Pare che per l’elezione del prossimo sindaco di Torino si andrà al ballottaggio. I candidati che ci arriveranno sono noti. Da una parte il sindaco in carica Piero Fassino del Pd. Dall’altra Chiara Appendino del Movimento 5 stelle. Il candidato della coalizione che da decenni governa l’ex capitale dell’auto contro quello del movimento che si propone in tutta Italia come alternativo al sistema.
Fino alla famosa marcia dei quarantamila nel 1980, Torino contava sessantamila operai solo alla catena di montaggio di Mirafiori. Poi, alla pari di numerose altre città industriali europee e non, ha dovuto fare i conti con quella che l’economista Jeremy Rifkin ha definito semplicemente la fine del lavoro, titolo di un suo famoso saggio. Perciò ecco l’ingresso della città nell’era cosiddetta postindustriale, con il consueto doloroso corollario fatto di licenziamenti e cassa integrazione.
Dietro l’angolo, la caduta del muro di Berlino, l’avvento del pensiero ultraliberista e la globalizzazione, che qui come a Parigi o a Londra fa rima con precarizzazione: del lavoro, e dunque delle esistenze. E poi ancora la crisi mondiale scatenata dal fallimento della Lehmann Brothers, con le sue ricadute. È così che Torino ha dovuto fare i conti con il tramonto delle certezze del passato. E si è trovata alla ricerca di una nuova identità, da costruirsi auspicabilmente investendo nella cultura in un’epoca in cui, lo sappiamo, a tale voce vengono associati non di rado anche l’intrattenimento e lo spettacolo.
Da questo punto di vista le Olimpiadi invernali del 2006 sono state senza dubbio un punto di svolta. E l’occasione è stata sfruttata soprattutto per ciò che riguarda il riposizionamento della città nell’immaginario collettivo degli italiani. La Torino già grigia ed eternamente piovosa, che si è sedimentata nella memoria nazionale grazie alle immagini in bianco e nero della tv che negli anni del boom raccontavano l’immigrazione dal sud e le code dei nuovi operai ai cancelli della Fiat, una città in cui a nessuno veniva in mente di trasferirsi a meno di non esservi costretto per motivi di lavoro, è diventata d’incanto un luogo dove andare non solo in gita (in queste settimane è letteralmente invasa da giovani provenienti da ogni dove) ma anche a studiare – per esempio al Politecnico – o addirittura a vivere.
Torino è oggi la città della penisola dove i teatri registrano la maggiore affluenza
Certo la cosa ha avuto un prezzo, basti pensare al fatto che dopo le Olimpiadi ci si è scoperti col debito procapite più alto d’Italia. Quanto all’utilizzo postolimpico di impianti e strutture, l’illusione di replicare l’esempio virtuoso – e pressoché unico – di Barcellona è presto tramontata a cominciare dalle valli circostanti. Ciò nonostante, il cambiamento è sotto gli occhi di tutti, e bisogna essere ciechi per non vederlo. O forse smemorati.
Non a caso, Torino è stata proclamata poche settimane fa la seconda città più innovativa d’Europa. Nel paese con il più notevole e meno valorizzato patrimonio culturale al mondo, qui ci sono code perenni davanti ai musei. Per dire: l’Egizio, appena rinnovato, ha fatto un milione di visitatori in un anno. Quello del cinema alla Mole è costantemente affollato. Lo scorso novembre la fiera d’arte contemporanea Artissima ha richiamato collezionisti da tutta Europa e non solo. Il Salone del libro, malgrado le recenti traversie, è vivo e vegeto e pochi giorni fa ha totalizzato oltre 127mila visitatori paganti in un’Italia che, com’è noto, non legge e se legge, legge pochissimo.
Cos’altro? Qui c’è il Circolo dei lettori, forte di una programmazione che copre tutto l’anno e che ci invidiano da Trento a Trapani. Ci sono le biblioteche civiche, che malgrado i tagli patiti fanno un lavoro eccellente sul territorio a cominciare da quelle periferie che appena pochi lustri fa erano ancora quartieri dormitorio: e non si tratta solo dei gruppi di lettura, peraltro capaci di coinvolgere decine quando non centinaia di persone a ogni incontro anche, ma non solo, in collaborazione con Salone365 (che, detto per inciso, porta libri e scrittori nei quartieri e nelle carceri), ma di un’opera di integrazione e socializzazione capace di coinvolgere i nuovi arrivati in città. Tutta un’altra storia, rispetto allo stereotipo delle vecchie biblioteche polverose.
Poi, in ordine sparso, Portici di carta, la manifestazione nata da un’idea dei librai indipendenti, che in autunno invade il cuore dell’ex capitale sabauda con la più grande libreria all’aperto d’Italia, e la settimana della lettura intitolata Torino che legge, che lo scorso aprile ha dato vita alla virtuosa collaborazione tra tutti i soggetti che in città si occupano di promuovere la lettura. E per non limitare il discorso al mondo del libro, il Torino film festival già Cinema giovani, che nel corso degli anni ha saputo consolidare la sua reputazione di rassegna magari poco incline al glamour ma da sempre attenta alla qualità.
E ancora il nuovo Jazz festival con la sua sezione sperimentale Fringe e lo Share festival, incentrato sulle nuove tecnologie, e poi quello teatrale delle Colline torinesi, e ogni due anni il Salone del gusto inventato da Carlo Petrini con Slow Food, che presto per la prima volta lascerà i padiglioni del Lingotto per svolgersi in città. Altrove, da palazzo Reale alla Gam alla Fondazione Sandretto a palazzo Madama, mostre che si succedono, Tamara de Lempicka seguita da Monet: anche qui roba da centinaia di migliaia di visitatori. E l’apertura recente di Camera, la nuova fondazione per la fotografia, con una programmazione per nulla scontata e seminari rivolti a chi crede ancora nel mestiere di fotoreporter all’epoca degli smartphone, e ancora l’inaugurazione recentissima del nuovo Polo del novecento, in cui sono confluite associazioni culturali cariche di storia, dal centro studi Piero Gobetti all’istituto Antonio Gramsci.
Al contrario che altrove a Torino c’è ancora vita di quartiere, a cominciare dal centro
L’elenco, che per ragioni di spazio non può essere esaustivo, sarebbe lungo: Torino è oggi la città della penisola dove i teatri registrano la maggiore affluenza, con un pubblico sorprendentemente giovane che affolla gli spettacoli dello Stabile come quelli di realtà off tipo il Caffè della caduta o di una compagnia da sempre all’avanguardia come la Marcido Marcidori & Famosa Mimosa; per tacere del Regio, che ha saputo mettersi alle spalle un momento difficile e oggi ha un bilancio in pareggio, oltre a coinvolgere quarantamila studenti nel progetto “La scuola all’opera” e a vantare ben cinque produzioni in tournée all’estero (en passant va anche detto che il tempio della lirica torinese riserva una quota di posti gratuiti per i più poveri).
Insomma: chiunque abbia la possibilità di fare paragoni con altre realtà italiane, potrà constatare la vitalità della Torino di questi anni. La città non è Roma e non è nemmeno Venezia o Firenze, ma risulta oggi tra le mete italiane più visitate, e non ha perso del tutto la sua identità: abbattere capolavori di architettura industriale per edificare nuove unità abitative, di fatto rimuovendo una parte significativa della memoria industriale e rinunciando a riciclare oltre al Lingotto altre storiche fabbriche, è stata, anche a parere di specialisti del settore, una scelta a cui purtroppo non si può porre rimedio. Allo stesso tempo però, al contrario che altrove, a Torino c’è ancora vita di quartiere, a cominciare da un centro dove le classi sociali si mischiano e dove non vivono solo i più disperati o i più benestanti.
Intorno a piazza Castello non c’è una distesa omogenea di catene e show room e fastfood, che naturalmente sono presenti anche qui, ma resistono ancora fruttivendoli e barbieri e perfino ciabattini; e accanto ai nuovi locali di tendenza si trovano ancora, a cercarle bene, alcune vecchie piole che conservano la stessa gestione da generazioni, e meravigliosi caffè storici a cominciare dal Mulassano: non si tratta di cose scontate, in questo nostro eterno presente invaso da non luoghi e da marchi tutti uguali. Se poi si parla di prezzi al metro quadrato e di costo della vita, Torino – malgrado l’impoverimento collettivo seguito all’introduzione dell’euro e alla precarizzazione sistematica delle vite di giovani e non – offre comunque ai suoi abitanti margini di vivibilità che milanesi e romani si sono scordati da tempo.
La pianura padana come Pechino?
Restano certo questioni non da poco da risolvere, anche se spesso si tratta degli effetti a livello locale dell’ultraliberismo globale a cui si accennava sopra. L’impoverimento, per esempio, è palpabile, lo si vede quotidianamente quando ci s’imbatte nelle code di fronte alle mense pubbliche o si assiste alla chiusura del mercato all’aperto di porta Palazzo, lì dove si parlano tutte le lingue del pianeta e dove una volta smontati i banchi del settore frutta e verdura si aggirano tra i rifiuti non solo pensionati male in arnese ma anche giovani studenti e perfino adulti vestiti in modo più che decoroso. Segno che quanto evidenziano le associazioni che si occupano degli ultimi, dalla Caritas alla Bartolomeo & C., ovvero la discesa nella povertà di fette sempre maggiori di quello che fino all’altro ieri era il ceto medio, è un fenomeno dalle dimensioni inquietanti.
E prima che l’intera pianura padana diventi come Pechino, a Torino come a Milano si dovrà mettere in cima alla lista delle priorità la qualità dell’aria, troppo spesso irrespirabile e causa di malattie non solo tra bambini e anziani. Basta andare su a Superga per rendersi conto della coltre di smog che non di rado copre la città più verde d’Italia, visibile peraltro anche dalle immagini satellitari reperibili su Google, a testimonianza del fatto che il nord del paese è l’area più inquinata d’Europa.
Ecco. Da parte mia vorrei una Torino in cui, accanto ai risultati spesso lusinghieri raggiunti nel settore della cultura (e con ricadute economiche importanti: per i soli cinque giorni del Salone del libro siamo nell’ordine dei cinquanta milioni di euro), non si vedessero più persone costrette a cibarsi con gli avanzi di un mercato, e dove l’aria sia di nuovo respirabile indipendentemente dalle condizioni meteo.
È vero che Torino non è immobile, e resiste: per quanto riguarda il mercato del lavoro, che su scala planetaria registra lo spaventoso arretramento che sappiamo in fatto di diritti e che in Italia è caratterizzato da un “nero” che di per sé costituisce un’economia parallela, negli ultimi tre anni le assunzioni in città sono cresciute. E i famosi tagli alla cultura (che malgrado quello che si è elencato fin qui ci sono stati eccome, ragion per cui in molti casi si è guardato a sponsor privati, a cominciare dalla fondazione San Paolo e da imprenditori illuminati, vedi aziende come Vergnano, Gobino o Damilano) sono serviti a rinforzare il welfare.
Quanto alle emissioni inquinanti, nell’ultimo ventennio in realtà sono calate. Ma appunto: si tratta di cose che non riguardano una sola città, perché chiamano in causa il nostro stesso modello di sviluppo e riguardano molto concretamente il futuro dei nostri figli. Ai quali forse vale la pena di fare una vecchia ma sempre valida raccomandazione. Siate realisti, chiedete l’impossibile.
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