Quando la tv via cavo statunitense Amc mandò in onda la prima puntata di Mad men, la serie ispirata alle agenzie pubblicitarie newyorchesi degli anni sessanta, era l’estate del 2007 e nei locali e negli uffici americani non si fumava già da cinque anni. L’episodio si chiamava Fumo negli occhi e parlava di una campagna promozionale per la Lucky Strike. Nel corso della puntata, ovviamente, tutti i personaggi fumavano moltissimo.
A vederla era inevitabile provare un senso di nausea: in quegli anni, il salutismo era diventato pervasivo e associato a nuove connotazioni morali, come se nell’essere sani ci fosse una specie di integrità etica. Non un’idea originale, ma mai tanto pubblicizzata come a partire dagli anni duemila, con la continua ricerca di integratori superenergetici dai poteri quasi esoterici, e con l’affermazione di una generazione di ventenni che invece di industriarsi a trovare nuove forme per stare sempre peggio – vedi gli slacker degli anni novanta –, si industriava a trovare nuove forme per stare sempre meglio, sostituendo le tossicodipendenze nichiliste con quelle new age.
È stata una trasformazione sociale che si è perfezionata negli ultimi vent’anni, fino al trionfo dell’atleishure e alle tenute da fitness sfoggiate anche per svolgere regolarissime attività quotidiane, in un percorso di addomesticamento alla buona salute che spesso ignora i costi sociali e personali richiesti dall’essere sani, e alle ambigue intersezioni tra yoga, mindfulness e vere e proprie forme di paralisi sociale (il tema della lotta per il cambiamento interiore a prescindere da quello esteriore va avanti almeno dagli anni sessanta e vive di ramificazioni infinite, basta osservare l’improbabile sodalizio tra hippie e neonazi in chiave no mask, o il cinismo di alcuni yogini affaristi).
L’imperativo dell’essere sani
All’improvviso, era come se lo straight edge (niente droga, alcol, tabacco e spesso anche niente sesso occasionale) praticato da tanti musicisti in ambito emo ed hardcore, nel tentativo di trovare forme di mascolinità meno tossiche e aggressive opposte al machismo rocker e violento – un approccio spesso legato al sostegno alle cause ambientaliste e delle minoranze –, fosse diventato la struttura dominante, ma senza quella consapevolezza politica e senza un genuino interesse per la comunità, assumendo invece connotazioni repressive e sinistre, tendenzialmente individualiste.
Senza saperlo davvero, gran parte del pubblico che quell’estate guardava Mad men era finito in un gorgo giudicante per cui le abitudini alimentari e gli stili di vita dei suoi protagonisti facevano schifo. Sempre in quel periodo, era plausibile che chi ascoltasse Amy Winehouse, pur apprezzandola come musicista, tendesse a ridicolizzarla a prescindere dal suo talento, perché si pensava che i suoi comportamenti facevano altrettanto schifo.
Nell’estate del 2007, mentre Don Draper si imponeva come reincarnazione perfetta del maschio americano gatsbiano e disperato, Amy Winehouse finiva sulle copertine dei tabloid con le ballerine insanguinate ai piedi e i graffi su tutta la faccia. Non era una punk fuori tempo: pure negli anni settanta la sua figura sarebbe stata massacrata e commercialmente sfruttata – basta pensare a Sid Vicious e al trattamento riservato a Nancy –, e la sua sofferenza non avrebbe trovato un contesto in grado di saperla leggere meglio, ma forse sarebbe apparsa meno aliena.
Nella vita di Amy Winehouse c’era una sua personale ideologia della ferita e un rifiuto nettissimo dell’”essere sani” che a Londra stava diventando imperante, ragion per cui molti dei suoi coetanei la trovavano ridicola e molesta. Amy Winehouse viveva e operava in un contesto in cui di lì a poco la sua stessa esistenza sarebbe diventata inimmaginabile, e forse non a caso aveva un rapporto molto intimo con i girl groups prodotti da un uomo poco raccomandabile come Phil Spector, che cantavano spesso di un amore fatale, arreso e fuorilegge; tutti temi poco compatibili con il femminismo empowered in crescita. Per sentirsi immaginabile e difendersi doveva andare indietro nel tempo.
La patina retrò
Le storie di alienazione maschile raccontate in Mad men, così come i testi spudoratamente romantici di Amy Winehouse, erano protetti dalla patina retrò. Mad men era una serie dall’ambientazione nostalgica perfetta, e poteva suscitare due effetti. Il suo modo di raccontare il sessismo sul luogo di lavoro, la subordinazione delle segretarie, l’adulterio, la discriminazione etnica e la mascolinità patriarcale, essendo appunto vintage, non attirava grosse critiche. Era una questione di verosimiglianza storica, di contestualizzazione.
E così, come tanti prodotti retrò riportati in auge in quegli anni, Mad men era fondamentalmente innocua, e le critiche sulla mascolinità problematica venivano neutralizzate sul nascere. Le stesse ragazze che oggi troverebbero improponibile un personaggio come Roger Sterling, tredici anni fa non facevano che venerarlo, anche perché era seducente e scritto benissimo, programmato per disinnescare la sua oscenità con l’ironia.
Il femminismo diffuso stava già cominciando a essere una realtà, la necessità di sfidare certe narrazioni imperanti pure, ma all’epoca la critica si riversava più su certi comportamenti individuali, su un certo malessere dato dall’abuso di sé, dallo spreco della propria vita. Erano già tutti infelici, che senso aveva infierire su quei personaggi dicendo che erano pure sbagliati? Quegli Stati Uniti forse non piacevano più, ma venivano accettati come un fatto, così come Cheever e Updike avevano ancora ragione di essere letti senza essere confutati neanche per un secondo (anche perché a scrivere gli articoli di critica culturale che hanno fatto la fortuna di serie come Mad men erano fondamentalmente gli eredi di quel mondo, che si sentivano poco minacciati. Oggi, con redazioni in cui ci sono più donne, le recensioni allo show sarebbero diverse: Mad men resterebbe il capolavoro che è, ma forse verrebbe letto con una maggiore vivacità di pensiero).
Lo straniamento
Per certi aspetti, così come Amy Winehouse era un’aliena con tutta quella disinvoltura nel mostrare il suo sangue e la sua tossicodipendenza dall’eroina, anche certe parti di Mad men erano aliene, e questo era il secondo effetto perturbante della serie: lo straniamento. L’affettività egocentrica esibita da Don Draper e Roger Sterling era perfettamente riconoscibile nel passato e nel presente, mentre certe abitudini sembravano di fantascienza.
Vedere tutte quelle sigarette, quell’alcol, quell’eccesso smodato in ogni cosa, suscitava una risposta fisica acuta negli spettatori, un disorientamento ai limiti dell’incredulità. Per farla breve, era quasi impossibile credere che quello stile di vita fosse stato possibile; che l’autodistruzione individuale avesse avuto dei margini così riconosciuti e accettati. Negli anni in cui è uscita Mad men c’era ancora una forte tolleranza per chi parlava male e pensava male – si poteva dire nigger con la scusa di citare una canzone rap, ed essere omofobi, razzisti e misogini con la scusa dell’ironia, il tutto senza troppi strascichi –, mentre c’era una crescente forma di disagio per alcune pratiche considerate indesiderabili. Si poteva fare schifo in alcuni modi, ma non in altri.
Il malessere suscitato da quei costumi e da quella smodatezza (per certi aspetti è stata una serie sui grandi disturbi alimentari, e in cui nessuno faceva sport) è lo stesso effetto che può suscitare oggi la visione di una grossa bistecca semicruda mangiata con gusto all’interno in una pubblicità, una visione capace di mettere in difficoltà anche chi non è vegano e chi non ha ridotto particolarmente il proprio consumo di carne: c’è una crescente consapevolezza che fa precipitare certe sequenze realistiche nel racconto di genere, pertinenti all’horror e alla fantascienza appunto.
Quand’è che la percezione di queste anomalie costringe chi guarda certi film o legge certi romanzi a provare sia piacere sia disagio, rendendosi conto di essere irrimediabilmente cambiato, quasi a prescindere dalle proprie ideologie? Quand’è che pure lo spettatore più disinteressato a certe idee di giustizia sociale, di correttezza verso gli altri e a un’equa rappresentazione di una vasta gamma di persone nelle opere di fiction, comincia a sentirsi distante da alcune visioni patriarcali o razziste? Quando rinunciare a quella nostalgia, e alle letture del passato, non ha più un costo così elevato. Quando viene meno un senso di lunghissima mancanza, che è il modo in cui nella cultura occidentale veniamo educati a leggere i romanzi e a guardare i film: attraverso il filtro dell’inconsolabile perdita. Quando dire che leggere Lolita a 36 anni non genera lo stesso turbamento che generava a quattordici anni, ma ne provoca un altro, senza togliere un grammo di bellezza sostanziale all’opera, consapevoli che non si sta tradendo un’antica versione di se stessi per questo.
Non si sta perdendo l’adolescente che amava Lolita: si sta portando l’adulto dentro Lolita, e il libro diventa la sintesi di queste due letture forse inconciliabili, ma ugualmente profonde. Sicuramente a quel punto il capolavoro di Vladimir Nabokov diventa un libro diverso, non necessariamente peggiore. C’è chi per grettezza ideologica non rinuncerà mai a sostenere le letture peggiori di un’opera d’arte, convinto che difendendone l’ambiguità morale o la violenza se ne stia tutelando automaticamente l’importanza e il diritto a esistere nel nome di un’infantilizzata libertà di espressione, ma la maggior parte dei lettori si ritrova a gestire queste trasformazioni nei comportamenti e nel linguaggio dei personaggi di finzione quasi senza accorgersene, e senza grossi traumi.
Cambiare idea
Il cambiamento inconsapevole nelle modalità di lettura è un tema affascinante, anche se sicuramente frustrante per chi porta avanti campagne attive nel sensibilizzare i lettori in nome di una fiction più inclusiva e politicizzata. Nel mutare la propria idea su un film del passato considerato un capolavoro e oggi ritenuto inguardabile, conta molto l’istinto, una risposta quasi fisica e sensoriale, legata al modo in cui i significati sociali ci penetrano nelle idee, nelle pulsioni profonde, fino a generare confusione e magari una spossata accettazione. E accade così che il proprio giudizio, considerato autonomo, incrollabile, fedele a un cattivo maestro o all’altro, perda una certa carica attiva, e si presenti un certo giorno trasformato.
Qualcuno che abbiamo amato inizia a farci schifo. Succede nelle migliori storie d’amore, perché non può succedere con i romanzi? Perché una serie di comportamenti che consideriamo assolutamente legittimi nelle relazioni umane, fatte di infinite ed estenuanti revisioni, cadono quando si tratta di arte? Cosa c’è di così sacro nel rapporto con l’opera d’arte, e perché crediamo che la perfezione sia tale solo se immutabile?
È una visione religiosa, oltre che molto poco divertente, portata avanti da un esercito di finti laici che cristallizzano le visioni come cristallizzano le identità, e vivono nella reiterazione di un amore di gioventù perfetto e morto. Cambiare idea su un’opera porta con sé lo stigma estenuante del tradimento, ma quest’idea della perdita è figlia di una mentalità luttuosa, talmente apocalittica da scambiare ogni minimo slittamento nelle trame e nei personaggi per un’imperdonabile rivoluzione.
La tradizione resiste
La realtà è che non sempre la fiction più inclusiva ha il potere e la forza di scardinare certe modalità tradizionali di racconto; crediamo che alcune trame e comportamenti scompaiano, ma si ripresentano sotto mentite spoglie. Nel 2011 Jeffrey Eugenides pubblicò La trama nel matrimonio, un romanzo considerato minore rispetto a Middlesex e Le vergini suicide, ma profondamente rivelatore su certi meccanismi della letteratura. Nel libro, Madeleine Hanna si sta laureando con una tesi completamente fuori moda durante gli ottanta, anni in cui furoreggia la semiotica, e i foucoultiani e i derridiani la vincono su tutto: una tesi sulla trama del matrimonio e la sua funzione nel romanzo vittoriano.
Basata sostanzialmente sulla coppia eteronormativa monogamica o tendente all’adulterio non formalizzato, la trama del matrimonio è rimasta più o meno inalterata fino agli anni sessanta (fu un libro monumentale di John Updike, Coppie, a scuotere un po’ le cose nel 1968 negli Stati Uniti). Oggi la trama del matrimonio pare sconfitta dalla trama dell’amicizia tra donne, almeno nel romanzo popolare, in cui non si parla appunto di coppie di mogli e mariti ma di amiche che si consolano e formano reti di solidarietà radicale: da Sally Rooney a Elena Ferrante a Zadie Smith, si tratta di un tema esploratissimo nel romanzo dell’ultimo ventennio, ma sotto la fluidità di genere che si riduce a volte a un’operazione cosmetica, la polarizzazione amore-odio/tradimento-fedeltà rimane tutto sommato la stessa, in un binomio affascinante ma tutto sommato tradizionale.
In Non morire, il suo saggio sperimentale sul cancro al seno, Anne Boyer prende in esame i testi che parlano di cancro nell’adolescenza e come sono cambiati nel tempo. Basta una veloce ricognizione per accorgersi che l’adolescente che si ammala è quasi sempre una ragazzina: un tempo veniva rappresentata come una creatura eterea ed angelica, poi è diventata più smaliziata e anticonformista come in Restless di Gus Van Sant, salvo ricomporsi perfetta e docile nella morte.
Sotto la patina della ribellione, il corpo della santa resta perfetto. Cambiano i tagli di capelli, le forme di trasgressione, ma non la struttura. Ed è per questo che a volte la rilettura femminista dei miti classici, diventata un vero e proprio genere letterario nella recente storia editoriale, porta con sé un retrogusto di insoddisfazione, perché in queste storia di conquista le dinamiche del potere restano inalterate, anche se si cambia genere alle vittime.
Far esplodere i miti
Un conto è rovesciare un mito, un altro è farlo esplodere e reinventarlo: un buon esempio in questo senso, destinato a essere chiamato in causa ogni volta che si parla di come sia mutata la rappresentazione del punto di vista delle donne nel cinema è Ritratto della giovane in fiamme, il film di Céline Sciamma che prende tutti gli stereotipi del romanticismo in pittura e letteratura non solo per rendere visibile una donna che crea e aspira a rappresentare la vita cruda così com’è, ma anche che instaura un rapporto di dominazione e sottomissione con la sua musa, decostruendo la pratica dell’osservare l’altro e il diritto a ritrarlo in sé.
La questione di un comportamento inimmaginabile rispetto alle aspettative collettive non solo è sempre presente, ma in alcuni casi è straordinariamente violenta: quest’anno c’è stato un plauso generale per la vittoria del Booker prize di Shuggie bain, il romanzo di Douglas Stewart basato su un ragazzino che cresce con una madre tormentata ed eccentrica nella Glasgow impoverita degli anni di Margaret Thatcher. È una storia tradizionale, romantica e operaia, che tratta anche l’esplorazione della propria sessualità e che forse riassesta un po’ l’andazzo sperimentale degli ultimi anni del più importante premio britannico.
Ma qualche anno fu un’altra donna working class a vincere quel premio, Anna Burns con Milkman. Durante il discorso di ringraziamento, Burns disse che erano stati i sussidi dello stato sociale a permetterle di dedicarsi a quel romanzo ambizioso e originale, negli anni in cui non poteva lavorare. Con la sua onestà, Burns stava violando un codice diffuso in Gran Bretagna e in generale, da cui le polemiche che l’hanno inondata: la tolleranza per la classe lavoratrice va di pari passo con la sua capacità di mantenere una certa dignità nella povertà, il che equivale a ringraziare e a nascondersi.
Paradossalmente, saranno i romanzi popolari come Shuggie bain, che sdoganano certi comportamenti nella fiction, a rendere sempre più ammissibili certi comportamenti come quelli di Anna Burns nella realtà: c’è un’interdipendenza profonda e inaspettata tra quello che consideriamo ammissibile e desiderabile nel campo dell’immaginazione e la nostra esistenza quotidiana, ed è per questo, forse, che necessitiamo di romanzi sempre più potenti e davvero mainstream che parlino di crisi climatica, più di quanto necessitiamo di saggi che ci spiegano come stanno le cose.
La speranza è che nell’osservare come cambiano certe voci e certe abitudini nella fiction – si fumerà di meno, si riciclerà di più, si mangerà meno carne, i disabili non saranno sempre buoni o strambi o eccezionali, – più che dire “questa cosa è indicibile, non riesco più a immaginarla”, prevalga una sensazione come “questa cosa è bellissima, perché non l’ho immaginata ancora?”.
Il gioco funziona quando invece di meditare su tutto ciò che abbiamo perso, ci lasciamo incantare dalle forme nuove, seducenti e inevitabilmente ambigue che abbiamo conquistato. Anche lì ci saranno parole scorrette, cattivi inammissibili e comportamenti che fanno schifo, ma spetterà ai nuovi lettori innamorarsene per poi, forse, farsi venire un dubbio, e ricominciare tutto da capo.
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