Da giorni basta aprire un giornale, scorrere le notizie sul telefono, guardare un notiziario in tv per sentirci dire che siamo in guerra. L’emergenza Covid-19 è quasi ovunque trattata con un linguaggio bellico: si parla di trincea negli ospedali, di fronte del virus, di economia di guerra; ogni sera la Protezione civile dirama un bollettino con il numero dei morti e dei contagiati che aspettiamo col fiato sospeso. Lo scrittore Sandro Veronesi ha anche detto che sogna “una Radio Londra che ogni sera alle sette annunci i passi avanti che ogni centro di ricerca ha mosso quel giorno”.
Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump non nomina mai il coronavirus ma parla di “virus cinese” o di “virus di Wuhan”, secondo la consolidata tradizione dei populisti che prosperano solo quando c’è un nemico esterno da respingere, possibilmente con la forza.
D’altra parte siamo abituati a chiamare le malattie in base al paese lontano, o straniero, o nemico da cui provengono: l’asiatica, la spagnola, il morbo gallico eccetera. E l’unica risposta che conosciamo a una potenza nemica che ci attacca è la guerra, con tutte le metafore che si porta dietro.
Omero forse è stato il primo a innescare questo gioco. Nel primo canto dell’Iliade il dio Apollo, per vendicare l’offesa subita dal sacerdote troiano Crise, decide di diffondere una pestilenza nell’accampamento degli achei. E come lo fa? Con arco e frecce: “Nove giorni volâr nel campo acheo le divine quadrella”, declama la traduzione di Vincenzo Monti, per nove giorni (il tempo d’incubazione?) volarono nel campo acheo le divine frecce. Apollo comincia a colpire il bestiame, per passare poi ai soldati: proprio come fanno i virus con cui abbiamo a che fare oggi, che passando dagli animali infettano l’uomo. In pochi versi Omero stabilisce una metafora della malattia che, più di duemila anni dopo, continua a essere innervata nel nostro modo di intendere il male. La malattia è un atto di guerra, una rappresaglia, una punizione; e chi cade è sconfitto.
Doppia cittadinanza
Nel suo saggio Malattia come metafora (1978) Susan Sontag ha smontato con acume critico ed empatia questo modo di rappresentare, e rappresentarsi, il male. Sontag parla essenzialmente del cancro e della tubercolosi e, dieci anni dopo, in un piccolo saggio aggiuntivo ha affrontato l’hiv (L’aids e le sue metafore, 1989). Parlando dell’epidemia da hiv Sontag spiega perché ci viene tanto facile affrontare un’emergenza sanitaria come fosse una guerra, anziché come un complesso problema sociale, culturale o di emarginazione di determinate categorie di persone.
La guerra è una delle poche attività umane a cui la gente non guarda in modo realistico; ovvero valutandone i costi o i risultati. In una guerra senza quartiere, le risorse vengono spese senza alcuna prudenza. La guerra è pura emergenza, in cui nessun sacrificio sarà considerato eccessivo.
Trattare una malattia come fosse una guerra ci rende ubbidienti, docili e, in prospettiva, vittime designate. I malati diventano le inevitabili perdite civili di un conflitto e vengono disumanizzate appena, per usare le parole di Sontag, “perdono il loro diritto di cittadinanza da sani per prendere il loro oneroso passaporto da malati”. Alla metafora della guerra Sontag sostituisce quella della cittadinanza:
Appena nasciamo abbiamo una doppia cittadinanza, nel regno dei sani e nel regno dei malati. Sebbene tutti preferiremmo usare sempre il passaporto buono, presto o tardi saremo obbligati, anche se per breve tempo, a identificarci come cittadini di quell’altro posto.
Sontag si concentra anche sulla figura del malato che è la prima vittima delle metafore della malattia. Ammalarsi vuol dire essere invasi dal nemico e morire è una sconfitta. Le malate di tisi nel melodramma ottocentesco, Violetta della Traviata e Mimì della Bohème, vivono la malattia come rinuncia all’amore. Muoiono consumate dal sacrificio e dal senso di colpa.
Anche oggi, in Italia, quando si parla di cancro non si riesce a fare a meno della metafora del “guerriero che sconfigge il male”, senza fare i conti con il peso psicologico che ogni malato e ogni suo familiare si prende sulle spalle dopo una diagnosi infausta. Liberarsi da una malattia, superarla per tornare a vivere “tra i sani”, non è una questione di valore militare, di forza, di costanza, di eroismo del singolo; è una questione di essere ben curati, di risorse sanitarie e anche, purtroppo, di fortuna. Applicare la metafora della guerra e della sconfitta a una malattia significa caricare il malato di sensi di colpa e, dice Sontag, ostacolarlo nel suo percorso di guarigione.
Un articolo del Guardian di qualche mese fa, uscito molto prima dell’emergenza del coronavirus, denunciava come le metafore della guerra applicate al cancro abbiano un effetto inibitorio nei pazienti che si sentono da subito sconfitti, condannati a morte fin dalla prima diagnosi. “Preferisco che con me si usi un linguaggio chiaro e fattuale”, spiega una malata terminale di cancro all’intervistatore. “Hai sempre l’impressione di deludere gli altri se non mantieni un atteggiamento positivo o se ti lasci andare a un momento di emotività. Io mi vedo come una persona che ‘vive’ con un cancro incurabile. Non sono coraggiosa e non voglio essere una fonte d’ispirazione per nessuno. Voglio vivere il tempo che mi rimane al meglio”.
La metafora del paese in guerra e del singolo malato-eroe è particolarmente rischiosa nell’emergenza che stiamo vivendo oggi. Ogni giorno che passa ci accorgiamo che il Covid-19 non conosce confini e richiede una risposta unitaria a livello globale. Parlare di guerra, d’invasione e di eroismo, con un lessico bellico ancora ottocentesco, ci allontana dall’idea di unità e condivisione di obiettivi che ci permetterà di uscirne. Abbiamo urgente bisogno di nuove metafore e di nuove parole per raccontarci i giorni che stiamo vivendo; quelle vecchie rischiano di trasformare in un incubo non solo il presente ma anche, e soprattutto, il futuro che ci aspetta.
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