Le vittime dell’ondata di violenze xenofobe che ha sconvolto il Sudafrica nelle ultime due settimane hanno finalmente un volto: quello di Emmanuel Sithole, un mozambicano di 35 anni che viveva nella township di Alexandra, a Johannesburg. Sithole è stato accoltellato a morte la mattina del 20 aprile davanti a un gruppo di giornalisti del Sunday Times che erano andati a intervistare alcuni proprietari stranieri di negozi saccheggiati nel corso della notte. E così la storia del suo omicidio insensato e brutale è apparsa su tutti i giornali. Delle altre sei persone rimaste uccise finora si sa poco, se non la loro nazionalità. La polizia ha offerto denaro a chi avesse informazioni sull’omicidio di Sithole e ha arrestato tre persone.

Dare un’identità alle vittime può essere un primo passo verso una maggiore consapevolezza. La politica e le forze di sicurezza finora hanno reagito con lentezza a una situazione che è andata rapidamente fuori controllo. Sono bastate le dichiarazioni avventate di un leader zulu – che ha invitato gli stranieri a “fare le valigie e a lasciare il paese”, anche se oggi rinnega tutto – a far scoppiare un incendio, che si è propagato in fretta dalle township di Durban a Pietermaritzburg, fino a toccare Johannesburg, la capitale economica del Sudafrica, che sorge nella ricca provincia di Gauteng (dove c’è la percentuale più alta di stranieri in rapporto agli abitanti originari del posto). Oggi i sudafricani si chiedono perché il paese fosse così pronto a esplodere.

La prima cosa che torna alla mente è la precedente ondata di violenze contro gli stranieri nel 2008, durante la quale morirono 62 persone. Solo nel 2012 sono stati denunciati 238 attacchi contro cittadini stranieri. Ma non serve andare indietro nel tempo: nel gennaio di quest’anno a Soweto, pochi chilometri a sud di Johannesburg, i commercianti immigrati sono stati costretti a fuggire mentre i loro negozi venivano saccheggiati. Le violenze hanno causato sei morti.

Il filosofo camerunese Achille Mbembe, che conosce bene il Sudafrica, sostiene che la “caccia allo straniero” abbia varie cause. Innanzitutto il governo ha recentemente inasprito le leggi sull’immigrazione, e ha reso più difficile ottenere permessi di lavoro e visti. Con queste nuove misure, ha messo in una situazione precaria persone che fino a poco tempo prima avevano le carte perfettamente in regola. In secondo luogo, mentre le grandi aziende sudafricane si stanno espandendo in tutto il continente (riproducendo in alcuni casi le peggiori forme di razzismo tollerate ai tempi dell’apartheid), tra le classi nere povere e parti della classe media si sta diffondendo un nazionalismo fanatico e aggressivo. Questo tipo di discorso è spesso accompagnato dalla ricerca di un capro espiatorio, facilmente individuabile negli stranieri (i kwerekwere). Secondo Mbembe la differenza tra il 2008 e oggi è proprio la comparsa di una specie di “ideologia” xenofoba e di un tentativo di giustificare le atrocità commesse. In questo caso il pretesto più immediato è che gli stranieri “rubano il lavoro ai sudafricani”.

Ma il diffuso disagio sociale non è legato solo alla disoccupazione. “Non è un segreto che il Sudafrica è in crisi”, scrive l’opinionista Ranjeni Munusamy. L’economia arranca, le città rischiano il blackout per la carenza di energia elettrica, i politici – tra cui il presidente Jacob Zuma – finiscono sulle prime pagine dei giornali per i continui scandali di corruzione, i sindacati sono spaccati, i servizi pubblici sono carenti, in particolare per la fetta più povera della popolazione. Il partito di maggioranza, l’African national congress (la storica formazione di Nelson Mandela), non sa più cosa inventarsi per riportare l’ottimismo e la speranza che avevano caratterizzato i primi anni dopo la caduta dell’apartheid. Dire che i problemi del paese sono ancora un’eredità del dominio dei bianchi non è più una scusa accettabile.

Su alcuni mezzi d’informazione gli attacchi contro gli stranieri sono stati descritti come forme di “violenza correttiva”, la violenza di chi sa di non poter contare sulla classe politica e si sente costretto ad agire da solo per rimediare a una situazione sbagliata. Ed è ormai evidente che tra gli abitanti poveri delle township e la classe politica si è creata una distanza incolmabile. La conclusione di Munusamy è molto amara: “Il Sudafrica è diventato la vergogna del continente, un’aberrazione a livello mondiale e continuerà a esserlo finché non cambierà la sua cultura e i suoi valori”.

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