Era malato da un anno, ma nulla gli aveva impedito di lavorare e portare avanti i suoi progetti. Sempre la stessa energia, la stessa volontà, la stessa determinazione. Che gli avevano permesso per più di trent’anni di dare forma allo spazio, al mondo, e di mettere in discussione l’organizzazione della città e definire il concetto di territorio. Aveva cominciato nella sua Milano, con i Ritratti di fabbriche. Foto chiuse, frontali, rigorose, che raccontavano senza pathos la fine di un’epoca industriale di cui amava gli operai quanto l’architettura.

Lui, uno dei pochi che si possono chiamare “architetto fotografo”, non ha mai smesso di porre domande: era la premessa indispensabile e la base stessa della sua opera. Non si trattava solo di rappresentare, ma di fare le domande giuste. Come nel caso in cui esplorò il litorale francese o quando ha partecipato a un altro progetto collettivo a Beirut, con i più grandi. Bisognerebbe citare tutto, da

Istanbul alla Provincia antiqua. E poi Mosca, Shanghai, San Francisco, Roma.

Era un uomo dei libri, innamorato delle pagine, della filosofia, delle idee e del confronto. Non poteva cominciare un progetto senza averlo formulato sul piano intellettuale. Di lui voglio conservare solo il ricordo dei momenti condivisi, la forza, le immagini che sanno mettere insieme tutto senza formalismi e la sua risata, una risata che poteva diventare amara. Ciao Gabriele.

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