenti sostegni per la ricerca, redazione e la pubblicazione di questo articolo: Processing citizenship (2017–2022, Grant agreement No. 714463) e Datactive (2015–2020, Grant agreement No. 639379), entrambi finanziati dal Consiglio europeo della ricerca nell’ambito del programma dell’Unione europea per la ricerca e l’innovazione Horizon 2020.

Questo articolo è uscito su openDemocracy.

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