Alla fine di aprile l’ong statunitense Human rights watch (Hrw) ha pubblicato il rapporto A threshold crossed (La soglia oltrepassata) in cui ha denunciato le violazioni dei diritti dei palestinesi commesse da Israele, che sarebbero classificabili come crimine di apartheid, secondo la definizione data dalla Corte penale internazionale (Cpi). Un mese dopo il New York Times, pubblicando un articolo intitolato “Erano solo bambini” accompagnato dalle foto dei 67 bambini e ragazzi palestinesi uccisi dai raid israeliani sulla Striscia di Gaza e dei due bambini israeliani uccisi dai razzi di Hamas, ha oltrepassato una nuova soglia nella guerra mediatica israelo-palestinese.
Per la prima volta il grande quotidiano statunitense ha cambiato prospettiva e mostrato che “le vite palestinesi contano”. Oggi anche al congresso di Washington i parlamentari progressisti chiedono più equità su questo tema. Cinquecento persone che lavorano nello staff del Partito democratico e hanno partecipato alla campagna elettorale di Joe Biden hanno inviato una lettera al presidente chiedendogli un “approccio più equilibrato” alla questione. Secondo l’esperto di Medio Oriente H.A Hellyer, del centro studi Carnegie, “la domanda da farsi non è se le politiche statunitensi cambieranno, ma quando”.
In Europa, invece, la copertura del conflitto sembra rimasta la stessa di vent’anni fa. Cosa sta succedendo all’Europa, da sempre paladina del diritto internazionale e umanitario, che oggi sembra rendersi complice di gravi violazioni in questo campo? La domanda è stata posta in diverse occasioni in Europa e in particolare se n’è discusso in un seminario che si è svolto online il 31 maggio 2021 intitolato Storia in divenire. Esistenza, violenza e aspettative in Palestina e Israele, organizzato da tre centri di ricerca europei: l’Istituto affari internazionale di Roma, l’Istituto universitario europeo di Firenze e Sciences Po di Parigi.
Sconnessi della realtà
Amjad Iraqi vive ad Haifa e scrive per il sito israeliano +972 Magazine. Da palestinese cittadino di Israele, sorride prima di commentare la posizione europea: “L’Europa ha bisogno di capire a che punto è arrivata la conversazione sul campo. Deve aggiornare i suoi dossier. Qui nessuno parla più della soluzione a due stati. A tutti risulta chiaro che ormai c’è un unico stato, Israele, con in mezzo dei bantustan per i palestinesi”. È quasi comico, osserva Iraqi, vedere gli europei sforzarsi di edulcorare i discorsi della destra o dell’estrema destra israeliane, giustificando azioni che alcuni israeliani praticano senza il minimo imbarazzo. Continua Iraqi: “Se il premier Benjamin Netanyahu dice: ‘Sostengo l’annessione della Cisgiordania’, gli europei traducono: ‘Oh no, in realtà sostiene ancora la soluzione a due stati’. Se il governo israeliano dice: ‘Abbiamo votato una legge sullo stato-nazione ebraico in base alla quale gli ebrei hanno più diritti’, l’Unione europea traduce: ‘Israele è una democrazia che offre pari diritti ai suoi cittadini’. Gli europei devono smetterla di giustificare sempre Israele in questo modo!”.
Da Gaza il giornalista Muhammad Shehada spiega quanto gli inviti della comunità internazionale a non esacerbare il conflitto siano percepiti come ipocriti dagli abitanti della Striscia. Sono anni che i palestinesi di Gaza hanno provato a giocare la carta della non violenza: basti ricordare l’enorme mobilitazione pacifica della marcia del ritorno negli anni 2018 e 2019, che secondo l’Onu, è costata la vita a 214 palestinesi, mentre altri 36.100 sono stati feriti. “Con la marcia del ritorno”, spiega Shehada, “pensavamo di conquistare i favori della comunità internazionale. E invece cos’è successo? Un silenzio assordante, mentre molti giovani venivano uccisi o menomati per la vita. Se fai un giro a Gaza, puoi vedere tanti ragazzi che hanno perso un braccio o una gamba perché hanno manifestato pacificamente”.
Le rappresentanze diplomatiche europee sono due: una a Tel Aviv per parlare con Israele, una a Gerusalemme per parlare con i palestinesi
Secondo Inès Abdel Razek, responsabile delle campagne dell’Istituto palestinese per la diplomazia pubblica, in un contesto di abbandono internazionale l’Unione europea è considerata irrilevante, perché “bloccata nei meandri di un ‘processo di pace’ che ha portato solo alla burocratizzazione dell’Autorità palestinese e ha finito per creare comitati su comitati, basati su falsi presupposti”. Le rappresentanze diplomatiche europee sono sempre due: una a Tel Aviv per parlare con Israele, una a Gerusalemme per parlare con i palestinesi. Gli europei fanno ancora finta che ci siano due stati, due parti. Oggi, precisa Razek, “il quadro è totalmente cambiato per via delle annessioni israeliane. Solo gli europei continuano a parlare dei ‘due stati’ nei negoziati. Invece, non c’è più un conflitto da negoziare, ma una situazione coloniale di apartheid. Quello di cui dobbiamo discutere sono i diritti”.
L’evoluzione della posizione europea
Questa posizione europea “lontana della realtà”, spiega in un’intervista Daniela Huber, responsabile del Programma Mediterraneo e Medio Oriente dell’Istituto affari internazionali e autrice di The international dimension of the Israel-palestinian conflict (la dimensione internazionale del conflitto israeliano-palestinese), non è sempre stata cosi: “Prima degli accordi di Oslo, la comunità europea costituita da dodici membri contestava fortemente l’approccio statunitense: parlava di diritto all’autodeterminazione e di insediamenti illegali”. Per Huber il cambiamento è arrivato negli anni novanta quando gli Stati Uniti hanno incluso gli europei nel processo di Oslo. L’Europa allora ha cominciato a cambiare vocabolario. Gli insediamenti non erano più “illegali” ma “illegittimi”.
Se negli anni ottanta i leader europei promuovevano il dialogo con l’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp), considerata un’organizzazione terroristica dagli statunitensi, si sono poi allineati sulle posizioni di Washington per non parlare con Hamas, che hanno cominciato a definire come un gruppo terroristico. Sulla questione dell’autodeterminazione si sono ritrovati con un’equazione impossibile da risolvere, spiega Huber: “La soluzione a due stati implica il diritto all’autodeterminazione, che però è impossibile da mettere in atto in una situazione dove c’è un occupante e un occupato”.
Il riposizionamento europeo, spiega Huber, è arrivato in un momento in cui l’ordine internazionale era dominato dagli Stati Uniti: in un’Unione europea che si stava ampliando, la posizione americana metteva tutti d’accordo. Storicamente quest’atteggiamento ha fornito “una copertura” più che una soluzione al conflitto.
Incapacità o complicità
Ora questa stessa copertura proviene direttamente dall’Europa. È il riflesso di un’Unione “paralizzata dalle sue divisioni interne”, scrive Le Monde, e sotto pressione per il crescente numero di leader di estrema destra, come l’ungherese Viktor Orbán, che ha stretto una forte alleanza con Netanyahu? Oltre a questo, un elemento ancora più preoccupante sono le dichiarazioni britanniche e tedesche contro la Cpi – la cui creazione è stata fortemente voluta da questi stessi paesi – che rimettono in discussione le basi del diritto internazionale umanitario.
Su Foreign Policy, Benjamin Haddad esamina nel dettaglio le ragioni di questo cambiamento europeo: “Questa mutazione è il simbolo di qualcosa di più profondo. Di fronte agli attacchi terroristici negli ultimi anni, gli europei hanno sempre più associato Israele a un paese che affronta sfide simili. Aurore Bergé, portavoce della République en marche! – il partito del presidente Macron – al parlamento francese, ha dichiarato: ‘Abbiamo un fronte comune con Israele: la lotta al terrorismo islamista’. Più che mai, è ciò che ci avvicina e questo spiega il cambiamento diplomatico in Europa”.
L’ultimo colpo a livello europeo è stato dato dalla guerra civile siriana che ha raggiunto l’apice nel 2013. L’Unione da allora ha deciso di fortificare le sue frontiere e i migranti mediorientali sono stati circondati da “un cerchio di fuoco”, spiega Huber.
La studiosa intravede comunque dei piccoli cambiamenti a livello europeo. Nelle università il lavoro dello storico palestinese Rashid Khalidi sul colonialismo israeliano è sempre più studiato e nelle risoluzioni europee, su pressioni dei paesi nordici, si chiede di risalire alle “radici” del conflitto israelo-palestinese. Il parlamento irlandese ha approvato a maggio una mozione che condanna l’”annessione di fatto” dei territori palestinesi da parte delle autorità israeliane. È il primo dei 27 paesi dell’Unione europea a farlo.
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