Oggi in Turchia ci sono due opinioni apparentemente diverse, anche se complementari, sulla maternità. Da una parte troviamo la visione convenzionale, secondo cui la maternità è la cosa più sacra che possa capitare a una donna. In questo caso la maternità viene romanticizzata e idealizzata.
Si cerca continuamente di convincere le donne a diventare madri e a farlo il prima possibile. Appena una coppia si sposa, tutti vogliono sapere quando prevede di avere dei figli. Dalle donne che lavorano ci si aspetta che continuino a farlo finché diventano madri, perché da quel momento in poi il loro primo dovere sarà crescere i figli.
Ma in Turchia c’è anche una concezione moderna della maternità, diffusa soprattutto dalla tv e dalle riviste patinate. È una concezione moderna e occidentale secondo cui le donne possono essere perfette in tutto, perfette nel lavoro e perfette come madri.
Le giovani turche, che trovano nelle loro famiglie la concezione tradizionale e sui mezzi d’informazione quella moderna, prendono un po’ di questa e un po’ di quella. Ma nessuna delle due affronta tutti gli effetti della maternità sulle donne. Nessuna riconosce che essere madre, per quanto sia una cosa meravigliosa, comporta anche profonde contraddizioni esistenziali.
Non c’è dubbio che l’esperienza di diventare madre offra un piacere e una felicità senza uguali. Ma al tempo stesso può innescare una profonda crisi d’identità, venata di senso di colpa, solitudine e disorientamento.
La fase successiva al parto può essere particolarmente demoralizzante, soprattutto per le intellettuali e le artiste, abituate a condurre una vita indipendente. Eppure di queste cose non si parla mai. Si sa che dopo il parto moltissime donne soffrono di depressione, ma è una questione incompresa e trascurata.
Dopo la nascita di mia figlia ho sofferto di una lunga depressione che mi ha intrappolata nel vortice frastornante di Istanbul lasciandomi svuotata. Mi sembrava che tranne me tutte le madri fossero perfette e che in me ci fosse qualcosa di intrinsecamente sbagliato.
Fino a quel momento avevo considerato la mia scrittura il collante esistenziale che teneva insieme i pezzi della mia vita.
Poi, per la prima volta, ho smesso di scrivere e ho perso la fiducia nelle parole. Durante quei dieci mesi ho ruotato intorno a un sole nero fatto di malinconia, tormentata dai sensi di colpa, dal disorientamento e dall’ansia. Non avevo la minima idea di soffrire di depressione post partum.
In quel periodo mia nonna mi ha sempre tenuta d’occhio. È un’anziana musulmana vissuta in un ambiente tradizionale, mentre mia madre è una donna moderna, laica e occidentalizzata. Eppure mia nonna ne sapeva più di mia madre sulla depressione post partum. Le musulmane di una certa età hanno una sorta di sapienza e di saggezza che manca alle donne moderne. Quelle della generazione di mia nonna credono che esista un jinn, una specie di demone maligno, che perseguita chi diventa madre.
Credono che sia questo il motivo per cui le donne che hanno appena avuto un figlio sono inclini a una malinconia inspiegabile. Ed è sempre per questo che per quaranta giorni dopo il parto non vengono mai lasciate sole in casa. Le nonne musulmane in Turchia legano nastrini rossi e spargono semi neri intorno al letto di chi ha partorito per tenere lontani i jinn, che loro chiamano Alkarisi.
I nastri rossi e i semi neri di mia nonna evidentemente non sono bastati a tenere sotto controllo la mia depressione. Sono passata attraverso un periodo nero e alla fine ho capito che è impossibile essere madri senza prima partorire se stesse. Questo processo di rinascita ha avuto molti aspetti: intellettuali, emotivi e spirituali. Ho dovuto fare i conti con le conseguenze di essere madre e scrittrice in una società dominata dagli uomini.
E le due cose non sempre vanno d’accordo. Fare la scrittrice è molto autoreferenziale, richiede un’attenzione pura ed egoistica al proprio lavoro, mentre essere madre richiede soprattutto un altruismo e una dedizione completi. A volte, in una donna, la scrittrice e la madre parlano due lingue diverse. Non sono per forza in conflitto. Ma non dicono necessariamente la stessa cosa.
Anche se la società turca è patriarcale, il patriarcato non è prerogativa della Turchia. In tutto il mondo e attraverso i secoli le donne hanno dovuto affrontare il conflitto tra essere madre e moglie ed essere una scrittrice e uno spirito libero. Alcune ci sono riuscite, altre no.
Sembra che una volta Virginia Woolf abbia chiesto: “Cosa sarebbe successo se Shakespeare avesse avuto una sorella di talento che voleva diventare scrittrice?”. E cosa sarebbe successo se il grande poeta orientale Fuzuli avesse avuto una sorella di grande talento che voleva diventare poetessa? Le sarebbe stato impossibile, perché si sarebbe sposata molto presto e sarebbe subito diventata madre.
Fuzuli è vissuto nel tredicesimo secolo. Ma cosa è cambiato nel frattempo? Le donne hanno forse le stesse opportunità dei loro fratelli di diventare poetesse o scrittrici? No, non è così. Ma se vogliamo davvero parlare delle difficoltà di fare la scrittrice in una società patriarcale, dobbiamo cominciare a smantellare i miti della donna perfetta e della madre perfetta. Perché sono solo dei miti. Le donne reali non sono perfette. Sono semplicemente, e fortunatamente, piene di conflitti.
Internazionale, numero 718, 9 novembre 2007
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