Nella serie tv di Netflix dedicata alla vita e alle opere di Halston, il couturier delle dive americane degli anni settanta, c’è una scena che nella sua didascalica ovvietà racchiude tutta la storia di Liza Minnelli in un breve dialogo. Halston (Ewan McGregor) si confida con Liza Minnelli (Krysta Rodriguez) dopo una sua esibizione in un night club. Entrambi vivono all’ombra di una presenza ingombrante: per Halston è Jackie Kennedy che lo aveva reso famoso scegliendolo come stilista dei suoi celebri cappellini; per Liza è la madre, Judy Garland. Halston non interessa più a nessuno perché le donne, compresa Jackie, alla fine degli anni sessanta non portano più cappellini e Liza fa una grande fatica a essere presa sul serio perché viene sempre paragonata a sua madre. “Io e te abbiamo una cosa in comune”, dice Liza ad Halston, “stiamo cercando la nostra strada: io non voglio essere solo la figlia di Judy Garland e tu non vuoi essere solo il modista di Jackie O”.

Nel 1989 Liza Minnelli ha 43 anni, ma ha già vissuto mille vite, non tutte particolarmente felici. Alla metà degli anni ottanta esce faticosamente dall’alcolismo e dalla dipendenza da farmaci ed è ormai avviata a una solida carriera di attrice e cantante per un pubblico maturo, specializzata in standard e in canzoni da musical. Il suo ultimo album pop risale al 1977 ed è Tropical nights, un debolissimo album disco di cui lei stessa si è sempre vergognata. “Erano canzoni che non parlavano di niente e che ho odiato cantare. Quell’album è nato morto e non è stato promosso perché io stessa non avevo alcuna intenzione di promuoverlo”, ricorda Minnelli nel 1989.

Eppure, nonostante una carriera pop non esaltante, lei ha ancora voglia di riprovarci, di affrancarsi da se stessa e dal fantasma di Judy Garland e del suo pubblico adorante. Alla fine degli anni ottanta Liza Minnelli vuole fare un album pop contemporaneo, un album dance, e per farlo chiama i Pet Shop Boys, che a quell’epoca erano maestri riconosciuti del synth pop britannico. A fare da tramite tra la diva di Cabaret e Tom Watkins, il manager dei Pet Shop Boys, è Gene Simmons dei Kiss, che allora era intimo amico e manager di Minnelli.

Neil Tennant e Chris Lowe (i Pet Shop Boys) scrivono quattro pezzi inediti espressamente per lei, le propongono due pezzi del loro repertorio (Rent e Tonight is forever) e tre cover (Losing my mind, da un musical di Stephen Sondheim, Twist in my sobriety di Tanita Tikaram e Love pains, un oscuro pezzo disco del 1979 reso noto da Yvonne Elliman). Liza Minnelli si fida ciecamente di loro e accetta con entusiasmo tutte le proposte. All’inizio non capisce che in studio ci sarebbero stati solo Neil, Chris e le loro macchine. “Dove sono i musicisti?”, avrebbe chiesto alla prima seduta di registrazione. Neil Tennant ricorda che Liza Minnelli era molto insicura: temeva di sembrare una vecchia signora che provava a fare la musica dei giovani. È Neil a rassicurarla: queste canzoni sono teatro, le dice, e la convince a cantarle come se fossero cavalli di battaglia del suo repertorio.

I Pet Shop Boys confezionano per Liza un album su misura, proprio come Halston aveva reinventato il suo look più di dieci anni prima. I sontuosi arrangiamenti per archi si sposano con i beat della dance di fine anni ottanta e Liza Minnelli viene incoraggiata a esplorare l’intero registro della sua voce, dalle note più basse (che in teatro usa poco) a quelle più spinte. La maggior parte delle registrazioni si tengono a Londra, in piena notte e fino alle prime luci della mattina, perché Liza Minnelli è impegnata in The ultimate event, una serie di recital alla Royal Albert Hall con Frank Sinatra e Sammy Davis jr. Liza finisce lo spettacolo, prende gli applausi, si cambia di corsa e si lancia in studio, dove Neil e Chris la aspettano con le loro macchine.

Minnelli è talmente elettrizzata dal suo secondo lavoro notturno che decide di invitare a cena all’hotel Savoy Neil e Chris per fargli conoscere Frank Sinatra e Sammy Davis jr. I Pet Shop Boys non sono al corrente delle rigide regole del Savoy, che prevedono lo smoking per la cena, ma Sinatra intercede per loro. La sera dopo, in studio, Liza avrebbe detto a Neil e Chris: “Frank vi adora, vi trova fantastici e adora la vostra musica”.

Per visualizzare questo contenuto, accetta i cookie di tipo marketing.

Results, l’album synth pop di Liza Minnelli prodotto dai Pet Shop Boys, è una sorta di disco-musical pieno di dramma e di lustrini. Losing my mind, scritta da Stephen Sondheim per il musical Follies, si trasforma in un martellante pezzo italo disco sull’ossessione amorosa e sullo stalking, e Rent, un’ambigua canzone sull’amore a pagamento, diventa, cantata dalla voce malinconica di una diva matura, qualcosa di molto simile a un atto unico scritto da Colette. Il pezzo più bizzarro dell’album è la cover di Twist in my sobriety di Tanita Tikaram. Comincia con un rap che recita il celebre ritornello “It’s Liza with a z, not Lisa with an s…”, quasi un omaggio al rapper Melle Mel che introduceva I feel for you di Chaka Khan con la strofa: “Chaka, Chaka, Chaka, Chaka Khan Chaka Khan”, e poi parte una fragorosa base hip hop sulla quale, surreale come un’aragosta su una macchina da scrivere, attacca la voce dolente di Liza che sembra arrivare da un’altra dimensione. La gemma del disco è però So sorry, I said che Neil e Chris hanno scritto appositamente per Liza. È una canzone minimale, fatta di niente, che parla di una donna che capisce di essere condannata a restare per sempre legata a un uomo che non la ama più. È una resa incondizionata a una relazione che lei sa essere sbagliata: “Sono andata in pezzi, avrei dovuto strillare e strepitare e invece ho solo detto: mi dispiace tanto”. Nel video, girato dal fotografo di moda Terence Donovan (1936-1996) il viso di Liza è in primissimo piano e lei, guardando fissa in macchina e da consumata diva qual è, fa cadere una lacrima sul suo trucco perfetto. Sinead O’Connor avrebbe fatto lo stesso solo un anno dopo, nel memorabile video di Nothing compares 2 U.

Results è un album pop magnifico e la reinvenzione radicale di una grande diva della canzone. Un disco che ha avuto un discreto successo in Europa e pochissimo seguito negli Stati Uniti, perché troppo strano e troppo lontano da quello che il pubblico si aspettava da lei. Non è certo stato l’ultimo momento di autentica “favolosità” pop di Liza Minnelli: come non ricordarla quando ha attaccato We are the champions al concerto di tributo per Freddie Mercury nel 1992?

Neil Tennant aveva capito una cosa lavorando con lei: “Liza è favolosa”, ha detto nel 1989, promuovendo l’album, “ma soprattutto è favolosa sempre, in ogni momento della giornata”.

Liza Minnelli
Results
Epic, 1989

Per visualizzare questo contenuto, accetta i cookie di tipo marketing.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it