Qualcuno, molto tempo fa, vide e descrisse Parigi a volo d’uccello, in un libro assai amato dalle folle. Poiché Milano è un’imitazione fallita di Parigi, mentre è un’imitazione riuscitissima di Garbagnate, si può fare una descrizione a volo di uccello di una città che fu capitale morale del paese e non lo è più da tempo, che si raccolse sotto il Duomo e oggi non si raccoglie sotto la torre Unicredit, che proprio come Parigi tenta l’Exposition Universelle e non le riesce l’Expo.
Si cala a Milano trapassando le polveri sottili che la assediano, rendendola discernibile all’orizzonte da chilometri e chilometri: da Pavia si scorge una cupola marrone e violacea, comunque livida, che ha in sé qualcosa di cosmico e tumorale. Queste polveri sono certamente sottili per via dell’inquinamento, ma sono anche grossolane perché sono terra: terra grezza. La metropoli lombarda non ha ritenuto adeguato procedere a un salutare mantenimento fisico, bensì ha ambìto a sottoporsi a una botulinizzazione pesante, istantanea, lombrosiana.
Sembrerebbe, Milano, una di quelle signore avvizzite la cui interiorità straparla in A man in full di Tom Wolfe: fanno aerobica, ma si schiantano, e allora sognano l’artificiosa bellezza perduta – forse mai stata – mediante innesti, gonfiamenti, pròtesi, cincischiamenti cellulari.
Così Milano ha ceduto all’opportunismo della contemporaneità, rifacendo al tempo stesso: il polo della Fiera trasformato in City Life, a dimostrazione che nomina nuda tenemus; l’area Expo con il mezzo milione di metri quadri a Cascina Merlata, tutti da edificare, meditando sul futuro prossimo venturo, quando le orde di turisti affamati, che si prevedono e non saranno orde, avranno lasciato i terreni desertificati e vendibili non si sa più a che prezzo; la zona ex Varesine, dove spuntano colossali chicche di tutto pregio, come quell’albero di trenta piani detto Bosco Verticale, che è stato eletto in queste ore “grattacielo più bello del mondo”, in una improbabile quanto emblematica classifica; il progetto delle vasche di laminazione per evitare che debordi il fiume Seveso, esondato già nove volte nell’arco del 2014; la sede della casa editrice Feltrinelli, anch’essa assai verticale, nelle vicinanze di Porta Nuova; metropolitane à gogo, i cui scavi deturpano inutilmente zone storiche come quella del parco Solari.
Una nuvolaglia di terriccio aereo e insidioso accoglie il visitatore che, inerme, discende per vie orizzontali il molosso architettonico della stazione Centrale, stravolta da un irrazionale rifacimento, monumento fascista e massonico che ha il suo contraltare nel monolito bianco del palazzo di giustizia.
Come si può notare, la descrizione è una pura astrazione. Sono già terminati i tempi in cui l’altissima e antennuta nuova torre Unicredit, in costruzione progressiva e contraria, mostrava la facies dell’antro vulcanico, un inferno di titani sottoposti alla legge del Ciclope o di Efesto. Lì si osservavano la materia prima e il primato materico. Piccole sagome umane manovravano lastre di vetro a misura di una fantasia da Speer sotto acidi.
In pochissimi anni è tramontato il modello delabré dei casermoni Aler, quella specie di Tor Sapienza diffusa per tutta Milano, fatiscente e criminogena, che è la banlieue meneghina, dove non è che si scazza tra italiani e zingari e nordafricani, ma si cela l’arsenale segreto di via Salomone, a tutt’oggi la scoperta più inquietante e inindagata di Tangentopoli: una santabarbara che avrebbe potuto lordare di sangue le mani pulite.
Questa città astratta, una specie di Ladispoli del pensiero, una sorta di Mestre del rendering, è prona alla nominazione: archistar e design si incrociano al doposalone in un fiorire di startup o di charities a cui possono intervenire premier e donors nel nuovo skyline. Nessuna tassonomia, nessuna urbanistica: il gesto della mente trova a Milano un suo campo elettivo, assai simile a quello flegreo, perché come quello flegreo si comporta: lo zolfo essuda dalle brecce della terra in altre forme chimiche, ma ugualmente letali. Il bradisismo è quotidiano.
Sotto la giunta Pisapia hanno raggiunto le diecimila unità gli appartamenti sfitti dell’edilizia popolare, che però è controllata da un’altra giunta, quella regionale retta da Maroni
Milano è pressata dal basso. Suppura. Stordisce. Offre l’impensato: gommoni arancioni, cioè del colore della giunta che ha insediato sindaco un altoborghese comunista, intervengono a salvare niente e nessuno mentre ribollono acque stigee del Lambro o del Seveso. Il vomito della falda acquifera emerge in superficie e puzza di fogna. Nelle zone a sud il bacino idrico è ormai a due metri dalla superficie. Le acque trasudano nel terreno chimico, mentre le tangenziali sfregiano con nuove ampie curve e circolarità spiraloidali l’aria satura di polimeri.
Perché tanta acqua? Perché non c’è più lavoro. Le grandi fabbriche attingevano, consumavano, facevano evaporare. Le grandi fabbriche non ci sono più. C’è il sogno da Nimias di un quaternario avanzato, che di anno in anno inventa la propria agonia: prima andavano le app, poi andavano gli ebook, poi andavano i social, sta per andare la VR…
La nominazione contro le acque primordiali e la terraglia informe. È uno stigma morale. Fa schifo. È antipoetico. E controsociale. Sotto la giunta Pisapia hanno raggiunto le diecimila unità gli appartamenti sfitti dell’edilizia popolare, che però è controllata da un’altra giunta, quella regionale retta da Maroni. Sotto la giunta Pisapia si verifica il picco di sgomberi di centri sociali e case occupate dai cosiddetti antagonisti.
Appena le acque grigiomore si sono ritirate da Niguarda, lasciando una spessa palta sul selciato, nella quale si è ritrovato confuso un organismo umano in stato di degradazione cadaverica, appartenente a un suicida che si era inabissato chissà quando, i poliziotti hanno agito con arguzia sociale, andando a manganellare abusivi dei casamenti Aler in zona Giambellino: c’era un signore civilissimo con il cuoio capelluto squarciato e grondante sangue, mentre ancora si tentava di salvare cani e gatti minacciati dalla piena a Lambrate…
Milano è questa controteologia: si può definirla per negazione, da pochi anni a questa parte. Quando uno storico sostituirà il giornalista giustizialista, esponente di una razza mutata in questa città e scagliatasi contro un’altra razza brianzola tronfia e turbocapitalista, si potrà finalmente descrivere con compiutezza ciò che è stato il biennio segnato dalla presenza ultracorporea di Mario Monti, espansosi e fuoriuscito dall’università Bocconi, luogo sempre più astratto, ma che sta crescendo in metratura con cantieri infiniti. “Sotto Monti” si diedero uno psichismo da Serenase collettivo e un’accelerazione prodigiosa di ciò che è appunto astratto e meccanico al contempo. Fu il momento chiave di un passaggio di consegne dall’orrendo al nulla.
Tale nulla è la genesi dell’informe, che ha davvero luogo e tempo milanesi. Tale nulla è pronto a riversarsi sulla nazione intera, in modi che attualmente non si sospettano. Tale nulla è il futuro di qualunque metropoli occidentale. Parigi, al momento, è l’imitazione non ancora fallita di Milano e se ne capisce la ragione: l’imitazione del fallimento è un’opera difficile, storica, che val bene una messa. A proposito della quale bisognerebbe dire della Cattedrale e dell’Arcivescovado, cioè della più vasta diocesi del mondo intero, che crolla, crolla, infinitamente crolla, sfinitamente crolla…
Giuseppe Genna è nato a Milano nel 1969. Ha scritto molti libri, di fiction e saggistica. Il suo ultimo romanzo è La vita umana sul pianeta terra (Mondadori). Lavora nell’editoria da venticinque anni, oggi al Saggiatore.
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