Si può dire tutto e il contrario di tutto. Sulla battaglia di Gaza del 30 marzo e del suo bilancio gravissimo, con sedici morti e 1.400 feriti, tutti palestinesi, potremmo dire prima di tutto che Israele ha risposto con il fuoco e i cecchini a una manifestazione sostanzialmente pacifica, in cui soltanto una minoranza di giovani ha lanciato pietre e dato fuoco a pneumatici, e che la risposta sproporzionata è tanto più grave se pensiamo che nessun manifestante ha cercato di varcare la frontiera tra la Striscia di Gaza e Israele.

Questa constatazione è assodata, ma è altrettanto vero che si trattava della prima giornata di un’iniziativa concepita per durare sei settimane e che le autorità israeliane non avevano una soluzione facile a disposizione. Se si fossero accontentate dei gas lacrimogeni e dei proiettili di gomma avrebbero rischiato che un numero maggiore di persone si avvicinasse alla frontiera, cercando magari di oltrepassarla. In quel caso non ci sarebbero stati sedici morti, ma un bagno di sangue ancora più grave, che avrebbe potuto incendiare la Palestina e mettere Israele in una posizione più difficile.

Divisioni paralizzanti
Mostrando tutta la sua determinazione, il governo israeliano ha cercato di stroncare sul nascere un movimento di ribellione di massa palestinese che preoccupa visibilmente Tel Aviv. Nei prossimi giorni scopriremo se gli israeliani saranno riusciti nel loro intento. A questo punto qualsiasi previsione sarebbe prematura, ma quel che è certo è che il braccio di ferro del 30 marzo mette in evidenza l’impasse tra Palestina e Israele.

I palestinesi restano divisi tra gli islamisti di Hamas, al potere a Gaza, da cui Israele si è ritirato nel 2005, e i laici di Al Fatah, disposti ad accettare la coesistenza con Israele e attualmente in controllo di parte della Cisgiordania. Questa divisione è sufficiente a condannare i palestinesi all’impotenza, perché disperde le forze e impedisce ogni tentativo di negoziato. Inoltre, approfittando della debolezza dei palestinesi, la destra israeliana prosegue inesorabilmente la sua opera di colonizzazione dei territori occupati, tanto che è ormai quasi impossibile immaginare la nascita di uno stato palestinese indipendente.

I palestinesi sembrano senza speranze, ma per quanto Israele possa contare sulla forza delle armi, del sistema scolastico e dell’economia, la sua debolezza è altrettanto palese, perché rifiutando la soluzione dei due stati la maggioranza di destra ed estrema destra lascia soltanto un’alternativa: o Israele diventerà uno stato basato sull’apartheid, dove i palestinesi non avranno diritto di voto, o i palestinesi diventeranno israeliani, e gli ebrei si troveranno presto in minoranza. In entrambi i casi sarebbe la fine di Israele.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it