Bob Dylan, Murder most foul
“Era un giorno buio a Dallas, nel novembre 1963. Un giorno segnato dall’infamia. Il presidente Kennedy era su di giri, era una buona giornata per vivere e una buona giornata per morire”. Comincia così, con un attacco da manuale, il nuovo brano di Bob Dylan, pubblicato a sorpresa nella notte tra il 26 e il 27 marzo. S’intitola Murder most foul (L’omicidio più disgustoso, sembra una citazione dell’Amleto di Shakespeare) e dura quasi diciassette minuti. È il pezzo più lungo che abbia mai pubblicato ed è il primo inedito che fa ascoltare al pubblico negli ultimi otto anni.
Murder most foul parla dell’assassinio del presidente statunitense John F. Kennedy, avvenuto a Dallas nel 1963. Parte da lì, ma poi si trasforma in una carrellata di istantanee in bianco e nero degli anni anni sessanta, il periodo nel quale Bob Dylan diventò una star internazionale della musica, in cui passò dall’essere il cantautore simbolo dei diritti civili all’inventore del moderno folk-rock.
Il fatto che Dylan abbia deciso di pubblicare Murder most foul in questi giorni, nel pieno della pandemia globale di Covid-19, potrebbe non essere una coincidenza. Il messaggio del cantautore di Duluth sembra essere: era dai tempi dell’omicidio Kennedy che non mi capitava di vivere un evento così scioccante. Qualcuno potrebbe interpretarlo come un commiato dal suo pubblico perché sta male (non fare scherzi Bob), ma la cosa non risulta a nessuno al momento quindi è da escludere. Consiglio comunque di ascoltare il brano con il testo a fronte, altrimenti ci si perde e non lo si apprezza completamente.
Come spesso capita con alcune grandi canzoni – quelle che superano i confini della musica e invadono quelli della letteratura, della storia e della geografia – non si sa bene da dove cominciare per analizzare Murder most foul. È materia per storici e antropologi, non solo per musicologi. Servirebbe una riflessione di Alessandro Portelli, forse la persona più adatta in Italia a spiegare il nuovo pezzo del cantautore statunitense.
Qui, più umilmente, si possono far notare un paio di cose: la voce di Dylan, tornata in forma come non la era da tempo (ma non è chiaro quando sia stato registrato il pezzo, potrebbe anche avere dieci anni o più), il piano e gli archi che guidano il brano (non c’è traccia di chitarra) e l’uso postmoderno (viene da dire quasi tarantiniano) delle citazioni, soprattutto nella seconda parte, quando la vicenda di Kennedy resta sullo sfondo e il pezzo diventa sempre più autobiografico.
A un certo punto Dylan si rivolge a Wolfman Jack, storico disc jokey statunitense morto nel 1995 e comparso anche in American graffiti, e gli chiede di suonargli delle cose da ascoltare nella sua “lunga Cadillac nera”. Gli tornano in mente film e altre schegge del passato, cose che l’hanno formato da ragazzino. E così, da un certo punto in poi, la canzone diventa quasi un elenco di persone, film, luoghi, un po’ come succedeva nel capolavoro Desolation row. Così sotto il tetto dei ricordi di Dylan convivono i Beatles, Marilyn Monroe, Woody Allen, gli Who, John Lee Hooker, avvenimenti storici come il massacro di Tulsa e la Guerra di secessione, canzoni come St. James Infirmary (citata anche nella Peste di Camus, a proposito di pandemie), Etta James, Charlie Parker, Miles Davis, i Queen, Via col vento, Beethoven e non solo. Nell’elencare tutte queste cose la voce di Dylan si fa sempre più dolce ed è difficile non commuoversi almeno un po’.
Murder most foul è un microcosmo, un regalo che Bob Dylan ha fatto al mondo in un momento difficile, fatto con una dolcezza inedita (quando ha twittato il link ha scritto: “Saluti ai miei fan e follower con gratitudine per tutto il vostro supporto e lealtà nel corso degli anni”). È un pezzo struggente, ma nella sua malinconia si nasconde una grande forza catartica. Ed è una sorpresa che nel 2020, a 58 anni dal suo esordio, il cantautore di Duluth sia ancora capace di condividere con il suo pubblico canzoni così profonde e ispirate. Del genio di Dylan si è scritto e detto tanto, prima e dopo il premio Nobel. Diventa ogni volta più difficile aggiungere qualcosa di significativo. Meglio goderselo e basta.
Childish Gambino, 19.10
In piena pandemia, l’attore/rapper/tuttofare Donald Glover ha rispolverato il suo alter ego musicale Childish Gambino e ha pubblicato un nuovo album intitolato 3.15.20, in riferimento al giorno in cui l’album è stato messo in streaming per la prima volta sul sito donaldgloverpresents.com. 3.15.20 arriva a quasi due anni di distanza da This is America, il singolo che (soprattutto grazie a un video notevole) è valso a Glover un Grammy più che meritato: poche canzoni hanno rappresentato meglio la questione razziale statunitense negli ultimi anni.
Forte di quel successo, Glover è tornato con un disco ambizioso, che affronta di petto le sue angosce verso il futuro e sembra perfetto per il momento storico in cui è stato proposto. Non parla mai di coronavirus (le canzoni sono state registrate prima dell’arrivo della pandemia globale), ma affronta grandi temi che preoccupano l’autore: la nostra dipendenza dalla tecnologia, il razzismo, la violenza, il futuro dei figli, la morte.
Stavolta però Childish Gambino colpisce a vuoto: 3.15.20 è un disco banale. I punti di riferimento sono i soliti: Kanye West e Drake, per esempio. Ma si nota soprattutto un omaggio alla musica anni settanta e ottanta, da Stevie Wonder al Marvin Gaye di Midnight love. Il problema è che i beat sono poco efficaci e i testi dozzinali. La robotica Algorhythm affronta il tema della dipendenza da smartphone, ma non va al di là delle solite immagini delle persone chine sul telefono e del gioco di parole sui like e i dislike. InTime invece, nella quale è ospite Ariana Grande, troviamo versi da sbadiglio tipo “Maybe all the stars in the night are really dreams”.
Ci sono un paio di pezzi discreti, come per esempio 19.10, dove Glover riflette sull’identità afroamericana poggiandosi su una base ritmica funk finalmente a fuoco e riporta le parole che gli ha insegnato suo padre: “Essere belli significa essere minacciati”. Nell’emozionante 47.48 invece sfrutta un cameo di suo figlio Legend per parlare di amor proprio. Ma un paio di buone canzoni sono troppo poco per reggere l’ambizione espressa. Siamo di fronte a un onesto disco di musica black, niente più. Forse, semplicemente, finora abbiamo sopravvalutato Glover, facendoci affascinare più dal personaggio che dal musicista.
Nicolas Jaar, Gocce
Sono solo ai primi ascolti di Cenizas ( in spagnolo significa cenere), il nuovo album del cilenostatunitense Nicolas Jaar, ma mi sembra una delle cose migliori che ha fatto nella sua carriera. Anche questo è un disco oscuro, quasi apocalittico, poco danzereccio e abbastanza sperimentale. Mi sono già innamorato follemente di un paio di brani, come Gocce, dove un bongo distorto suona come il ticchettio di un orologio, e la primitiva Mud. Jaar è un gigante, poco da aggiungere. E ha solo trent’anni.
Waxahatchee, Lilacs
In mezzo a tutta questa cupezza, ci vuole un raggio di sole. Saint cloud di Waxahatchee, il progetto della cantautrice dell’Alabama Katie Crutchfield, è uno splendido album di americana solare e contagioso. Sono brani semplici e diretti, con un ottimo gusto per la melodia. E ci sono almeno un paio di ottime canzoni d’amore come questa, che prende il titolo dai fiori di lillà.
Bicep, Atlas
Cosa c’è di meglio di pubblicare un pezzo house durante una crisi mondiale? Ballare è una forma di ascolto, come dice Jayce Clayton, ma può essere anche un modo per esorcizzare i problemi. I britannici Bicep la pensano così. E quindi balliamo, tra quattro mura.
P.S. Le canzoni del weekend sono tornate dopo un periodo di pausa, nel quale ho scritto di altre cose. È difficile capire come si evolverà il mercato discografico nelle prossime settimane (mesi), se avremo più musica nuova da ascoltare oppure se tante uscite verranno rimandate. Cercherò, un po’ come tutti, di navigare a vista. Se salto qualche giro, i lettori non si preoccupino, sono sempre qui. Nel frattempo, ecco la playlist aggiornata. Buon ascolto, state a casa.
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