“Il dilemma di fondo è semplice e brutale: le proteste degli ultimi anni sono il segno di una crisi globale che si sta inesorabilmente avvicinando, o sono solo dei piccoli ostacoli che possono essere aggirati o addirittura eliminati attraverso precisi e specifici interventi?”. Slavoj Žižek è convinto che le manifestazioni di questi mesi siano piccoli disordini locali all’interno di un riassestamento globale verso una nuova epoca di progresso.

In Brasile le persone scendono in piazza contro l’aumento del prezzo dei biglietti dell’autobus, in Turchia contro la distruzione di un parco, in Indonesia per i prezzi della benzina, in Bulgaria contro la disoccupazione e la corruzione. Poi ci sono Occupy Wall street, la Svezia, la Grecia, Israele, il Cile, l’Egitto. Sono proteste scoppiate per ragioni molto diverse tra loro, in paesi spesso distanti non solo geograficamente. Ma hanno in comune alcune caratteristiche, oltre alla contemporaneità.

Secondo Thomas Friedman, editorialista del New York Times, i tratti simili sono la prepotenza dei governi, la condizione della classe media, la diffusione dei social network. Immanuel Wallerstein, sociologo statunitense, nota invece che tutti questi movimenti tendono a essere piuttosto piccoli all’inizio per poi diventare molto grandi con il passare del tempo, e arrivati al culmine si affievoliscono rapidamente lasciando però una traccia permanente nel sistema politico.

Rispondendo indirettamente alla domanda iniziale di Žižek, Wallerstein è d’accordo che siamo nel pieno di una transizione strutturale da un’economia capitalistica a un nuovo tipo di sistema, ma è anche persuaso che l’esito è incerto. E che le battaglie di questi anni decideranno se il nuovo sistema sarà migliore o peggiore del precedente.

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