“Ricordiamo i migliori giorni delle nostre vite”, recitavano molti post di cittadini turchi sui social network all’inizio di giugno. Nonostante nelle foto si vedesse quasi solo il gas dei lacrimogeni, chi sette anni fa si unì alle proteste del parco Gezi contro il governo di Recep Tayyip Erdoğan ha scelto di ricordare l’atmosfera gioiosa dell’estate del 2013. Più o meno negli stessi giorni di giugno, dall’altro lato dell’Atlantico, George Floyd ha pronunciato le sue ultime parole: “I can’t breathe”. Quando il suo grido è stato ripreso da centinaia di migliaia di persone scese in piazza, i reduci del parco Gezi hanno cominciato a rendersi conto delle somiglianze tra le due rivolte. Mentre nelle città europee si svolgevano manifestazioni di sostegno, è stato come se la lunga marcia turca per la dignità riprendesse dopo un intervallo di sette anni. Una marcia intermittente, che un tempo si svolgeva a piazza Tahrir e al parco Gezi, dimostrava di essere abbastanza compatta da andare avanti, da Minneapolis a Trafalgar square, urlando la stessa parola: dignità.

La dignità è un tratto distintivo dell’essere umano. Non è chiaro se sia innata o se impariamo a difenderla dopo che assimiliamo la parola. In ogni caso, appena la impariamo cominciamo a percorrere una specifica arteria della storia. Senza saperlo iscriviamo il nostro nome in un contratto insieme a chi, prima di noi, ha dichiarato che la dignità è una nostra caratteristica inviolabile. Questo contratto – anche se di solito critichiamo la visione eurocentrica del mondo – è stato messo sulla carta in Europa durante l’illuminismo, ed è diventato parte della Dichiarazione universale dei diritti umani. Da allora abbiamo gridato questa parola in tutto il mondo. Oggi, dopo sette anni, si riprende il centro della scena.

Il capitalismo è in conflitto con la democrazia e i diritti umani. Eppure l’Europa continua a sembrare un esperimento improvvisato

I nostri tempi non hanno bisogno di segnali di una rivoluzione, come scriveva Marx, o di analisi per ammettere che il capitalismo come lo conosciamo è arrivato all’ultimo atto. Il contratto del capitalismo è in conflitto con quello della democrazia e dei diritti umani. Eppure l’Europa, il continente che dovrebbe difendere questi valori, sembra ancora un enorme esperimento improvvisato. Da un lato abbiamo l’attuale governo britannico, con le sue politiche sociali darwiniste, diventate più evidenti grazie alla pandemia. Dall’altro ci sono pochi paesi, come la Germania, che cercano di tappare le falle nella barca dello stato sociale in vista dell’imminente diluvio. Tra l’ascesa del populismo, la pandemia e l’ansia dovuta alla crisi dell’Unione, l’Europa sembra troppo disorientata per preoccuparsi del suo ruolo morale. Il continente ha bisogno di una scossa per ricordarsi che è obbligato a schierarsi dalla parte della dignità umana, a prescindere dalla sua debolezza.

Se la pandemia lo permetterà, a settembre in Islanda si terrà il primo incontro dell’Internazionale progressista, un’organizzazione politica mondiale che unisce attivisti, leader e organizzazioni di sinistra, ispirata dal senatore statunitense Bernie Sanders e dall’ex ministro dell’economia greco Yanis Varoufakis. Facendo parte del consiglio consultivo, sento la responsabilità di trovare un’idea che salvi il mondo. Ho assistito alle rivolte in Argentina, a quelle del parco Gezi, di piazza Tahrir e di Tunisi e il miglior suggerimento che posso dare all’Europa è di non dimenticare il suo obbligo di riconoscere la protesta in nome della dignità, una parola che un tempo l’appassionava tanto. L’alternativa per l’Europa sarebbe perdere la sua statura morale, già scalfita dalla crisi dei migranti. L’umanità dovrebbe sentirsi dire, una volta di più, che la dignità è l’unica cosa capace di superare le differenze di classe e di unire le persone.

La parola dignità di solito richiama l’immagine di denti serrati o di pugni chiusi. È sempre stata associata al dolore o alla rabbia. Ma sette anni fa, durante le proteste del parco Gezi e in altre rivolte, cambiò qualcosa: le immagini che legavamo alla dignità passavano dalla rabbia a una gioia condivisa. Per questo oggi le persone arrivano a dire che quello fu il più bel momento delle loro vite, nonostante tutto. Le proteste sono riuscite a creare lampi di vita. Dimostrarono che, anche quando non è garantita dal potere, la dignità resta inviolabile, come avevano scritto i rivoluzionari europei. La loro felicità fu amplificata dai social network, che diffusero il messaggio. Per questo oggi perfino chi non era presente ricorda quei giorni con gioia.

Spero che prima l’Internazionale progressista e poi i popoli europei diano nuova forza a questo principio. Per l’Europa è arrivato il momento di rinnovare la sua promessa di dignità, e di rivedere il contratto che protegge il genere umano contro l’oltraggio del capitalismo. Può darsi che siano solo parole. Le parole, però, sono cose piccole ma potenti, che da sempre cambiano il mondo.

(Traduzione di Federico Ferrone)

Questo articolo è uscito sul numero 1364 di Internazionale. Compra questo numero | Abbonati

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