Arriva ogni anno poco prima dell’estate, ed è sempre una lettura istruttiva. Il rapporto Ecomafia 2013 di Legambiente fotografa l’Italia da una particolare angolatura. E stavolta restituisce l’immagine di un paese dove le ecomafie sono l’unica economia che continua a crescere in un contesto di crisi generalizzata: 16,7 miliardi di euro di fatturato, 34.120 reati accertati, 28.132 persone denunciate, 8.286 sequestri effettuati. Aumentano i clan coinvolti (da 296 a 302), quadruplicano i comuni sciolti per infiltrazioni mafiose (da 6 a 25), salgono gli incendi boschivi dolosi, cresce l’incidenza dell’abusivismo edilizio e soprattutto cresce la corruzione, con il raddoppio delle denunce e degli arresti.
“Il business della criminalità organizzata non conosce recessione e, anzi, amplia i suoi traffici con nuove rotte e nuove frontiere. Con una lungimiranza e una profondità che politici, imprenditori, istituzioni e cittadini spesso non hanno o fanno finta di non avere”, spiega Carlo Lucarelli nella presentazione del rapporto, che descrive anche la minaccia dei clan al patrimonio culturale. Secondo l’Istituto per i beni archeologici e monumentali del Consiglio nazionale delle ricerche, il danno economico dei furti di opere d’arte costa all’Italia circa un punto percentuale di prodotto interno lordo.
L’economia delle ecomafie “si regge sull’intreccio tra imprenditori senza scrupoli, politici conniventi, funzionari pubblici infedeli, professionisti senza etica e veri boss, e opera attraverso il dumping ambientale, la falsificazione di fatture e bilanci, l’evasione fiscale e il riciclaggio, la corruzione, il voto di scambio e la spartizione degli appalti”. La ragione è molto semplice: è un business redditizio, e si corrono pochi rischi.
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