Non sappiamo chi vincerà le elezioni americane del 3 novembre, ma sappiamo già chi vincerà gli Oscar ad aprile. Il trailer di Hillbilly elegy di Ron Howard fa capire che aria tira; interpretato da Glenn Close e Amy Adams nei panni di madre e figlia, il film riprende i temi del libro Hillbilly elegy: a memoir of a family and culture in crisis di J.D.Vance che fu un caso nel 2016, l’anno in cui venne eletto Donald Trump.
L’assunto del libro è questo: come fa un ragazzino a emanciparsi da generazioni di uomini e di donne degli Appalachi cresciuti tra sussidi sociali, bassa scolarizzazione, relazioni violente e tossicodipendenze? Una famiglia così è vittima di un sistema che non le garantisce risorse e di fatto la disprezza, oppure in mezzo alla sua sofferenza prova forme di orgoglio e di difesa della propria subcultura, rifiutandosi di partecipare al cambiamento politico, senza riporre troppe speranze in chi va alla Casa Bianca?
La tesi di fondo dell’autore è che l’America rurale e impoverita fatica a uscire dal proprio stato di miseria perché preferisce rinunciare all’etica del lavoro e all’amore per se stessa, vivendo in un’indolenza stordita e quasi compiaciuta. Non sono posizioni molto lontane da quelle di Kanye West quando qualche anno fa dichiarava che se gli afroamericani sono rimasti schiavi per quattrocento anni dev’esserci una ragione: è una scelta. Secondo Vance e West le minoranze restano tali per una forma di complicità con il disastro, per scarsa tenuta etica e per una disciplina frustrata che spesso si trasforma in violenza. Più che la miseria, è la cultura della miseria il loro problema.
Una delle conseguenze del covid-19 è stata mostrare che la classe lavoratrice americana è tutt’altro che bianca e fatta solo di maschi
Qualsiasi componente di una comunità ha il diritto di uscirne o di rivendicarla in base a un vissuto: il problema è quando una testimonianza viene elevata a sistema sulla base dell’appartenenza di una singola persona a quel tessuto sociale. Ma del resto è una tendenza della letteratura contemporanea e del modo che abbiamo di fare politica e concepire l’empatia adesso: una cosa è “vera” solo se vissuta con il corpo e l’esperienza. Sia Vance sia West sono dei fuoriusciti dalle comunità di cui parlano: uno ha lasciato l’Ohio per arrivare a Yale, l’altro è diventato un miliardario che vive nell’iperuranio. I loro racconti sono memorie, residui di conflitti personali, hanno un costo e spiegano molto della loro psicologia e del loro eventuale lascito artistico, e solo qualcosa dei movimenti tellurici di una nazione.
Come prevedibile, nel 2016 il libro di Vance venne accolto come esempio perfetto per spiegare che la sinistra aveva abbandonato i poveri e i poveri si erano vendicati votando Donald Trump. Mentre i repubblicani in realtà rastrellavano i voti di lobbisti, imprenditori ed eleganti reazionari che in pubblico non avrebbero mai confessato di votare per Trump perché non figurava bene nel curriculum, i democratici avevano trovato i veri responsabili del loro fallimento. Erano stati loro a tradire: i lavoratori a occupazione ridotta. Gli hillbillies. I redneck. I poveri non amati. I bianchi dimenticati. Gli impresentabili: sono anni che proletari e sottoproletari di qualsiasi capitale occidentale vengono messi al centro del discorso in prossimità del voto; avrà pochi diritti sostanziali e pochi mezzi, ma sulla white working class (classe lavoratrice bianca) c’è una quantità infinita di ricerche e sondaggi.
Oltre a non essere corroborato dai dati – è vero che nel 2016 il 60 per cento della classe lavoratrice bianca ha votato per lui, ma queste persone rappresentavano solo il 30 per cento del totale dei suoi elettori – questo approccio tende a perpetuare un’idea di classe lavoratrice già vecchia nel primo dopoguerra (è la stessa svista prospettica di cui ha peccato anche Bernie Sanders durante la sua campagna del 2016), come se tutti i neri, le donne e i queer accusati di essere ossessionati dalla propria identità fossero iscritti a qualche facoltà umanistica a ripassare Foucault e Butler e non lavorassero anche nei supermercati, alle poste o nella corsia di un ospedale.
Un cuore povero e brutto
Una delle conseguenze del covid-19 è stata mostrare su qualsiasi tipo di giornale ed emittente nazionale come la classe lavoratrice americana sia tutt’altro che bianca e fatta solo di maschi, e non somiglia più a una canzone di Bruce Springsteen da un bel pezzo. Le cronache degli essential workers (lavoratori essenziali) stremati dalla fatica che hanno svolto i servizi di prima necessità, hanno reso evidente una popolazione multigenerazionale, multirazziale e dalla storia composita. Il problema è che spesso questa parte di classe lavoratrice non vota, perché le viene reso difficile se non impossibile farlo a causa di meccanismi farraginosi. Come altri subalterni che vivono di sussidi e con una copertura sanitaria insufficiente o magari scontano una pena in carcere, come tanti camerieri e magazzinieri senza permessi, a differenza della classe lavoratrice bianca che fa da capro espiatorio, questa parte della popolazione non ha neanche la visibilità sufficiente da essere ritenuta colpevole, e resta pressoché ignorata dai programmi elettorali.
La consapevolezza sempre maggiore di tante altre forme di povertà negli Stati Uniti, in cui la classe si interseca con la questione razziale e di genere, dimostra perché il film di Ron Howard arriva con quattro anni di ritardo. L’antifavola americana in cui il ragazzo si emancipa dalla famiglia e dalla provincia fatta di denti marci, corpi sfigurati e alcolici distillati in casa grazie allo studio e all’integrità personale, non ha più una potenza catartica per espiare il senso di colpa dei democratici, e neanche il loro rabbioso disorientamento. Non che le persone che hanno visto chiudere fabbriche su fabbriche siano scomparse, non che le loro condizioni siano migliorate, anzi: ma la retorica per cui devono addossarsi il peso di un intero collasso democratico non regge. La loro rappresentazione come creduloni idrofobi ostaggi di Donald Trump è diventata sempre più macchiettistica.
Eppure, sul piano dell’immaginario, il mito della white working class trumpiana e abbandonata dalla sinistra continua a perpetuarsi. Amy Adams probabilmente si porterà a casa un Oscar confermando la tradizione per cui per dimostrare il proprio talento bisogna sfigurarsi: dopo gli attori e le attrici che si sono prestati alla disabilità, alla bruttezza, alla deformità, quest’anno la deformazione sarà di classe sociale. A quel punto saranno passati mesi dalle elezioni, forse il vincitore sarà insediato, forse Trump ricorrerà a dei cavilli per rifiutare un risultato che lo vede in svantaggio facendo ricorso a una corte suprema che ha contribuito a blindare. Tanto non cambia, il mito della classe lavoratrice bianca da cui discendono tutte le colpe è versatile. Se vince Trump, Hillbilly elegy sarà un film che spiega perché ha vinto, di nuovo. Se vince Biden, sarà la dimostrazione che l’America si è ricordata del suo cuore povero e brutto ed è disposta ad amarlo ancora. Nessuna di queste interpretazioni dice più molto sul presente.
I bulli della mia infanzia
In un bell’articolo uscito sul Guardian, Nathalie Olah parla di come il cantante dei Fat White Family se la sia presa con gli Idles, un gruppo punk-rock di Bristol che negli ultimi anni ha fatto parlare di resurrezione del punk impegnato (forse un po’ ingenuamente), perché si appropriano della retorica working class pur essendo di classe media, e si fregiano del compito di rendere le classi popolari meno maschiliste, scrivendo inni di solidarietà agli immigrati.
Per il cantante dei Fat White Family sarebbe troppo facile comporre inni da progressisti a partire da posizioni di sicurezza e privilegio, mentre tantissime persone nel Regno Unito vivono in condizioni di miseria e indifferenza tali da far diventare la loro disperazione inevitabilmente violenta. Il razzismo di molti britannici che vivono ai margini non sarebbe tanto una scelta quanto un effetto collaterale della povertà. Se queste frange popolari passano a destra e assumono posizioni xenofobe, è perché spesso non hanno alternative.
È una storia nota e che si basa su molti dati di realtà, ma insufficiente se presentata soltanto così: studiando la composizione dell’alt-right (la cosiddetta destra alternativa) e dei fanatici di Trump o di Farage, si riscontra una tessitura sociale molto più articolata.
“Quando guardo le foto dei cortei di estrema destra e vedo uomini che vestono capi Stone Island e Fred Perry, non vedo le persone deprivate e oppresse e umiliate dalla povertà estrema, ma i bulli della mia infanzia, quelli che pensano che tutto gli sia dovuto, qualcosa che ho ritrovato a Eton molti anni dopo; ego fragili e intimoriti dalla crescente convinzione di non avere più spazio per dominare la scena”, scrive Olah, svelando la stanchezza di certe teorie che riducono tutto alla classe svuotandola di lotta e significato senza tenere conto di fattori ambientali e di alcune derive narcisiste che riguardano più il carattere (o un’eventuale disgregazione psichica) che il salario o la sua assenza. Sono anni che le due interpretazioni “non sono razzisti e fascisti, sono poveri e disperati” oppure “non sono poveri e disperati, sono razzisti e fascisti” si scontrano sul campo senza produrre risultati utili e stabili.
È un binarismo inefficace, sia perché non tiene conto di come i rapporti tra la cultura e le proprie condizioni di vita siano stati alterati dai social network che permettono di creare idee fittizie di mobilità sociale, facendo sì che tanti disconoscano le cause del proprio malessere e non lottino per alterarle in un continuum di desideri frustrati, sia perché non considera la vera massa elettorale strumentalizzabile e confusa a cui parlano i candidati delle elezioni presidenziali. Elettori che vivono in continuità con il proletariato e lo temono, ma che di fatto non gli appartengono, e hanno paura di somigliargli.
A chi parlano davvero Trump e Biden
In queste settimane, mentre tutti gli analisti parlavano di “Proud Boys stand by” (il gruppo di estrema destra che Trump si è rifiutato di condannare durante il primo dibattito con Biden), dello spettro della dittatura, di antifa, di Russia, ambientalisti e Black lives matter stilando sondaggi così parcellizzati per cui tutto vale tutto, mi sono chiesta a chi stessero parlando Trump e Biden per davvero. Anche se i titoli insistono che l’attuale presidente in carica sia sostenuto da una falange di cospiratori negazionisti del nuovo coronavirus con la tigre nel ranch e il fucile in salotto, e l’avversario democratico sia molto vicino alla comunità afroamericana e destinato a beneficiare delle rivolte estive perché darà un messaggio più conciliante sulla segregazione razziale negli Stati Uniti (ereditando la base elettorale di Obama), i due candidati stanno dialogando soprattutto con un elettorato più opaco, di fascia media.
I fenomeni di protesta e gli attivisti radicali possono contribuire a trasformare l’immagine di un paese e a descriverne la traiettoria nel medio e lungo periodo, ma a confermare ed eleggere presidenti sono altre forze. Quelle che affollano le urne e raramente popolano le strade per manifestare, quelle che hanno sempre avuto il diritto di votare.
C’è stato un momento quasi sinistro nelle settimane antecedenti il primo dibattito fra i candidati presidenti in cui dietro al frastuono e alle immagini delle rivolte, dietro alle analisi sull’alt-right, la polizia deviata e i picchi di disoccupazione, gli sfratti e i morti per covid-19, Trump e Biden hanno parlato alle stesse persone: il primo ha detto che avrebbe riportato l’ordine nelle strade a costo di usare forze parastatali, e il secondo che avrebbe riportato la decenza, adottando il vocabolario della sinistra italiana ai tempi di Berlusconi. Messi da parte i discorsi sulla copertura sanitaria, la questione ambientale o il contenimento della pandemia, messi da parte i temi su cui potevano avere maggiori divergenze, Trump e Biden – seppur con scarti abissali di stile e maturità politica – hanno parlato di ordine e decoro: i due valori più cari a ogni classe media che ci sia. Anche a sinistra.
La classe media, oggi
Per capire queste elezioni presidenziali – elezioni che vengono presentate come le più drammatiche della storia per via di un’America divisa per bande radicalizzate che non si parlano –, bisogna evitare di farsi sedurre del tutto da racconti catastrofisti (la sofferenza di una nazione non è mai catastrofista, è una catastrofe e basta) e puntare lo sguardo su una progressiva desensibilizzazione della classe media verso i temi della giustizia sociale e le ideologie troppo appassionate e appassionanti.
Una classe che è sempre più anziana e pigra, vede la sua base del reddito deteriorarsi, non è più tanto traumatizzata dalla morte e vive una specie di nichilismo a bassa intensità, molto diffuso e metastatico, che travalica quasi le differenze fra i vari stati. Le priorità di queste persone che hanno abbastanza coperture da non morire per covid-19 se stanno abbastanza attente, che hanno ancora un lavoro, una pensione e delle assicurazioni per le spese in ospedale, è che il proprio assetto di vita per quanto declinante non venga stravolto più di tanto. La difesa del proprio spazio e di quanto accumulato è centrale anche per i cittadini meno sospetti: quando la città di New York ha spostato dei senza dimora negli alberghi di lusso uptown, gli intellettuali e residenti che si sono ritrovati degli alcolisti o delle persone affette da disturbi mentali davanti ai propri gradini di casa o alle scuole dei figli, hanno cominciato a scrivere editoriali preoccupati sul fatto che in una democrazia bisogna trovare spazio per tutti, ma magari lontano da casa loro.
È la stessa tensione che altera chi sta tra le file dell’alt-right a cui si riferisce Nathalie Olah sul Guardian – la conferma di un proprio ruolo e la possibilità di una scalata sociale – o perfino di chi si batte per rimuovere la cancel culture invocando la libertà di espressione e i valori democratici: sono tutte manifestazioni per difendere uno spazio, un potere che si è rosicchiato e messo da parte. Sono manifestazioni orientate alla propria sopravvivenza, nell’anno in cui per colpa del virus si muore di più.
Sono queste persone i potenziali ostaggi di Trump (o di Biden, direbbero gli altri): persone che possono spostare il proprio voto in maniera semplice, in maniera così cupa e flessibile. Votano chi la fa sentire ancora valide, ancora in vita. Se questa vita si basa sulla necessaria distruzione del più debole votano per Trump. Se questa vita si basa al massimo sull’eventuale e saltuaria rimozione dei problemi del più debole, votano per Biden.
È inutile dire quale modello sia preferibile, ma tra preferire una cosa e sentirla completamente giusta ce ne passa. È un piccolo scarto prezioso che andrebbe difeso: la disaffezione verso Biden va difesa pur votandolo; lo scetticismo verso una sua eventuale continuità con la politica estera di Obama e le sue strategie di espulsione dei migranti, va difeso. Quando Angela Davis ha dichiarato le proprie intenzioni di voto sostenendo che Biden sarebbe un presidente più influenzabile e richiamabile all’ordine, più esposto alle pressioni della società civile che chiede un cambiamento, non aveva torto: in un certo senso, un voto a Biden è un voto contro Biden, un voto che si propone di stanarlo per i prossimi quattro anni, sperando di spingerlo verso un programma migliore.
Un’apocalisse stanca
Le elezioni americane sono sempre eccezionali e magniloquenti, ma il covid-19 le fa somigliare a tante ipotetiche elezioni che nel 2020 potrebbero tenersi in altri paesi occidentali. Proprio come le capitali occidentali deserte, prive di lingue parlate per strada o mosse da nuove rivolte, cominciano a somigliarsi tutte sotto la pressione di un evento così imponente. Troppi morti e troppa disoccupazione, difficilmente un presidente in carica può sopravvivere a una congiuntura simile, anche se è bravissimo a fare le televendite e i giochi di prestigio.
Perfino le cospirazioni che tanto lo hanno tenuto in vita non riescono a rafforzarlo più di tanto. Né, d’altra parte, riescono a fornire alibi così forti al suo avversario per surclassarlo: in questi quattro anni ci sono state tantissime fiammate in cui si è temuto per la democrazia, quando di fatto la disgregazione è avvenuta in maniera più subdola e logora, tanto che i documentari di Netflix che denunciano la manipolazione delle nostre coscienze tramite gli algoritmi e le notifiche di Facebook attivano un’indignazione affannata, che si esaurisce in un meccanismo di quasi autocannibalismo, e non dura a sufficienza da farsi posizione politica.
Lo stesso vale per il tentativo di Biden di rappresentare la Russia come un nemico pubblico, in una riproposizione di schemi da guerra fredda che ignora la natura extraterritoriale e diffusa degli algoritmi sballati e di altre forme di condizionamento al voto. Come tenta di spiegare Don DeLillo in The silence, la fine del mondo che immaginavamo non procede per fiammate, per scosse elettriche e neanche per pandemie, ma avviene con una specie di olocausto di ogni cosa che ci teneva connessi, ogni supporto tecnologico in cui ci siamo trasferiti, ed è di fatto un’apocalisse stanca, non elettrica. Spenta, appunto. E silenziosa.
Ci sono tantissime cose che l’amministrazione Trump ha bruciato e ha disperso nel fuoco negli ultimi quattro anni. Tra queste, ci sono alcune idee e interpretazioni politiche che non ci mancheranno. La prima è appunto che la classe lavoratrice negli Stati Uniti sia sempre simile a se stessa, manovrabile, e non caratterizzata invece da un sommerso indicibile, da fenomeni rigenerativi che non riescono ad arrivare nelle urne ma portano avanti un discorso di giustizia sociale. Le strade sono fatte di tante cose e la prima esigenza dopo queste elezioni sarà smettere di vederci sempre le stesse cose.
L’altra idea che sta sparendo nel fuoco, probabilmente per un eccesso di tensione, è che l’identità abbia trionfato su tutto, surclassando la necessità di diritti sociali a favore di diritti identitari. Gli eventuali sketch comici che vedono donne nere liberal ossessionate da un vocabolario che le rispetti e sono devote a Warren o Clinton opposte a un vero maschio bianco e lavoratore che pensa alla pagnotta, cominciano a essere stiracchiati, e infatti se ne vedono sempre meno.
Comunità e identità
Un’ulteriore conseguenza del covid-19 – e chissà se questa avrà un vero impatto sulle elezioni – è stata di ripristinare una parola un po’ vintage e molto americana come comunità. In tutto il dibattito su Black lives matter e sullo smantellamento della polizia, la parola comunità è ricorsa molte volte: togliere la polizia dai quartieri non significa far sparire presidi e forme di interesse e di cura verso i cittadini come in una specie di videogioco anarchico che può appassionare giusto dei ragazzini che non hanno mai visto una pistola, ma significa riempire il territorio di operatori sociali e sanitari che sappiano prendersi carico di certe vite, ed evitare la solitudine di tante madri che hanno visto i propri figli morire per un eccesso di interesse da parte della polizia, o per la sua più totale indifferenza.
Il concetto di identità si è sgonfiato anche nell’iconografia che rappresenta la nazione: nelle rivolte che si sono scatenate dopo quelle di Ferguson, scoppiate dopo l’omicidio di Michael Brown da parte della polizia, erano ancora tantissime le immagini di militanti e attivisti strumentalizzate dalla pubblicità, corpi di uomini e donne neri condivisi senza alcun pudore per il peso della loro esistenza, mentre di queste rivolte estive ricorderemo soprattutto la statua del generale confederato Lee a Richmond, in Virginia, ricoperta di graffiti, e le varie statue legate alla storia del razzismo e del colonialismo abbattute dai manifestanti. Comunità, tuttavia, è anche una parola che descrive dei centri compatti, chiusi verso l’esterno, magari asfittici, in un’America fatta di tante Derry, la cittadina protagonista di molti romanzi di Stephen King; un paese capace di curarsi ma anche di cannibalizzarsi da solo, e di rinnovare certe regole del male grazie a un presidente che è un po’ un agente del caos e le incoraggia a farlo.
E così, mentre una parola vecchia come comunità torna a essere nuova, una parola onnipresente come identità diventa vecchia. In generale, gli statunitensi, che hanno inventato tutte le parole per descrivere le trasformazioni sociali degli ultimi anni, scoprono parole per loro desuete come socialismo, salute pubblica e sindacato: si spera che questo recupero lessicale anticipi un recupero politico, sostanziale.
Trump ha creato generazioni incattivite, abituate allo scontro, i cui riflessi si vedranno in futuro
L’altra idea che non ci mancherà grazie a Trump è quella di un’apocalisse che avrebbe purificato tutto, un’accelerazione negativa che avrebbe portato il sistema neoliberista al collasso. Se questa accelerazione doveva funzionare, questo era l’anno perfetto. Gli incendi e i cieli da Blade runner in California, la crisi sanitaria che si è sovrapposta perfettamente a quella economica – meno avevi e più morivi –, i ragazzini che escono di casa per dare man forte alla polizia e si creano eserciti personali. Sono stati quattro anni in cui l’apocalisse poteva rivendicare tutti i suoi meriti, imporre i suoi talenti, fare piazza pulita di tutto, fino a rendere Trump inservibile e di certo non candidabile per un secondo mandato. E invece si è rivelata per quel che è: un fenomeno falsamente democratico, sempre eucaristico, uno spettacolo che alcuni si godono in prima classe – Jeff Bezos, Elon Musk – altri in classe economica e altri ancora senza neanche salire sull’aereo della distruzione che porterà alla salvezza.
Comunque andrà il 3 novembre, anche questa volta sarà colpa di qualcun altro. Che vinca Joe Biden o Donald Trump, è improbabile che lo faccia con un margine tale da ridurre l’avversario a pezzi. Nessuno dei due rappresenterà un errore della storia, una svista o un equivoco.
Trump ha bruciato tantissime cose in questi quattro anni, ma altre ne ha seminate: ha creato generazioni incattivite, abituate allo scontro, i cui riflessi si vedranno per diverse elezioni a venire. Se perfino dopo vent’anni sono venuti fuori nuovi eredi di Berlusconi, è altamente plausibile che Trump avrà dei delfini alla sua altezza che già vivono nel futuro: è l’entropia del sistema, un paese invecchia e la sua politica non diventa migliore, se non per intervalli. Tra le persone che conosco e che hanno votato Trump nel 2016, nessuna lo rifarà. Ma ce ne sono altre che non conosco e che forse lo voteranno per la prima volta. E molto probabilmente non saranno persone oppresse dalla povertà e dall’umiliazione, ma somiglieranno ai bulli che conoscevo a scuola anche io.
Al netto della differenza di impostazione ideologica e dei valori che persegue, nessuno dei due è un candidato adatto a governare, eppure nessuno dei due rappresenta un abbaglio momentaneo: Trump è ferocemente detestato ma anche amatissimo da milioni di persone insospettabili, Biden non gode di queste passioni, ma sa generare un timido conforto compatibile con i desideri di tanti elettori, soprattutto se adulti e con una posizione sociale consolidata. Non suscita i desideri che suscitava Sanders, ma quanti presidenti sono stati votati per desiderio, alla fine? Nella loro inadeguatezza disorientata, i due candidati sono perfettamente allineati al loro tempo.
A prescindere dal risultato, ci sono due parole che imperversano ancora, e da cui qualsiasi discorso sugli Stati Uniti andrebbe bonificato. La prima è sogno e l’altra è democrazia.
Sono parole deboli e sconfitte, ma anche i loro opposti – incubo e dittatura – non spiegano molto. Queste iperboli camuffate del bene e del male non riescono a descrivere la vita di strane creature americane che sono sopravvissute al peggio negli ultimi quattro anni, e riescono a vivere anche quando il peggio resta; non riescono a descrivere un paese che non è né più giovane né audace, ma sclerotico, perché se gli Stati Uniti hanno meno storia di altri continenti, di sicuro hanno più geografie e autostrade, più deserti e ossessioni spaziali, e quest’ipertrofia conta. Un corpo invecchia non solo quando si sposta nel tempo, ma anche quando attraversa troppi ambienti e prova ad acclimatarsi in tutti. Sogno, democrazia, incubo, dittatura: sono parole incapaci di descrivere la vita di strane creature multiformi, che sguisciano nei sondaggi e non sono più prevedibili, strane creature che nonostante la stanchezza e il nichilismo a bassa intensità esprimono ancora un voto, una scelta. Loro che possono farlo, e che lo fanno: quando l’ordine e la decenza tornano, gli indecenti tornano nel buio.
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